È il giorno del referendum su “Brexit”
I cittadini britannici decidono se restare o no nell'Unione Europea: cosa dicono i sondaggi, cosa succede se vince chi se ne vuole andare
Un referendum si tiene il 23 giugno nel Regno Unito per decidere se rimanere o meno nell’Unione Europea. Si tratta del famoso referendum sul cosiddetto “Brexit”, che sta per “Britain exit”. Per gran parte della campagna elettorale i sondaggi hanno detto che la maggioranza dei cittadini britannici era orientata a votare “remain”, cioè l’opzione per restare dentro l’Unione Europea; nelle ultime settimane però il distacco con i sostenitori dell’opzione “leave” si è ridotto molto.
Orari e qualche numero
BBC scrive che sono 46.499.537 le persone con il diritto di partecipare al voto. I seggi hanno aperto alle 7 di questa mattina, giovedì 23 giugno, e chiuderanno alle 22. Ci sono circa 40 mila seggi in tutto il paese. Dopo la chiusura dei seggi le urne sigillate saranno raccolte e trasportate nelle 382 sedi preparate per il conteggio a livello locale. La commissione elettorale ha fatto sapere che annuncerà ufficialmente il risultato finale la mattina di venerdì 24 giugno «verso ora di colazione».
Cosa dicono i sondaggi
I “poll of polls”, cioè i sondaggi realizzati facendo le medie di tutti i sondaggi in un certo periodo (come quelli di “What UK thinks”), hanno mostrato quasi sempre una prevalenza dell’opzione “remain”. Tra fine maggio e i primi giorni di giugno, l’opzione “leave” ha superato la “remain” arrivando a un vantaggio medio del 2 per cento. Nello stesso periodo alcuni sondaggi, definiti “outlier”, cioè con risultati molto diversi rispetto agli altri, mostravano una prevalenza del “leave” fino a 7 punti percentuali.
Le cose sono cambiate rapidamente la scorsa settimana, quando la deputata laburista – e a favore del “remain” – Jo Cox è stata uccisa da un estremista di destra. Gli ultimi “poll of polls”, realizzati alla fine della scorsa settimana, mostrano una parità tra “leave” e “remain”; mentre un sondaggio commissionato dal giornale Telegraph e pubblicato il 21 giugno mostra un vantaggio del “remain” di sette punti percentuali. Il “poll of polls” del Financial Times aggiornato al 23 giugno conferma la tendenza con una differenza percentuale tra le due possibilità un po’ più ridotta.
Dei quattro sondaggi realizzati negli ultimi giorni, due danno in vantaggio l’opzione “reamain” e due l’opzione “leave”.
Anche quando l’opzione “leave” era in testa, diversi esperti mettevano in guardia dal prendere troppo seriamente i sondaggi. L’Economist, per esempio, ha scritto la settimana scorsa che nonostante la prevalenza dell’opzione “leave”, alla domanda su quale esito pensavano che avrebbe avuto il referendum la maggior parte degli intervistati rispondeva che avrebbero vinto quelli per “remain”. Si tratta di un’importante indicazione su qual è il clima generale in un certo momento, che a sua volta può influenzare molto le decisioni una volta entrati nei seggi. In altre parole, è possibile che chi risponde “leave” alle interviste, cambi idea e voti “remain” una volta arrivati al giorno del referendum. Gli indecisi, inoltre, che sono stimati intorno al 10 per cento dell’elettorato, di solito votano per l’opzione più conservatrice: “remain” in questo caso. Anche le borse da circa una settimana continuano a comportarsi come se si andasse verso una vittoria del “remain”, mentre i siti di scommesse non hanno mai dato la possibilità di una “Brexit” superiore al 40 per cento (nemmeno quando i sondaggi indicavano una maggioranza dei “leave”).
L’ultimo dibattito prima del voto
Il dibattito finale della campagna referendaria si è svolto alla Wembley Arena nella notte di martedì. A rappresentare l’opzione “leave” c’erano l’ex sindaco di Londra Boris Johnson, la deputata laburista Gisela Stuart e la ministra conservatrice dell’Energia Andrea Leadsom. Il nuovo sindaco di Londra Sadiq Khan, la leader del partito conservatore scozzese Ruth Davidson e la segretaria generale della confederazione sindacale Trades Union Congress Frances O’Grady difendevano invece l’opzione “remain”.
Il primo argomento del dibattito è stato cosa accadrebbe al mercato del lavoro e all’economia in generale se il Regno Unito lasciasse l’UE oppure se rimanesse. Johnson ha parlato delle “storie di successo straordinario” delle imprese manifatturiere del Regno Unito, Khan ha parlato del fatto che Brexit cancellerebbe l’industria e metterebbe a rischio 2 milioni di posti di lavoro. Davidson ha anche sostenuto che l’UE potrebbe decidere di imporre dei dazi al Regno Unito se lasciasse l’Unione Europea, ma Johnson ha giudicato “folle” questa ipotesi. Si è parlato anche di immigrazione e Sadiq Khan ha accusato il suo predecessore di aver insistito sulla paura e sull’odio nei confronti dei migranti che, ha detto, hanno portato «benefici economici, culturali e sociali enormi al nostro paese».
BBC scrive che in questo dibattito le frasi e le parole ricorrenti sono state «riprendere il controllo», «progetto di paura», ma anche «come madre» o «come madre e come nonna» nel caso di Gisela Stuart. Le argomentazioni sono state introdotte così spesso con questa formula che sui social network ci sono state molte critiche e prese in giro.
Why do i care if you're a mother? Why have you told me that 5 times? #BBCDebate
— Cleo (@CiaraCleopatra) June 21, 2016
L’ex sindaco di Londra ha ottenuto un grande applauso dopo la sua dichiarazione di chiusura, in cui ha detto: «Giovedì può essere il giorno dell’indipendenza del nostro paese». Ha detto che stava dalla parte di «coloro che credono nel Regno Unito», e ancora: «Ci dicono che non abbiamo altra scelta se non quella di piegarci a Bruxelles, diciamo che stanno tristemente sottovalutando questo paese e quello che questo paese è in grado di fare». Ruth Davidson ha invece chiuso rivolgendosi al pubblico esortando ad andare alle urne con il 100 per cento di convinzione nel proprio voto perché «venerdì non potremo tornare indietro»: «So che l’UE non è perfetta, ma i benefici superano di gran lunga gli eventuali costi». Quella di Davidson è stata considerata dagli osservatori come la migliore performace del dibattito.
Perché alcuni britannici vogliono andarsene dall’Unione Europea?
Per ragioni non molto diverse per cui lo vorrebbero fare diversi leader politici italiani. Riprendersi pezzi di sovranità ceduti all’Europa, avere più libertà nella scrittura delle leggi, poter controllare in maniera più efficace l’immigrazione e così via. Quest’ultimo tema, in particolare, ha quasi monopolizzato la campagna dei “leave”, anche se con sfumature diverse rispetto a come se ne parla di solito nel resto d’Europa. Il problema per i britannici non è costituito dagli sbarchi di rifugiati (soltanto una frazione dei migranti sbarcati in Grecia e Italia è arrivata nel Regno Unito); il problema principale sono gli immigrati che arrivano legalmente dalla stessa Unione Europea, in particolare dal sud-est Europa (anche noi italiani, insomma).
Chi è a favore e chi è contro?
Tutti i partiti di centrosinistra – i Laburisti con qualche esitazione, lo Scottish National Party e i LibDem, cioè il secondo, il terzo e il quarto partito in Parlamento – sono favorevoli a restare nell’Unione Europea. Il Partito Conservatore ha lasciato libertà di scelta ai suoi elettori, ma il suo leader, il primo ministro David Cameron, fa attivamente campagna per restare nell’UE insieme al suo cancelliere dello Scacchiere (l’equivalente del ministro dell’Economia), il conservatore George Osborne.
Il fronte dei contrari è guidato da un altro dirigente dei Conservatori, l’ex sindaco di Londra Boris Johnson (un accanito anti-europeista, famoso per inventare notizie false sulle istituzioni europee quando negli anni Ottanta lavorava come corrispondente da Bruxelles). Il suo principale alleato all’interno del governo è il segretario alla Giustizia, Michael Gove. I partiti che appoggiano il comitato per uscire sono lo UKIP di Nigel Farage e altre piccole formazioni radicali.
Cosa accadrebbe in caso di vittoria dei “leave”?
Nei giorni immediatamente successivi cambierebbe ben poco perché uscire dall’Unione Europea è una procedura lunga e complicata, che può essere svolta velocemente solo in maniera traumatica, cioè mettendo nei guai moltissime persone e aziende. La procedura “ordinata” richiederà come minimo due anni e, probabilmente, qualcuno in più. Sul suo blog, Francesco Marinelli ha indicato tutti i passi necessari a organizzare un’uscita ordinata del Regno Unito. Il problema principale che bisognerà affrontare è la riscrittura di tutti i numerosi trattati che al momento regolano i rapporti del Regno Unito con il resto dell’Unione.
Un’uscita “traumatica”, infatti, lascerebbe in una sorta di zona grigia legislativa tutte le centinaia di migliaia di cittadini europei che lavorano nel Regno Unito e le migliaia di britannici che lavorano nell’Unione Europea. Migliaia di aziende si troverebbero nella stessa situazione. I trattati quindi andranno ridiscussi, ma l’esito di queste discussioni è tutto meno che scontato. Da un lato, per esempio, il Regno Unito vorrà limitare molto la circolazione delle persone (come abbiamo visto, è una delle principali ragioni del referendum). D’altro canto, l’Unione sarà incentivata ad adottare un atteggiamento “punitivo” uguale e opposto (anche per disincentivare altri paesi a lasciare l’Europa). Molti hanno scritto che è probabile che merci e servizi britannici subiranno dazi particolari, che danneggeranno le esportazioni del Regno Unito.
Gli effetti economici per il Regno Unito (e per gli altri)
C’è una sorta di consenso tra economisti ed istituzioni internazionali sul fatto che, almeno nel breve medio-termine, “Brexit” farebbe un danno all’economia britannica ed europea. Molte aziende europee o che fanno affari in Europa hanno la loro sede nel Regno Unito, per ragioni fiscali e perché Londra è una delle principali capitali finanziarie del mondo. In caso di uscita del Regno Unito dall’UE, e con l’incertezza che regna sui futuri negoziati, è probabile che molte di queste società decidano di ridurre il loro personale a Londra e trasferirlo direttamente sul continente (è così, per esempio, per molte aziende di moda). Ci sarebbero anche grosse conseguenze sul cambio della sterlina e sulla quantità degli investimenti che arrivano nel paese. Secondo gran parte delle istituzioni internazionali, delle grandi banche e dei fondi di investimento, tutta questa incertezza sarebbe potenzialmente molto dannosa per l’economia del Regno Unito, ma non solo.
È una regola dell’economia: non appena le cose cominciano a mettersi male, mercati e investitori mollano chi gli sembra più debole. “Brexit” genererebbe certamente preoccupazioni e incertezza: e l’Italia è uno dei paesi dalla situazione più delicata, con bassa crescita, alta disoccupazione e un debito pubblico inferiore soltanto a quello greco. In particolare, è probabile che gli investitori inizino a chiedere immediatamente un premio al rischio più alto per acquistare il debito pubblico italiano, cioè chiedano all’Italia di pagare tassi di interesse più alti, e questo porterebbe a un aumento dello spread, in un momento in cui i conti pubblici italiani sono in delicato equilibrio. È una preoccupazione molto seria: la scorsa settimana il governatore della BCE, Mario Draghi, ha detto che la banca centrale è «preparata a ogni evenienza» in caso di Brexit. Un’altra conseguenza potrebbe essere una diminuzione delle esportazioni italiane nel Regno Unito, in caso i nuovi trattati fossero molto punitivi. Il nostro paese è tra i principali partner commerciali del Regno Unito, dove ogni anno gli imprenditori italiani esportano 21 miliardi di euro di merci.