«Come ho fatto a uscirne viva?»
I racconti impressionanti di tre sopravvissuti alla strage di Orlando, raccolti dal Washington Post
di Katie Zezima − The Washington Post
Jeannette McCoy era giù di morale: si era lasciata male con il suo ragazzo e voleva passare una serata fuori per tirarsi su. Così aveva radunato un gruppo di amici, si era messa un top e delle scarpe col tacco ed era andata al Pulse, un locale gay di Orlando, dove nelle prime ore di domenica scorsa Omar Mateen ha ucciso 49 persone e ne ha ferite 53. «Volevo solo sorridere», ha raccontato McCoy, che ha 37 anni. McCoy, che di lavoro fa la personal trainer, aveva preso un cocktail con vodka alla ciliegia e soda − il suo istruttore di bodybuilding le aveva concesso di bere un drink − e aveva passato la maggior parte della serata a ballare musica latinoamericana. Il locale aveva annunciato l’ultimo pezzo e il suo amico Yvens Carrenard era pronto a tornare a casa. McCoy aveva appena finito di ballare con un altro suo amico stretto, Angel Colon. In quel momento hanno sentito il rumore di colpi di arma da fuoco: «Boom, boom, boom, boom», ha raccontato.
Martedì 14 giugno, un chirurgo dell’ospedale che ha curato la maggior parte dei feriti nella sparatoria ha detto che il numero dei morti − che al momento sono 49, 50 se si conta anche l’attentatore, Omar Mateen − potrebbe salire ancora. Sei pazienti erano in condizioni «critiche», altri cinque «incerte», ha detto Michael L. Cheatham, chirurgo dell’Orlando Regional Medical Center. Durante una conferenza stampa, i medici hanno raccontato che i pazienti sono arrivati «a vagonate». Hanno detto di aver visto persone crivellate dai proiettili e con molte ferite, sul petto, l’addome e la zona pelvica.
McCoy è stata colpita dai detriti. Aveva le spalle rivolte l’ingresso quando Omar Mateen è entrato nel locale sparando, e ha sentito i proiettili sibilarle di fianco. Si è accovacciata e ha cercato di girarsi, assistendo al massacro. «Ho viste persone che venivano colpite, che morivano davanti a me», ha raccontato. «Ho visto la canna e poi tutta l’arma, e si vedeva anche lo scintillio dei proiettili che venivano sparati». Mateen, ha detto McCoy, è stato silenzioso e metodico. «Non ha detto niente, sparava e basta… È entrato con intenzioni malvagie», ha detto McCoy, «ha cercato di uccidere ogni singola persona nel locale». I detriti continuavano a colpirla, le persone inciampavano e cadevano, e tutto quello che McCoy riusciva a sentire erano urla e colpi di pistola. Voleva trovare i suoi amici. «Non stava risparmiando nessuno», ha detto.
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McCoy ha raccontato di aver capito immediatamente che l’assalitore puntava a donne e uomini gay. «Si capiva che era un qualche tipo di crimine basato sull’odio. C’era la sensazione che quell’uomo fosse lì per uccidere ognuno di noi», ha detto. Il suo amico Carrenard, che quando è iniziata la sparatoria era appoggiato a un muro, è corso verso una piccola porta vicino al bar. Si è rannicchiato dentro la stanza insieme a cinque persone, tra cui un uomo che era stato colpito a una gamba. McCoy invece era sulla pista da ballo: a un certo punto ha visto Mateen che veniva verso di lei e si avvicinava al punto in cui prima si trovavano lei e i suoi amici.
«Le persone intorno a me venivano colpite. Nella mia testa continuavo a pensare: “Sarò colpita. Ma anche se vengo colpita, devo uscire”», ha raccontato. McCoy si è piegata e ha iniziato a correre, saltando o superando una ventina di persone a terra e riuscendo a raggiungere l’esterno del locale. Non era sicura di essere stata colpita, ma dopo poco si era resa conto di essere illesa. Dopo aver visto un uomo che era stato colpito a una gamba, si è strappata il top per usarlo come laccio emostatico. Una donna che era stata colpita a un braccio era chiaramente in stato di shock. McCoy ha fatto pressione sulla ferita e ha detto alla donna che il proiettile non aveva colpito gli organi più importanti. C’erano telefoni che suonavano, si sentivano le notifiche dei messaggi delle persone che cercavano di trovare i propri amici o rassicurare i propri cari sulle loro condizioni. Alcune persone avevano abbattuto una parete di legno che circondava la zona all’esterno del locale, per permettere agli altri di scappare. McCoy era venuta a sapere che l’altro suo amico, Colon, era stato colpito. Era esattamente di fronte lei quando era iniziata la sparatoria. «L’unica ragione per cui non sono morta è che il proiettile che avrebbe colpito la mia schiena ha preso la sua», ha raccontato.
Kyle Moore era entrato nel locale per pagare il suo conto ed era scappato all’esterno, dove c’era il suo amico Dorian Wayne. I due hanno raccontato di aver sentito due serie di colpi, e che le persone in mezzo a loro avevano iniziato a correre. Moore e Wayne hanno detto che la polizia è arrivata nel giro di qualche minuto e che la sparatoria è durata circa un’ora. Le autorità hanno reso noto che Mateen prima di entrare aveva chiamato il numero per le emergenze, il 911, e che la scena si è trasformata presto in una trattativa sugli ostaggi. Mentre aspettava di avere notizie dai suoi amici, McCoy si è infuriata con la polizia di Orlando. «Stavo sbroccando contro i poliziotti», ha raccontato, aggiungendo di avergli detto di entrare e salvare le persone e i feriti. Carrenard e Colon erano rimasti all’interno del locale.
Carrenard e le persone con lui si erano nascoste in una piccola stanza, salendo su una scala a pioli. «Non posso morire stasera. Non così», ha raccontato di aver pensato. Carrenard ha chiamato il 911 e ha detto al centralinista dove si trovava, mentre la sparatoria proseguiva. «Sentivo le persone che urlavano in cerca d’aiuto. Sentivo le persone che si lamentavano per il dolore», ha detto, raccontando di come Mateen fosse tornato e avesse ripreso a sparare. «È tornato indietro e si è rimesso a sparare alle persone. Dopodiché non si sentiva più la voce di nessuno», ha detto. Colon era stato colpito tre volte durante la prima serie di spari e si era anche rotto una gamba durante la fuga delle persone. Mateen gli ha sparato altre due volte mentre era steso a terra nel locale.
All’esterno, Wayne e Moore erano in piedi su un marciapiede e stavano scrivendo messaggi a un amico intrappolato in un bagno. «Il nostro amico nel bagno ha detto che Mateen faceva distinzioni di razza», ha raccontato Moore. «Diceva: “Non ho problemi con i neri”». L’amico di Wayne e Moore ha raccontato che una donna nel bagno era riuscita a non farsi sparare dicendo: «Sono nera! Non mi sparare». La madre di un uomo intrappolato nel bagno era arrivata nei pressi della scena e stava scambiando messaggi con il figlio. L’amico di Wayne e Moore ha detto che tra le 4.30 e le 5 del mattino Mateen ha sentito la polizia dire agli ostaggi di allontanarsi dal muro, perché l’avrebbero sfondato per entrare. In un messaggio l’uomo ha chiesto ai suoi amici di sbrigarsi, perché dopo aver sentito che la polizia sarebbe entrata nel locale, Mateen era tornato nel bagno per uccidere altre persone, tra cui la donna che prima aveva risparmiato. Wayne e Moore hanno sentito il rumore dell'”esplosione controllata” e hanno raccontato che il loro amico − che è poi riuscito a uscire − si è salvato solo per una questione di tempo. Carrenard ha sentito la polizia urlare “SWAT” e ordinare alle persone di uscire con le mani in alto: Carrenard e le persone con lui hanno quindi aperto la porta, visto la polizia e alzato le mani. «Mentre uscivo guardavo i corpi per terra perché volevo essere sicuro che non ci fossero miei amici tra loro», ha detto.
Tutti gli amici di McCoy sono sopravvissuti. «Ho detto ad Angel: sei il mio angelo perché ero convinta che sarei stata colpita», ha raccontato McCoy piangendo. Colon è ancora in ospedale. McCoy ha detto che avrebbe dovuto ottenere il permesso di portare con sé delle armi occultate sabato scorso: non sa se avrebbe potuto portare un’arma nel locale, ma ha detto che se ne avesse avuta una avrebbe provato a sparare a Mateen.
Per McCoy i giorni dopo la sparatoria sono stati un incubo. Non è mai stata una persona paurosa, ma domenica sera si è assicurata che tutte le porte e le finestre di casa sua fossero chiuse. Non è riuscita a dormire. Lunedì notte un gruppo di amici è andato a trovarla per tenerle compagnia. McCoy tiene la sua pistola in una cassaforte, ma non ha i proiettili. La sua auto è ancora nel parcheggio del locale. Domenica mattina, dopo la strage, è quasi tornata a casa piedi, prima di trovare un passaggio. Indossava solo il reggiseno e un paio di pantaloni. È arrivata a casa alle sei di mattina, esausta, e si è fatta una doccia. «Guardavo il sangue su di me e non era il mio. Era il sangue delle vittime. Ci ho messo un minuto solo per pulirlo perché pensavo: “Di chi potrebbe essere? Sono vivi?”», ha raccontato piangendo. «Hai addosso il sangue di qualcun altro e riesci solo a fissarlo. Lo fissi e basta. È il sangue di qualcun altro. Non è il mio. Perché non è il mio? Come ho fatto a uscirne viva?».
Alla conferenza stampa all’ospedale di martedì scorso, Angel Colon ha detto di non essere riuscito a scappare perché era stato colpito e perché, quando era a terra, era stato calpestato da altre persone in fuga, che gli hanno rotto le ossa della gamba sinistra. «Lui sparava alle persone già a terra per assicurarsi che fossero morte», ha detto Colon. «Sono riuscito a dare un’occhiata e ho visto che sparava a tutti». Colon ha raccontato di aver visto Mateen sparare a una ragazza sdraiata a terra di fianco a lui. «Ho pensato di essere il prossimo, di essere morto», ha ricordato. Mateen gli ha sparato due volte, colpendolo alla mano e all’anca. Colon non ha reagito: è rimasto a terra, fingendo di essere morto mentre Mateen ha continuato a sparare «per altri 5, 10 minuti, dappertutto». Secondo Colon, Mateen alla fine si è spostato verso l’inizio del locale e ha iniziato una sparatoria con la polizia. Poco dopo, un agente ha afferrato la mano di Colon. «È l’unico modo in cui posso portarti fuori», ha detto l’agente, che si era accorto che Colon non poteva camminare. «Gli sono grato, ma il pavimento del locale era ricoperto di vetri, e quindi mentre mi trascinava mi sono tagliato», ha raccontato Colon. «Non ho sentito dolore, sentivo solo tutto il sangue su di me. Il mio e quello di altre persone». Alla fine l’agente è riuscito a portare Colon dall’altra parte della strada. «Mi sono guardato intorno e c’erano corpi dappertutto, e stavamo soffrendo tutti», ha detto.
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