L’artista che sta prendendo in giro le autorità russe
Petr Pavlensky è riuscito a trasformare un processo contro di lui in una farsa, ridicolizzando il sistema giudiziario
di Leonid Bershidsky - Bloomberg
Quando a novembre l’artista russo Petr Pavlensky incendiò la porta di un edificio dei servizi segreti a Mosca, il suo gesto non fu molto capito, nemmeno dagli oppositori del regime del presidente Vladimir Putin. Secondo molti era stato un banale incendio doloso, niente di artistico. Quando però Pavlensky è stato condannato al pagamento di una multa e liberato, mercoledì 8 giugno, si è capito che aveva prodotto un’opera d’arte, indirizzando il processo da una cella in modo da costringere i suoi accusatori e il giudice a collaborare alla sua kafkiana esibizione.
Le performance passate di Pavlensky – che si era cucito la bocca in segno di vicinanza ai membri del gruppo punk femminile Pussy Riot, all’epoca in carcere, e si era inchiodato lo scroto sui ciottoli della Piazza Rossa di Mosca, per dimostrare come i russi fossero prigionieri del Cremlino – erano state sì scioccanti, ma erano brevi e venivano capite immediatamente. Si poteva sostenere al massimo che mandassero un messaggio troppo semplice. Anche attenendosi a quegli standard, Pavlensky sembrava essere peggiorato: bruciare una porta era un gesto stupido, un atto vandalico, al massimo una mossa disperata per farsi pubblicità. La spiegazione data dallo stesso Pavlensky per spiegare il suo gesto non aveva molto senso: «La paura trasforma le persone libere in una massa appiccicosa di corpi scoordinati», aveva detto. «La minaccia di inevitabili ritorsioni aleggia sopra chiunque sia nel raggio di azione delle telecamere di sorveglianza, delle intercettazioni e dei controlli sui passaporti».
Nonostante l’ultima trovata non sembrasse avere niente di nuovo, gli eventi successivi hanno dimostrato come Pavlensky avesse in realtà un piano più elaborato. Inizialmente Pavlensky era stato accusato di vandalismo motivato ideologicamente, un reato che prevede un massimo di tre anni di carcere. Pavlensky, però, si è opposto con forza all’accusa e aveva chiesto insistentemente di essere processato per terrorismo, come i due attivisti ucraini condannati a una lunga detenzione in Crimea per aver dato fuoco alla porta di una sede locale del partito filorusso Russia Unita. Pavlensky sapeva che le autorità russe non avevano interesse a condannarlo a una pena severa, perché avrebbe alimentato la pubblicità negativa per il regime di Putin simile a quella generata dal caso delle Pussy Riot. Pavlensky ha ottenuto così la sua prima vittoria quando le sue richieste sono rimaste inascoltate: il suo gesto è stato giudicato un reato minore, a differenza di quello degli attivisti ucraini, che era visto come una minaccia per il potere russo nell’annessa Crimea. La diversa valutazione dei due casi, tuttavia, ha fatto apparire la giustizia russa insensatamente selettiva e politicizzata.
Chiunque stesse guidando il processo per conto del Cremlino non aveva interesse a creare un disastro d’immagine simile a quello delle Pussy Riot, e in risposta al tentativo di Pavlensky di politicizzare il processo, l’accusa ha invece cercato di eliminare del tutto la politica. Le accuse contro l’artista russo sono state quindi modificate in «danni contro il patrimonio culturale», per cui il massimo della pena era comunque tre anni di carcere. Le autorità russe hanno quindi deciso di entrare in una disputa artistica con Pavlensky: la nuova accusa aveva lo scopo di dimostrare che aveva distrutto, e non creato, valore artistico. La reazione di Pavlensky è stata ingegnosa.
Mentre si trovava in un carcere di Mosca, era anche sotto processo per un’altra accusa di vandalismo nella sua città natale, San Pietroburgo, dove aveva bruciato degli pneumatici su un ponte storico, per evocare una rivoluzione su piccola scala. Alla fine di aprile due donne vestite in modo provocatorio sono entrate nel tribunale di San Pietroburgo come testimoni della difesa: erano due prostitute ingaggiate dall’avvocato di Pavlensky, che erano state chiamate solo ad esprimere la loro opinione sull'”opera” di Pavlensky. Le due donne hanno detto di considerare Pavlensky mentalmente instabile e non un artista. «Non dipinge quadri di margherite, giusto?», ha detto una delle prostitute. Il giudice era troppo disorientato per fermare la farsa, e ha lasciato che Pavlensky sabotasse il tentativo dell’accusa di disquisire su cosa si potesse considerare arte.
Nel frattempo a Mosca l’accusa cercava di dimostrare il valore culturale della pesante porta dell’edificio in piazza Lubyanka – quella a cui Pavlensky aveva dato fuoco – che durante le epurazioni di Stalin veniva usato per torturare le persone. Durante un’udienza a metà maggio, il procuratore l’aveva detta così: «Qui erano confinate importanti figure scientifiche e culturali». La frase era stata ripresa dai mezzi d’informazione ed era circolata sui social network: Pavlensky non avrebbe potuto trovare un modo migliore per deridere le autorità russe.
Nonostante fosse difficile da superare il tentativo dell’accusa di attribuire un valore culturale a una porta che conduceva a una camera delle torture, Pavlensky aveva un’altra carta da giocare. Dopo la richiesta del pubblico ministero di una multa da 1,5 milioni di rubli (quasi 21mila euro), la difesa ha chiesto al pubblico ministero di punire la polizia segreta russa (FSB) per aver sostituito illegalmente la porta originale con una nuova nel 2008. La nuova porta, secondo la difesa, «non assomigliava assolutamente alla porta originale progettata dall’architetto Alexei Schusev». Pavlensky stava accusando l’FSB dello stesso reato di cui era imputato: distruzione del patrimonio culturale.
Mercoledì 8 giugno il tribunale di Mosca ha condannato l’artista al pagamento di una multa da 500mila rubli e l’ha scarcerato. «Anche se avessi i soldi, non avrei intenzione di pagare», ha detto Pavlensky ai giornalisti in tribunale. «Sarebbe come se pagassi l’FSB per la sua performance». Pavlensky ha pagato caro la sua esibizione, passando sette mesi in carcere e subendo un violento pestaggio dai secondini del carcere, guadagnandosi però il rispetto dei suoi colleghi e degli oppositori di Putin grazie alla freddezza con cui ha trasformato i suoi processi in una farsa.
Il mese scorso la Human Rights Foundation, diretta dall’ex campione di scacchi e oppositore di Putin Garry Kasparov, gli ha assegnato il premio Havel per il dissenso creativo. Kasparov ha lodato «la sua precisione artistica e il suo coraggio» come «artista solitario che si è opposto all’istituzione più potente della Russia di Vladimir Putin». Un apprezzamento forse ancora più importante per Pavlensky è arrivato da Oleg Kulik, uno dei più famosi artisti performativi russi, che su Facebook ha scritto: «L’arte è quando le tue parole corrispondono alla tue azioni, e quando non permetti alla tua attenzione di vagare anche quando sorridere è difficile e quando le tue costole incrinate fanno male e vuoi tornare dai tuoi cari».
Probabilmente Pavlensky è uno degli artisti russi più conosciuti, anche se ha abbandonato da tempo le tele e la pittura. Fa qualcosa di molto più difficile e importante: espone l’assurdità e l’impotenza di un regime che tiene milioni di persone nella paura e obbliga a sostenerlo con una propaganda esplicita. I suoi messaggi sono semplici e hanno pesanti conseguenze a livello personale. Li si può ignorare o rifiutare, ma sono la forma di arte più sensata nella Russia attuale, perché raccontano lo stato del paese più di quanto possa fare qualsiasi dipinto o scultura. Il sistema non è in grado di distruggere né di accettare Pavlensky, che continuerà ad accusare e provocare. E anche se la sua fama non lo renderà mai ricco, prendersi gioco dell’apparato di sicurezza di Putin è di per sé una ricompensa, e una cosa di cui essere fieri.
© 2016 – Bloomberg