Hollywood fa affari con la Cina
E viceversa: perché diventerà il più grande mercato mondiale del cinema e servono sia conoscenze che capitali, per sfruttarlo
La scorsa settimana la società Tang Media Paertners – guidata da Donald Tang, statunitense nato a Shanghai, e con molti affari in Cina – ha annunciato l’acquisizione di IM Global, una grande casa cinematografica statunitense. A gennaio Dalian Wanda – un’importante società cinese con investimenti e attività nei settori dell’intrattenimento, dell’edilizia e del turismo – ha comprato lo studio cinematografico statunitense Legendary Entertainment: uno dei più importanti di Hollywood, quello che ha prodotto Jurassic World, Interstellar e i tre Batman di Christopher Nolan. Questi due affari sono i più rilevanti, ma un recente articolo del Financial Times ha raccontato altri casi che mostrano come «gli investimenti cinesi stanno invadendo Hollywood».
I cinesi stanno investendo nel cinema perché è un’attività remunerativa, perché le conoscenze tecniche statunitensi hanno un grande valore e perché, più in generale, le aziende cinesi hanno molti soldi e stanno investendo in molti settori (chiedetelo ai tifosi dell’Inter). Le società statunitensi stanno accettando i soldi cinesi un po’ perché si tratta di offerte vantaggiose e un po’ perché sperano in questo modo di ottenere una specie di corsia preferenziale per il mercato cinematografico cinese: un paese con tantissimi spettatori e sale cinematografiche ma dove ancora oggi il governo permette solo a pochi film stranieri di entrare nel paese, per proteggere l’industria interna. Un esempio: ancor prima dell’effettivo accordo con Dalian Wanda, Legendary Entertainment si era messa a lavorare a The Great Wall: uscirà a fine 2016, parlerà della Grande Muraglia cinese, il protagonista sarà Matt Damon, il regista sarà il cinese Zhang Yimou.
Secondo i dati diffusi dalla SAPPRFT – l’autorità statale cinese che amministra e regola la radio, il cinema e la televisione – nel 2015 in Cina sono stati inaugurati 22 nuovi schermi cinematografici al giorno e gli spettatori totali sono stati 1,28 miliardi (il 51 per cento in più rispetto al 2014). Gli schermi cinematografici in Cina sono ora più di 31mila (in Nordamerica sono 39mila e in Italia sono meno di cinquemila). La Cina, inoltre, ha ancora ampi margini di crescita: la sua popolazione è quattro volte superiore a quella degli Stati Uniti e nel 2015 ogni cinese è andato in media una volta al cinema in tutto l’anno. Negli Stati Uniti la media di film visti ogni anno da ogni cittadino è invece di 3,2.
Nel 2015 l’industria cinese del cinema è andata benissimo: gli incassi totali sono stati di 44 miliardi di yuan, poco più di 6 miliardi di euro: il 48,7 per cento in più rispetto agli incassi totali del 2014. È dal 2011 che l’industria del cinema cinese non aveva un così grande aumento di incassi (tra il 2013 e il 2014 era stato del 30 per cento) e Hollywood Reporter ha stimato che seguendo questo trend nel 2017 la Cina diventerà il più grande mercato cinematografico al mondo. Sempre nel 2015 il 61 per cento degli incassi cinematografici in Cina è arrivato da film cinesi. Questi film stanno da anni diventando qualitativamente migliori e vanno ovviamente incontro ai gusti cinesi ma i veri motivi del loro successo sono due: i film stranieri sono pochi – ogni anni sono ammessi al massimo di 34 film stranieri – e quei pochi sono fatti uscire in modo tale da scontrarsi tra di loro per rubarsi spettatori, lasciando poi che i film cinesi più importanti possano uscire senza una vera concorrenza.
Il Financial Times ha scritto che per le società statunitensi «c’è la possibilità di una significativa crescita nel mercato cinese del cinema», anche perché lì «gli incassi dei film hanno saputo resistere al generale rallentamento dell’economia»: il cinema cinese sembra quindi essere più solido dell’economia cinese, rappresentando uno dei pochi settori relativamente sicuri, perché con grandi margini di crescita. Guardando la questione dal punto di vista dei capitali cinesi Christopher Vollmer, che si occupa di media e intrattenimento per la società di consulenza PwC, ha detto al Financial Times: «È il collaudato modello cinese: fare accordi con aziende globali per costruire competenze e supportare un forte e robusto business in Cina, che sappia competere testa a testa con società straniere».
L’arrivo di soldi cinesi nel cinema statunitense è relativamente recente. Il Financial Times ha però spiegato che già in passato erano arrivati soldi stranieri a Hollywood: nel 2008 una società indiana controllata dal miliardario Anil Ambani investì nella DreamWorks, la società fondata da Steven Spielberg, e nel 1989 la giapponese Sony investì più di tre miliardi di dollari nella Columbia Pictures (che diventò la Sony Pictures Entertainment). In questi e in altri casi citati dal Financial Times le cose andarono piuttosto male e ai grandi investimenti seguirono grandi perdite. Riferendosi a quegli accordi si parla in gergo di “dumb money”, investimenti stupidi, fatti cioè senza le necessarie competenze. Secondo il Financial Times sono però in molti a pensare che i soldi cinesi siano tutt’altro che stupidi e che questa volta le cosa possano andare in modo diverso: gli investimenti stranieri del passato puntavano a comprare gli studi cinematografici, gli investitori cinesi si concentrano invece sui contenuti.
Quello degli affari tra aziende cinesi e case cinematografiche statunitensi è anche uno di quei casi di cui si può dire che, forse, “siamo solo all’inizio”. Tang, l’imprenditore la cui società ha acquisito IM Global ha detto che secondo lui in 10 anni «due dei sei più grandi studios di Hollywood avranno nomi cinesi». Secondo Tang gli investitori cinesi vogliono soprattutto imparare «le magie dello storytelling» ma che l’industria del cinema ha comunque bisogno di essere sistemata e razionalizzata. Tang ha in particolare criticato il modello di business noto come “risk reward”, quello in base al quale gli studios fanno molti film sapendo già che la maggior parte di essi andranno male e che gli investimenti fatti per quei film saranno ripagati dai grandi incassi di uno o due film che, si spera, andranno benissimo. Tang ha detto al Financial Times: «dobbiamo assicurarci che la Cina non prenda le brutte abitudini di Hollywood».