Come si esce dall’Unione Europea, in pratica?
È un processo semplice in teoria, ma che non ha mai intrapreso nessuno e che in pratica potrebbe creare grossi problemi a tutti
Il prossimo 23 giugno i cittadini del Regno Unito voteranno per rimanere o lasciare l’Unione Europea, nel referendum soprannominato “Brexit“. Una vittoria dei favorevoli all’uscita è vista con molta preoccupazione in tutto il continente e con particolare timore nei paesi economicamente più fragili, come l’Italia. Una delle principali ragioni di timore è l’incertezza su cosa succederebbe dopo un’eventuale uscita del Regno Unito dalla UE: oltre ai rischi di danni economici nel Regno Unito, c’è da considerare il fatto che mai un paese è uscito dall’Unione Europea e nessuno ha idea di cosa accadrà esattamente se e quando succederà per la prima volta.
E che problema c’è?
Non si può approvare una legge che stabilisce l’uscita di un paese dall’Unione la notte stessa del referendum perché i rapporti legali tra Regno Unito ed Europa sono regolati da accordi e trattati che derivano proprio dalla sua appartenenza all’Unione. I più importanti di questi trattati sono quelli che definiscono il cosiddetto “mercato unico europeo”. Tra i paesi europei non ci sono barriere allo spostamento di persone, merci o capitali: un cittadino italiano può decidere di andare a studiare in Belgio o di lavorare in Germania senza bisogno di chiedere permessi, mentre un’impresa spagnola può esportare in Francia senza dover pagare tasse o affrontare barriere doganali. Uscendo dall’Unione nel giro di una notte, centinaia di migliaia di europei nel Regno Unito e altrettanti britannici in Europa, oltre a migliaia di imprese, si troverebbero improvvisamente in un’area legale grigia, con conseguenze imprevedibili e potenzialmente caotiche.
Come si lascia l’Unione Europea?
La strada per lasciare l’Unione Europea è complessa e molto lenta: sembra, in un certo senso, disegnata per scoraggiare gli stati membri ad andarsene. Il primo passo da compiere è fare appello all’articolo 50 del Trattato di Lisbona, il documento fondamentale dell’Unione Europea.
Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione.
Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l’Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione. L’accordo è negoziato conformemente all’articolo 218, paragrafo 3 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Esso è concluso a nome dell’Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo.
L’articolo stabilisce un limite di tempo di due anni affinché il Consiglio europeo e il paese che vuole lasciare l’Unione trovino un accordo sui nuovi trattati da approvare per regolare i loro nuovi rapporti. In questo spazio di tempo, il paese che vuole uscire dovrà continuare a rispettare i regolamenti europei, ma non parteciperà più al processo decisionale dell’Unione. L’articolo prevede che, al termine dei due anni, il Consiglio europeo formuli una proposta di accordo con un voto a maggioranza dei suoi membri. Il paese che vuole uscire, a quel punto, avrà la possibilità di accettare o respingere la proposta.
Contemporaneamente, ci saranno altri negoziati, per stabilire un nuovo accordo che regoli i rapporti commerciali. Il problema è che queste trattative rischiano di richiedere molto più dei due anni previsti dal trattato. Canada ed Unione Europea, ad esempio, stanno trattando da oltre sette anni per stabilire un nuovo accordo commerciale e il risultato dei negoziati deve ancora essere ratificato. L’articolo 50 prevede la possibilità di estendere ulteriormente il tempo dei negoziati, ma soltanto se entrambe le parti sono d’accordo. Questo significa che, dopo due anni, l’Europa potrebbe presentare un accordo al Regno Unito “prendere o lasciare”.
I sostenitori del Brexit dicono che per il paese sarà facile uscire dall’Unione, ma restare nello “Spazio economico europeo”, il nome ufficiale del mercato unico (spesso indicato con la sua sigla in inglese EEA). Norvegia e Islanda attualmente fanno parte dell’EEA senza essere parte dell’Unione. Il Regno Unito potrà seguire questa strada soltanto se l’Europa vorrà concederlo.
I casi precedenti
Non ci sono casi precedenti di paesi usciti dall’Unione Europea, anche se nel corso della sua crisi la Grecia sembra esserci andata vicino parecchie volte. La situazione greca era ancora più complessa, perché il paese sarebbe uscito non solo dall’Unione, ma anche dall’euro. L’eventualità, comunque, non si è mai verificata, e anche nei momenti peggiori della crisi i sondaggi hanno quasi sempre mostrato una maggioranza di cittadini favorevoli a restare nell’area della moneta unica. L’unico altro caso riguarda la Groenlandia, un territorio dipendente dalla Danimarca che nel 1982 decise di separarsi da quella che allora si chiamava Comunità Economica Europea. Nonostante la Groenlandia avesse soltanto poche decine di migliaia di abitanti, praticamente zero immigrati e un’economia molto ridotta, il nuovo trattato che regolava i suoi rapporti con il resto della comunità impiegò tre anni ad entrare in vigore.
Quindi cosa farà il Regno Unito?
Il rapporto elaborato dal governo britannico sul Brexit sottolinea che un voto favorevole all’uscita al referendum sarebbe il “primo passo” della procedura, non certo la sua fine. E accenna alla possibilità che l’intero processo possa richiedere fino a dieci anni. È difficile prevedere cosa accadrà in futuro in una situazione che non si è mai verificata prima, ma, sulla carta, i passi che i vari attori dovrebbero intraprendere sono più o meno questi:
• Il 23 giugno il referendum viene vinto dai favorevoli all’uscita;
• Alla prima occasione utile il governo britannico fa appello all’articolo 50 del Trattato di Lisbona;
• Il governo britannico e il Consiglio dell’Unione Europea iniziano a trattare sulle modalità di uscita del Regno Unito dall’Unione Europea;
• Contemporaneamente, inizia un secondo negoziato per stabilire un nuovo accordo commerciale;
• Se entro due anni non viene raggiunto un accordo, il Consiglio europeo e il governo britannico devono trovare un accordo per estendere la durata dei negoziati
• Al termine dei negoziati, il Consiglio europeo presenta una proposta che il governo britannico può accettare o respingere. Secondo il governo britannico, questi negoziati potrebbe richiedere fino a dieci anni;
• Una volta stabilite le modalità di uscita e un nuovo trattato commerciale, il Regno Unito è pronto a uscire dall’Unione Europea;
Cosa può andare storto?
Un mucchio di cose. È possibile che, in caso di vittoria dei favorevoli all’uscita, l’attuale governo del conservatore David Cameron cada. Cameron ha indetto il referendum, ma si è schierato contro l’uscita dall’Unione dopo essere riuscito a negoziare nuova autonomia da Bruxelles lo scorso febbraio. La caduta del governo aprirebbe a nuovi scenari di instabilità, con la necessità di formare un nuovo governo e forse di andare ad elezioni anticipate. Il processo di uscita, inoltre, sarà probabilmente molto lungo. Cosa accadrebbe se in questo lasso di tempo dovesse andare al potere una maggioranza favorevole alla permanenza nell’Unione?
Nel Regno Unito c’è addirittura chi sostiene che in caso di vittoria dei favorevoli all’uscita, non ci sarebbe “davvero” bisogno di uscire perché, secondo loro, l’Unione proporrà al Regno Unito un nuovo accordo ancora più favorevole di quello ottenuto a febbraio, pur di evitare i rischi di instabilità che derivano da un’uscita. Secondo molti però, tra cui il settimanale Economist, è molto difficile che gli europei adottino un atteggiamento generoso nei confronti del Regno Unito. Anzi: c’è la possibilità che venga deciso di punire il paese, per evitare di incentivare altri stati a seguire il suo esempio.
Altre cose possono andare male nel corso delle lunghe trattative previste dall’articolo 50. Uno degli argomenti con cui i favorevoli all’uscita minimizzano i rischi di lunghe trattative è che il Regno Unito è un importatore netto di merci europee – significa che il paese compra dal continente più di quanto vende, quindi i governi europei sono incentivati ad approvare rapidamente un nuovo accordo commerciale, in modo da non danneggiare le loro imprese esportatrici. Ma se questo è vero per paesi manifatturieri come Italia e Germania, non lo è altrettanto per paesi come Polonia e Slovenia, che dal Brexit otterranno soltanto svantaggi, in termini ad esempio di peggiore trattamento dei loro cittadini emigrati nel Regno Unito (una delle ragioni principali del Brexit è mettere nuove barriere e ridurre i benefici di cui godono gli immigrati provenienti dall’Unione Europea). Un nuovo accordo commerciale dovrà essere approvato all’unanimità (a differenza di quello per stabilire le modalità di uscita), quindi basta un solo stato membro a bloccare tutta la trattativa.