Ha senso paragonare grandi atleti del presente e del passato?
In America se ne parla molto dopo l'incredibile stagione dei Golden State Warriors, ma vale per tutti gli sport: e la risposta è no
di Jerry Brewer – The Washington Post
Jeff Van Gundy, ex allenatore di basket della NBA e oggi opinionista sui network americani ABC ed ESPN, è troppo intelligente, equilibrato o forse troppo timoroso per farsi coinvolgere nel dibattito più inutile dello sport americano di oggi: i Golden State Warriors sono la cosa più grande successa al basket dai tempi dell’invenzione del crossover (il palleggio incrociato con cui un giocatore sposta velocemente la palla da una mano all’altra nell’uno contro uno), o sono solo un’aberrazione gonfiata di quest’epoca della NBA, diventata più “gentile” e meno dura? È un dibattito inutile, in effetti, ma dopo tutto cosa sarebbe lo sport senza i dibattiti inutili? In qualche modo, Stephen Curry e i Warriors si sono sostituiti a LeBron James – ancora una volta loro avversario nelle finali NBA – diventando la superpotenza del basket che ha maggiori probabilità di far discutere le persone fino a fare perdere loro la voce.
Fino a poco tempo fa i Warriors erano soltanto una squadra da ammirare. Poi, però, hanno messo in discussione e superato il record di vittorie in stagione regolare dei Chicago Bulls di Michael Jordan – che durava da vent’anni – e Curry è diventato il primo giocatore della storia dell’NBA a essere eletto all’unanimità come MVP, il miglior giocatore del campionato (o meglio: il più utile per la sua squadra). Oggi, a due vittorie dalla conquista del loro secondo titolo consecutivo e dopo aver ottenuto il record di 73 vittorie e 9 sconfitte in stagione regolare, i Warriors sono diventati così grandi da non poter essere davvero così grandi. Mentre cercano di diventare una leggenda, ci si chiede quanto davvero lo siano, grandi: sono al livello dei Bulls di Michael Jordan? A quello dei Los Angeles Lakers di Magic Johnson? O hanno raggiunto il livello più alto dei Boston Celtics di Bill Russell, vincitori di 8 campionati consecutivi? Se inserite i Warriors in quest’élite, allora siete degli idioti convinti che il basket sia iniziato quando Golden State ha vinto il titolo lo scorso giugno. Se non lo fate, però, siete degli idioti affetti da livelli di nostalgia patologici.
Poi c’è Van Gundy, che ne ha per tutti. «I confronti uccidono la bellezza», ha detto l’ex allenatore NBA che quest’anno commenta le finali in tv per il decimo anno, un record. «Se inizi a discutere di chi è meglio tra squadre che non hanno mai potuto affrontarsi, i complimenti verso una squadra vengono interpretati come un modo di sminuire l’altra. Conosco la mia opinione, ma dico che fare confronti non fa bene a nessuno. Una cosa certa è che i Warriors hanno fatto la migliore stagione regolare nella storia del basket. Hanno lavorato sodo per farcela e meritano tutti i riconoscimenti». Quello di Van Gundy è un punto di vista corretto e maturo. Non si può mettere Jordan, Scottie Pippen e il resto della squadra di Phil Jackson in una macchina del tempo e riportarli in campo oggi, nel loro periodo migliore. Come non si può portare Curry, Klay Thompson e il resto della squadra di Steve Kerr nel 1996 (l’unica cosa certa è che a Draymond Green verrebbero fischiati un sacco di falli tecnici in qualsiasi epoca). È un dibattito complesso che coinvolge diverse generazioni, che tifosi, media e addirittura ex giocatori cercano di banalizzare, alzando i toni.
Durante questa stagione ho imparato molte cose seguendo un progetto di tre mesi che racconta perché l’NBA si sia trasformata in un campionato basato sul ruolo del playmaker. Una parte fondamentale del progetto era dedicata alle tesi insensate che circolano nel dibattito intorno a Curry e ai Warriors. Dodici anni fa sono entrati in vigore una serie di cambiamenti alle regole del basket NBA che limitano il cosiddetto hand-checking (un tipo di fallo che viene commesso quando un giocatore tiene una o entrambe la mani appoggiate su un avversario) e il gioco fisico, soprattutto all’interno del perimetro. Oggi in NBA i giocatori possono muoversi più liberamente e i giocatori più bassi hanno un vantaggio in termini di velocità difficile da arginare, che ha permesso all’NBA di tornare alle origini – quando il gioco era più rapido – e di enfatizzare l’importanza dell’occupazione dello spazio in campo, dei passaggi e dei tiri. Tutto questo non rende i giocatori migliori della nostra epoca peggiori, ma soltanto diversi. Ovviamente i Warriors sono un prodotto del loro tempo: una squadra costruita alla perfezione per sfruttare ogni possibile vantaggio. Sono una macchina efficiente ed equilibrata, con un’impressionante capacità di tiro in attacco e un sistema difensivo flessibile in grado di gestire diversi stili di gioco. I loro successi fanno pensare che sarebbero grandi in qualsiasi epoca, anche se sono fatti per giocare in questa. Per questo motivo i Warriors hanno dato origine a un acceso dibattito sul modo in cui si dovrebbe giocare a basket.
(Thomas Johnson/The Washington Post)
I detrattori dei Warriors hanno intensificato le loro critiche durante le finali della Western Conference di quest’anno, quando Golden State era in svantaggio per 3 a 1 contro Oklahoma City, prima di batterli in gara sette. L’ex giocatore Oscar Robertson ha sminuito la grandezza di Curry, sostenendo che oggi la fase difensiva venga allenata e applicata male e questo lo favorisca. Pippen ha detto che i suoi Bulls avrebbero sconfitto i Warriors. L’ex giocatore Charles Barkley continua a deridere il particolare modo di costruire i tiri da fuori dei Warriors. Quando lo scorso mese Curry è diventato il primo giocatore della storia della NBA a essere eletto unanimemente MVP, Tracy McGrady, un altro grande ex giocatore degli Houston Rockets, ha detto a ESPN che «il fatto che sia il primo giocatore a essere eletto come MVP all’unanimità secondo me dimostra quanto sia sceso il livello del nostro campionato». L’elenco dei cosiddetti “haters” potrebbe andare avanti a lungo, mentre dall’altra parte i sostenitori di Golden State si stupiscono del fatto che questi vecchi giocatori facciano ancora discutere.
(Thomas Johnson,Osman Malik/The Washington Post)
Quando a febbraio iniziarono a circolare le frasi di Robertson, stavo seguendo i Warriors. Eravamo a Orlando quella sera, e Curry aveva fatto 51 punti. Le parole di Robertson fecero innervosire l’allenatore dei Warriors, Kerr, che di solito è una persona affabile. «Oh, ma certo», disse Kerr, in modo sarcastico, «quando giocavo avrei fermato Steph. Perché cinquant’anni fa gli atleti erano molto più grossi, forti e veloci, erano preparati meglio. Steph non sarebbe emerso nel campionato di allora».
Il problema dei dibattiti come questo non è la mancanza di argomentazioni valide. Entrambe le parti hanno le loro ragioni. Di sicuro il basket dell’NBA oggi è meno duro, il che favorisce il gioco rapido dei Warriors. Ma le regole da sole non spiegano il livello più alto che si è visto durante il campionato: il numero di giocatori, di tutte le stazze, in grado di tirare efficacemente; la gestione della palla e i passaggi da ogni posizione del campo; il modo in cui viene sfruttato il superiore livello atletico; la capacità di capire quando è giusto o meno provare il tiro. Questo non è lo stesso sport giocato da Jordan quando vinse sei campionati negli anni Novanta, che a sua volta era diverso da quello giocato da Magic Johnson e Larry Bird negli anni Ottanta, o da Kareem Abdul-Jabbar negli anni Settanta, o ancora da Bill Russell e Wilt Chamberlain negli anni Sessanta. Gli sport si evolvono e le regole cambiano. Oggi in campo scendono atleti diversi, che ci aiutano a immaginare il gioco in modo diverso. Questa è la parte migliore del basket, mentre il modo in cui ne parliamo ne rappresenta il peggio.
«Non è una questione di hand-chekcing, di regole, e di qualsiasi altra cosa di cui volete parlare», ha detto il leggendario ex giocatore della NBA Isiah Thomas. «Le grandi squadre trovano sempre un modo, come i grandi giocatori. E Steph è un grande giocatore. In un’altra epoca avrebbe dovuto giocare diversamente, e l’avrebbe fatto. Forse non riusciamo a chiudere gli occhi e vederlo, ma l’avrebbe fatto. Come avrebbe fatto anche Golden State», ha aggiunto Thomas. «Will Robinson, un grande allenatore che è stato il mio mentore nel periodo in cui giocavo a Detroit, diceva sempre: “La capacità di tirare copre molti difetti”. Una cosa che so di Curry e di Golden State è che sanno fare canestro, e questa è una capacità che si può applicare a qualsiasi era del basket». Quindi Thomas voleva dire che Golden State avrebbe sconfitto i suoi Detroit Pistons? Van Gundy ha ragione: i confronti uccidono la bellezza. Ma non lasceremo mai che il senso delle proporzioni li fermi.
© 2016 – The Washington Post