Otto storie su Muhammad Ali
Cominciò tutto con una bici rubata, ma rischiò di finire presto per la sua paura di volare: 8 momenti importanti della vita del più grande pugile di sempre
Muhammad Ali, il pugile più famoso di tutti i tempi, è morto nella notte tra venerdì 3 e sabato 4 giugno in un ospedale di Phoenix, in Arizona, la città dove da tempo viveva con la quarta moglie Lonnie. Aveva 74 anni e nacque con il nome di Cassius Clay, che nel 1964 cambiò quando si convertì all’islam. Ali fu pugile nel periodo di massimo splendore della boxe, quando i lottatori che si contendevano i titoli mondiali erano delle vere e proprie celebrità. Il suo soprannome era “the Greatest”, il più grande, e ancora oggi è considerato forse lo sportivo più famoso di tutti i tempi. Ma la sua carriera non fu semplice e fu spesso contestato, per la scelta di convertirsi all’islam e cambiare nome e per il suo rifiuto di combattere nella guerra in Vietnam. L’intera carriera di Ali, dagli inizi agli ultimi anni, è fatta di grandi storie, in parte determinate dall’epoca in cui visse ma soprattutto dalla sua fortissima e carismatica personalità.
Tutto cominciò con una bicicletta rubata
Muhammad Ali venne introdotto nel mondo della boxe da Joe Martin, poliziotto di Louisville e allenatore di pugilato alla palestra “Columbia”. Nel 1954, a dodici anni, Ali andò ad una fiera cittadina in cui regalavano hot dog e caramelle. Ci andò in bici e la lasciò vicino ai banchi montati per la fiera. Quando tornò scoprì che era stata rubata, e si arrabbiò moltissimo. Incontrò per strada Martin, che cercò di consolarlo e calmarlo: Ali minacciava di picchiare il responsabile del furto, e Martin lo portò alla sua palestra, che era lì vicino. Da quel giorno Ali iniziò ad allenarsi cinque giorni a settimana e per diversi anni venne allenato proprio da Martin.
La sua carriera rischiò di finire presto per la sua paura di volare
Il primo importante successo di Muhammad Ali fu la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma del 1960, alle quali rischiò di non partecipare per via della sua paura di volare. Nelle settimane precedenti alla partenza chiese di poterci andare via mare, e a convincerlo a prendere l’aereo fu Joe Martin. Per il viaggio si procurò un paracadute in un negozio di articoli militari, che tenne vicino per tutto il viaggio. Nel torneo olimpico superò i primi turni senza il minimo problema, e in finale sconfisse il pugile polacco Zbigniew Pietrzykowski, bronzo alle Olimpiadi di quattro anni prima. Ali perse la medaglia poche settimane dopo averla ottenuta (lui disse di averla gettata nel fiume Ohio). Tornato negli Stati Uniti, firmò il suo primo contratto da professionista.
Il labbro di Louisville
Ali fu soprannominato anche “Louisville lip” (letteralmente il labbro di Louisville, ma è un modo di dire per indicare chi parla molto) per la quantità esorbitante di insulti che rivolgeva ai propri avversari in qualsiasi occasione se li trovasse di fronte, e anche per il suo uso abitudinario di altre imprecazioni. Soprattutto nei suoi primi anni da professionista, Ali era un tipo molto esuberante, e poco dopo il suo debutto tra i professionisti, quando si era già rivelato più forte della grande maggioranza dei suoi avversari, iniziò a fare delle previsioni sui round in cui avrebbe vinto gli incontri, e fra quelli disputati intorno al 1962 ne indovinò sette su otto: contro Don Warner disse di aver deciso di vincere al quarto round invece che al quinto perché Warner non gli aveva stretto la mano.
Il primo incontro con Sonny Liston, arrivato non si sa bene come
Grazie alla sua nota esuberanza si procurò anche il suo primo incontro per il titolo mondiale dei pesi massimi. Nel 1963 Ali seguì l’allora campione del mondo dei pesi massimi Sonny Liston a Las Vegas e i due si ritrovarono insieme in uno dei casinò della città. Liston stava giocando e perdendo al tavolo del craps (un gioco di dadi), Ali lo vide e da qualche metro di distanza urlò: “Guardate quel grosso e brutto orso, non ne fa una giusta!”. Liston lo sentì, si alzò e lo raggiunse per dirgli: “Se non te ne vai entro dieci secondi prendo quella grossa lingua che hai e te la ficco su per il culo”. Ali se ne andò, ma era a Las Vegas appositamente per ottenere un match contro Liston. In qualche modo lo raggiunse nei giorni successivi nella sua casa di Denver, da dove uscì con l’accordo per l’incontro, che poco dopo venne ufficializzato. Quell’incontro venne vinto contro ogni pronostico da Ali, che diventò il nuovo campione del mondo dei pesi massimi. Dopo aver vinto disse: «Sono il re del mondo, sono carino, sono cattivo. Ho scosso il mondo, ho scosso il mondo!»
La religione e la guerra in Vietnam
Dopo la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma, Ali si trasferì temporaneamente a Miami per allenarsi. Qui iniziò a frequentare una moschea e a conoscere gli attivisti della Nation of Islam, il movimento musulmano per i diritti dei neri guidato da Malcom X. Ali si convertì all’islam nel 1964, e cambiò il suo nome da Cassius Clay a Mohammad Ali. Annunciò la sua conversione dopo l’incontro vinto contro Liston, ma in realtà aveva preso la decisione tempo prima, e non lo aveva rivelato solo per mantenere la concentrazione sull’incontro. Il padre di Ali non fu affatto contento della sua decisione e accusò “alcuni musulmani” di aver costretto suo figlio alla conversione con la forza. Due anni più tardi Ali si rifiutò di combattere nella guerra in Vietnam e in una celebre intervista disse: “La mia coscienza mi impedisce di andare ad uccidere dei miei fratelli, o gente più scura di me, o povera gente affamata nel fango per la grande e potente America. E sparargli per cosa? Non mi hanno mai chiamato negro, non mi hanno mai linciato, non mi hanno attaccato con i cani, non mi hanno privato della mia nazionalità, o stuprato e ucciso mia madre e mio padre. Sparargli per cosa? Come posso sparare a loro povera gente, portatemi in prigione e basta”. Per aver rifiutato di arruolarsi, Ali venne condannato, ma fece ricorso: non combatté per tre anni e mezzo, e ritornò a 29 anni.
“The Rumble in the Jungle” e “Thrilla in Manila”
Nel 1974 Ali prese parte ad un memorabile incontro organizzato a Kinshasa, nell’allora Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo) e passato alla storia come “The Rumble in the Jungle” (la rissa nella giungla). Ali aveva perso il titolo mondiale dei pesi massimi tre anni prima e tutti lo davano per sfavorito contro il campione George Foreman, che aveva 25 anni contro i suoi 32. Il match fu uno dei primi organizzati da Don King – che sarebbe diventato il più grande impresario di incontri di boxe del mondo – che aveva promesso ai due avversari 5 milioni di dollari per il vincitore. Per raccoglierli King accettò l’offerta dell’allora presidente dello Zaire Mobutu di ospitare l’evento nel suo paese. Appassionati e commentatori sportivi erano certi della vittoria di Foreman, che oltre a essere più giovane di Ali era noto per l’impressionante potenza e forza muscolare. Ali cercò di vincere la partita tatticamente, e fu in quest’occasione che mise in pratica per la prima volta la strategia del rope-a-dope: anziché attaccare Foreman, si appoggiò per gran parte dell’incontro alle corde del ring lasciandosi colpire dall’avversario, incitandolo e provocandolo. Ali resisteva ai colpi, che venivano in parte assorbiti dall’elasticità delle corde, e quando Foreman era esausto lo attaccava con una scarica di colpi indirizzati soprattutto al volto. L’anno dopo, nella capitale delle Filippine Manila, Ali sconfisse il rivale Joe Frazier per K.O. tecnico, dopo che l’allenatore di Frazier gettò la spugna tra 14esima e la 15esima ripresa a causa dell’afa soffocante in cui si disputò il match. Ali poi rivelò che se Frazier non si fosse ritirato, lo avrebbe fatto lui dopo la 15esima ripresa.
La volta che convinse un ragazzo a non suicidarsi
Nel gennaio del 1981 Ali riuscì a salvare un ragazzo che aveva intenzione di buttarsi da un grattacielo nel centro di Los Angeles. Prima che arrivasse Ali, la polizia aveva tentato per ore di persuadere il ragazzo, senza riuscirci. Howard Bingham, che all’epoca gestiva le pubbliche relazioni del pugile, venne a sapere della notizia e propose ad Ali di intervenire, dato che abitava ad un miglio dal grattacielo. Ali arrivò guidando in contro mano la sua Rolls-Royce, e arrivò sul posto: quando il ragazzo lo vide, gli disse: “Sei davvero tu!”. Ali gli parlò per mezz’ora, tra le altre cose gli disse: “Sei mio fratello. Ti amo e non ti mentirei mai. Devi ascoltarmi. Voglio che vieni a casa con me, che conosci qualche mio amico”. Alla fine Ali gli mise un braccio sulle spalle e lo accompagnò fuori dall’edificio: ad aspettarli c’erano moltissime persone, ma Ali le ignorò e fece salire il ragazzo sulla sua Rolls Royce, per andare dalla polizia.
I due incontri più difficili
Furono gli incontri più duri della carriera di Ali, che vi prese parte quando ormai era praticamente giunto al ritiro e con una forma fisica molto lontana da quella degli anni precedenti. Quello con Earnie Shavers, che Alì definì “il pugile più potente mai incontrato” fu probabilmente il più dannoso per la salute di Ali, e molti attribuirono la sua malattia ai colpi violentissimi subiti in quell’incontro, che comunque Ali vinse ai punti. Ali disputò il suo penultimo incontro con Larry Holmes, il suo vecchio sparring partner (gli avversari degli allenamenti) che nel frattempo era diventato campione. Per cercare di arrivare preparato all’incontro assunse una grande quantità di diuretici, ma i farmaci non fecero altro che appesantirlo. Più avanti disse: “Arrivai alla fine del primo round stanco morto, e ne restavano altri 14”. Arrivò fino al decimo, senza vincerne uno, quando il suo allenatore Angelo Dundee gettò la spugna e ritirò Ali dal combattimento. Al termine dell’incontro Ali era completamente stordito e non accennò alla minima protesta. L’ultimo incontro ufficiale di Ali si tenne alla Bahamas contro il giamaicano Trevor Berbick, che vinse al decimo round.