Come Game of Thrones ha cambiato la morte in tv
Ha spiazzato gli spettatori uccidendo all'improvviso personaggi principali, ma poi gli è scappata un po' la mano, scrive Vox
Secondo Todd VanDerWerff, capo della sezione culturale di Vox, il 12 giugno 2011 la televisione è cambiata. È il giorno in cui negli Stati Uniti andò in onda il nono episodio della prima stagione di Game of Thrones. Se negli ultimi cinque anni siete stati in una grotta, meglio non continuare (sì, ci sono SPOILER). Per tutti gli altri: quel giorno di giugno, in quel nono episodio, fu decapitato Ned Stark, uno dei principali protagonisti della prima stagione di Game of Thrones, la più popolare serie tv degli ultimi anni, tratta dalla saga di G.R.R. Martin. Fu una morte decisiva per la tv: andò contro la prassi per cui i protagonisti, specie se buoni come Ned Stark, sopravvivono sempre e costrinse gli spettatori a modificare le loro aspettative.
VanDerWerff spiega che: «La morte di un protagonista è un Rubicone che la tv non aveva quasi mai oltrepassato. Quando le serie tv facevano morire i protagonisti, lo facevano di solito per motivi di contratto [cioè se un attore decideva di lasciare la serie] e negli ultimi episodi: non al nono episodio [su dieci] della prima stagione». Secondo VanDerWerff probabilmente quel giorno la tv cambiò in peggio: uccidere tanti personaggi è diventata una pratica talmente assodata da diminuire l’impatto e il significato di quelle morti.
Vox ha tenuto il conto di tutti i personaggi morti nelle serie tv trasmesse in prima serata sui principali canali statunitensi o in streaming sulle piattaforme più importanti, da giugno 2015 a maggio 2016. Ha preso in considerazione solo quei personaggi che erano apparsi in almeno tre episodi della serie e che erano morti definitivamente (cosa che non accade sempre). In tutto sono 241: il 26 per cento è stato ucciso da un’arma da fuoco, il 16 per cento da spade o pugnali, il 9 per cento si è ucciso (magari sacrificandosi per un bene maggiore), il 5 per cento è morto per cause soprannaturali, il 3 per cento è stato avvelenato. Da maggio 2012 a maggio 2016 le morti nelle serie tv trasmesse negli Stati Uniti sono quasi triplicate (il numero di serie tv in onda è aumentato, ma non così tanto).
La morte di Ned Stark fu decisiva perché spiazzò gli spettatori che la commentarono in massa sui social network, e chiarì da subito che in quella serie tv potevano morire davvero tutti, in qualsiasi momento. Scrive sempre VanDerWerff:
È il fascino delle morti televisive. È il motivo per cui chi fa televisione continua a inseguirle. Portano in alto le aspettative drammatiche della serie. E fanno sì che quasi automaticamente si inizi a parlarne. E, quando sono fatte bene, possano alzare il livello di qualità della serie tv.
Il problema è che «la maggior parte delle morti televisive è fatta male, è scarsa. E la tv ci sta annegando dentro». Perché una morte riesca bene deve arrivare dopo una vita interessante. Se arriva prima che il pubblico si sia affezionato o odi il personaggio che muore può spiazzare qualcuno e far aumentare per un po’ i tweet su quell’episodio, ma non ottiene molto altro. Secondo VanDerWerff anche Game of Thrones ha finito per uccidere molti personaggi a casaccio, giusto per tenere alte le statistiche (siamo già a più di 70 morti), senza dedicare il giusto tempo alla costruzione dei personaggi.
È lo stesso meccanismo che ha applicato negli ultimi anni The Walking Dead, la serie tv su un gruppo di sopravvissuti a un’apocalisse zombie. La sesta stagione di Game of Thrones va in onda in queste settimane – se siete fuori da quella grotta ve ne siete accorti – mentre la sesta stagione di The Walking Dead è finita ad aprile. Riguardando i primi episodi delle rispettive prime stagioni, si ritroverebbero tantissimi personaggi che nel frattempo sono morti, e bisognerebbe fare i conti con un po’ di confusione nel ricordare chi sono e cosa gli è successo, e un po’ di malinconia nel ripensare a quando ancora erano, chi più chi meno, al centro della trama. Per VanDerWerff entrambe le serie hanno utilizzato la morte dei loro personaggi come «una soluzione per tutti i problemi»; di conseguenza gli spettatori si sono «desensibilizzati», finendo spesso per annoiarsi e diventare apatici.
Quando in serie tv così cruente un personaggio riesce a sopravvivere per sei stagioni, diventa ancora più difficile farlo morire. Il pubblico ci si è affezionato così tanto – alla fine quel personaggio ha visto morire amici e parenti, superandone di ogni in un mondo in cui si muore in attimo – che liberarsene diventa problematico. Si crea di conseguenza un nucleo forte di personaggi che resistono e sopravvivono quasi sempre e a morire sono di volta in volta i personaggi secondari, di contorno: The Walking Dead è finora il caso più emblematico.
Qualche mese fa si è molto parlato degli ultimi minuti dell’ultimo episodio della sesta stagione di The Walking Dead: i principali protagonisti e alcuni personaggi più o meno secondari sono legati e inginocchiati davanti a Negan, il cattivo di turno, che decide di uccidere uno di loro colpendolo con la sua mazza da baseball. La puntata finisce senza che si sappia chi viene ucciso e gli spettatori devono attendere mesi per sapere chi è morto e scoprire quanto quella morte è rilevante. L’esempio fa capire che non è tanto importante la morte del personaggio quanto l’attesa creata attorno a quella morte: non è detto che a morire sarà un personaggio principale, potrebbe essere uno di quelli di contorno, sacrificabili.