Che succede in Unicredit
La più grande banca italiana – l'unica considerata "sistemica" a livello mondiale – sta attraversando un cambio dirigenziale in un momento molto delicato
Una settimana fa il consiglio di amministrazione di Unicredit, la più grande banca italiana insieme a Intesa San Paolo, ha annunciato l’inizio delle procedure per trovare un sostituto dell’attuale amministratore delegato, Federico Ghizzoni, alla guida della banca negli ultimi sei anni. Si tratta di un passo importante per Unicredit, l’unica banca italiana considerata “sistemica” a livello mondiale: cioè il cui fallimento potrebbe avere un impatto globale. Le procedure sono ancora all’inizio ed è probabile che per diversi giorni non si conoscerà il nome del nuovo amministratore delegato. Nel comunicato, il cda ha scritto che la decisione è stata presa di comune accordo con Ghizzoni, che continuerà a guidare la banca fino a che non sarà trovato un successore. Ghizzoni ha confermato in alcune interviste che la sua uscita dalla banca è stata consensuale.
Secondo i giornali, la ragione principale delle sue dimissioni è la decisione di garantire l’aumento di capitale della Popolare di Vicenza, una banca in grave crisi che ha cercato di raccogliere nuovi capitali per rimettere a posto i suoi conti. Garantendo l’aumento di capitale, Unicredit si era impegnata ad acquistare tutte le azioni che non fossero state acquistate dal mercato (il cosiddetto “inoptato”). Molti analisti temevano che l’aumento sarebbe andato deserto e che Unicredit si sarebbe trovata così a possedere quasi interamente la Popolare di Vicenza, con tutti i suoi problemi. Il Financial Times ha commentato questa decisione scrivendo: «Come se non avesse già i suoi problemi, Unicredit ha cercato di risolvere quelli degli altri».
La situazione è stata risolta da uno sforzo che ha messo insieme il governo italiano con le principali banche e assicurazioni del paese, che di comune accordo hanno creato Atlante, un fondo che ha lo scopo esplicito di acquistare le azioni inoptate della Popolare di Vicenza. Come era temuto dagli analisti, al momento dell’aumento quasi nessuno ha fatto richiesta delle azioni della Popolare di Vicenza. La Borsa italiana ne ha vietato la quotazione e circa il 99 per cento delle nuove azioni emesse sono state acquistate da Atlante, che ora è il nuovo proprietario della banca. Unicredit si trova di poco sopra alle soglie di capitale stabilite dai regolamenti internazionali e l’acquisto della Popolare di Vicenza avrebbe potuto portarla sotto i livelli di guardia.
Negli ultimi sei mesi Unicredit ha perso il 40 per cento del suo valore di mercato. Diversi giornali scrivono che la sostituzione di Ghizzoni è un modo per dare un segnale di cambiamento ai mercati finanziari, che nelle ultime settimane avevano dato segnali di nervosismo sul suo futuro. Per quanto Unicredit sia solida e in attivo, soffre di una serie di problemi, soprattutto se messa a confronto con le altre grandi banche europee. È una banca molto concentrata sulla parte “retail”, cioè sulla raccolta di risparmio e la concessione di prestiti, mentre la divisione investimenti è relativamente piccola e poco efficiente (guadagnare un euro costa in media 60 centesimi alla banca). Inoltre il suo bilancio è appesantito da circa 80 miliardi di crediti deterioriati, cioè prestiti che è diventato difficile o addirittura impossibile riscuotere. Si tratta della cifra più alta d’Europa se rapportata al totale delle erogazioni.
Questa situazione ha causato una mancanza di capitale alla banca e i grandi giornali internazionali, come Financial Times e Wall Street Journal, hanno scritto che il nuovo amministratore delegato dovrà affrontare in maniera decisa questa situazione. Il modo più rapido per farlo è un nuovo aumento di capitale. Il problema è che nelle attuali condizioni un aumento sarebbe molto “diluitivo”, cioè porterebbe a una grossa diminuzione relativa del peso degli attuali azionisti che non dovessero avere il denaro per partecipare all’aumento.
Due dei principali azionisti della banca si trovano proprio in questa situazione: le fondazioni di Verona e Torino, che possiedono circa il 3,5 e il 2,7 per cento della banca, sono due società semi-pubbliche che non possiedono il denaro sufficiente a partecipare a un aumento di grosse dimensioni (secondo gli analisti potrebbero servire dai 5 ai 10 miliardi di euro) e quindi rischiano di perdere molto del potere che oggi esercitano sulla banca. Nel 2010 furono proprio i consiglieri d’amministrazione espressi dalle fondazioni a organizzare la rimozione del precedente amministratore delegato, Alessandro Profumo.
Ghizzoni, il sostituto di Profumo, ha lavorato in Unicredit per 36 anni e in particolare negli ultimi tempi era ritenuto vicino ai consiglieri d’amministrazione espressi dalle fondazioni. Questa vicinanza è emersa da alcune intercettazioni telefoniche pubblicate sul Fatto Quotidiano lo scorso autunno, in cui sembrava che Ghizzoni intrattenesse rapporti privilegiati con alcuni membri del cda legati alle fondazioni e come avesse favorito alcuni manager vicini al gruppo in una serie di promozioni interne. Che i rapporti con parte del cda fossero buoni, lo dimostrerebbe anche il fatto che, come hanno scritto laVoce.info e il Financial Times, alcuni consiglieri spingevano affinché Ghizzoni fosse nominato presidente della banca, un ruolo insolito per un manager appena “licenziato”.
«Ghizzoni non esce dalla banca con un giudizio negativo sul suo contributo complessivo», ha spiegato al Post Carlo Alberto Carnevale-Maffè, docente di Strategia all’università Bocconi: «Tutti conoscono la dedizione che ha messo nella gestione di Unicredit. Piuttosto, paga la decisione troppo rischiosa di garantire l’aumento di capitale della Popolare». Inoltre, Ghizzoni aveva sempre sostenuto che non fosse necessario aumentare il capitale di Unicredit. Oggi che questo aumento sembra necessario, anche se per ragioni cautelative più che per necessità immediate, «è giusto che Ghizzoni si faccia da parte e che l’operazione sia portata avanti da qualcun altro».
Alle fondazioni dentro Unicredit in futuro converrà avere un amministratore delegato disposto a seguire una delle poche strade che garantirebbe il loro peso politico: recuperare capitale vendendo asset della banca invece che emettendo nuove azioni. «Non penso che le fondazioni siano tanto felici di diluirsi: secondo me procederanno per quanto possibile alla vendita di asset», spiega Carnevale-Maffè. Ma vendere oggi parti della banca che generano redditività significa potenzialmente danneggiare la società nel medio periodo, soprattutto in un periodo in cui la normale attività retail genera ricavi molto bassi a causa della struttura ingombrante di Unicredit, con molti dipendenti e molte filiali, soprattutto in Italia, ma anche a causa dei bassi tassi di interesse praticati dalle banche centrali, che comprimono i margini di guadagno.
Mercoledì il consiglio di amministrazione si incontrerà con i “cacciatori di teste”, figure professionali incaricati di cercare un successore a Ghizzoni. Secondo Carnevale-Maffè «il fatto che per la sostituzione di Ghizzoni si sia attivato un percorso di ricerca formale di un successore, dal mio punto di vista, è una buona notizia: mostra che Unicredit ricorrere a criteri trasparenti e oggettivi e che è l’unica banca veramente europea che abbiamo in Italia». Il sistema bancario italiano è stato spesso accusato di utilizzare logiche di alleanza o fedeltà a un gruppo piuttosto che a un altro per scegliere i manager dei più importanti istituti finanziari.