Le contraddizioni della Street Art
Può darsi siano esse stesse Street Art: le espone Filippomaria Pontani dopo aver visto le due discusse mostre di Roma e Bologna
di Filippomaria Pontani
Non è comune per il nostro Paese che ben due grandi mostre mettano contemporaneamente a tema un àmbito creativo così controverso e attuale come la cosiddetta “Street Art”. A Bologna la Fondazione Carisbo, nell’àmbito del progetto Genus Bononiae, presenta fino al 26 giugno in Palazzo Pepoli la mostra StreetArt. Banksy&Co. L’arte allo stato urbano. A Roma, a Palazzo Cipolla, la Fondazione Terzo Pilastro espone fino al 4 settembre, sotto il titolo War, Capitalism and Liberty, un centinaio di opere dell’inglese Banksy, forse il più popolare street artist del mondo, reso celebre anche dalla sua stessa inafferrabilità mediatica (non se ne conosce ufficialmente l’identità, né egli ha mai dato l’assenso a retrospettive di questo tipo, che dunque avvengono soltanto con materiali di collezioni private – e anzi c’è da chiedersi cosa penserà nel vedersi esposto per cura di due Fondazioni non poco chiacchierate in Italia per i loro rapporti con i poteri maggiori del nostro Paese).
Diciamo subito che l’interesse nei confronti del fenomeno della Street Art è assolutamente benvenuto (e fa seguito alla ahimè troppo breve mostra catanese di pochi mesi fa), che le due mostre in questione sono ampie e ricche di opere di grande qualità, e che sicuramente contribuiranno a diffondere consapevolezza di questo fenomeno artistico presso un pubblico più vasto (è insensato che gli amatori d’arte sappiano tutto di Cattelan e Hirst senza aver mai sentito nominare Blu, Ericailcane o Lady Pink). Ciò premesso, proviamo a parlare delle esposizioni trattando tre questioni distinte, ma strettamente connesse fra loro.
La questione preliminare, già affrontata in una breve teoria di mostre internazionali, riguarda il senso di esporre nelle sale di un museo un’arte che nasce in funzione della strada, della metamorfosi di spazi urbani. Sono in gioco qui le dimensioni delle opere e il loro contesto. È abbastanza scontato che, a meno di disporre di superfici molto ampie (alla Tate Modern ci provarono, nel 2008), l’unica strada sia quella di far ricorso a bozzetti, stencils in miniatura, spray su tela, insomma a riduzioni che provino a dar conto delle opere anche sotto il profilo della loro realizzazione tecnica, per quanto in sedicesimo. Tuttavia, se isolare le immagini rimpicciolite sulla parete bianca di una galleria finisce inevitabilmente per falsare l’effetto originario, d’altra parte una qualche documentazione fotografica dei contesti dove le opere sono primamente nate, o dove sono state in seguito reimpiegate, potrebbe ben sopperire a tale deficit, soprattutto se accompagnata da brevi spiegazioni.
Nelle mostre di Bologna e di Roma – in cui all’aspetto della produzione delle opere non si dedica alcuna attenzione – questo purtroppo non avviene. Per il Banksy di Palazzo Cipolla le uniche foto proposte al pubblico sono quelle della tabella cronologica (utile, ma piazzata in uno scomodissimo corridoio) che riassume la sua carriera e le sue azioni: tutto il resto è una collezione di bozzetti che mantengono un esclusivo valore estetico e cerebrale, e non vengono mai considerati in rapporto agli spazi per i quali sono stati prodotti. Di fatto, è come se l’autore inglese – noto fra l’altro per le sue azioni di “sabotaggio” e di dissacrazione in grandi musei del mondo – diventasse qui un pittore di quadri, spesso certo geniali, la cui dimensione performativa è presente agli spettatori solo come astratta evocazione: cosa capiremmo – si parva licet – del Giudizio Universale di Michelangelo, del Tiepolo di Würzburg o degli affreschi messicani di Rivera, se non considerassimo quali sono i muri che li accolgono? Lo stesso vale anche per la contestualizzazione cronologica: in quali circostanze e perché Banksy propone Churchill Green (il riferimento è a moti anarchici del 2000), o Grenade (che ricorda così da vicino certe opere di Mona Hatoum), o ancora Heavy Weaponry (che rimanda forse al passato coloniale inglese)? Cosa dicono le canzoni dell’album dei Blur che reca in copertina il suo Think Tank (2003)? A quale stagione storica allude il famosissimo Love is in the air, e perché è apparso per la prima volta a Gerusalemme? Sicuramente le iniziative educative connesse alla mostra romana sviscereranno tutti questi interrogativi, ma il semplice visitatore rimane senza ausilî esegetici di sorta.
A Bologna va un po’ peggio e un po’ meglio. Un po’ peggio, perché la collocazione dei graffiti di strada all’interno del Museo della Città (dalle cui pareti non potevano evidentemente essere rimosse le citazioni dantesche, gli stucchi, e le vedute del Seicento) inquina la fruizione delle opere con un rumore di fondo a tratti insostenibile, in quanto del tutto irrelato (non si venga a dire che si fa così interagire la Bologna antica con quella contemporanea!). Va però anche un po’ meglio, se vogliamo, da un lato perché qualche foto c’è e in almeno un caso, exempli gratia, la collocazione dei graffiti viene illustrata su una mappa della città, dall’altro soprattutto perché il pezzo forte dell’esposizione è un originale (e non è il solo), ovvero un grande murale dell’artista Blu, staccato dal supporto originario (il muro di una fabbrica in disuso alla periferia di Bologna) tramite una complessa e sofisticatissima procedura, documentata in un video a tratti emozionante, e non dissimile da quella impiegata per certi stencil di Banksy.
Tuttavia, solo i frequentatori più avveduti sapranno della controversia che ha opposto proprio Blu all’organizzatore dell’evento di Palazzo Pepoli, il discusso ex rettore di Bologna Fabio Roversi Monaco: coerentemente con la propria vocazione di artista di strada, Blu – spalleggiato dal collettivo Wu Ming, che ha individuato in questa musealizzazione un tentativo di appropriazione a fini privatistici di un patrimonio adespoto, per di più ad opera di quegli stessi poteri che dall’alto dei loro scranni hanno per anni osteggiato i writers bolognesi e ogni forma di cultura alternativa – ha denunciato l’opera di rimozione e ha deciso per ritorsione di distruggere altre 15 opere da lui realizzate sui muri della città: checché ne dica l’ineffabile Roversi Monaco, un esito davvero sconfortante per un’iniziativa espositiva che si proponeva di costruire, diffondere e illuminare.
Seconda questione: si può (si deve) distinguere fra diversi tipi di Street Art, anche sul piano meramente formale? La risposta sembrerebbe scontata, eppure si nota ancora una certa confusione. Banksy è un caso apparentemente più semplice, in quanto si muove essenzialmente sul piano figurativo: ma qual è il rapporto fra le sue opere che recano scritte e quelle che si servono della sola immagine? e soprattutto, qual è il ruolo del titolo – spesso evocativo, ironico o dissacrante – che l’autore appone alle opere medesime (talora sulla copertina di un disco, talaltra nelle mostre o nelle performances che organizza egli stesso, altre volte ancora per canali che risultano oscuri)? in una parola, qual è il vero equilibrio tra cultura scritta e cultura visuale nel turbolento melting pot dell’arte di strada nel mondo globalizzato?
Nella mostra bolognese, poi, la dichiarazione programmatica dei curatori cita le acute analisi di Armando Petrucci sui graffiti dell’antica Pompei e quelli delle città contemporanee, insistendo sull’importanza della dimensione scritta di ogni civiltà, e dedicando un paio di sale al ruolo dei tags nella pratica dei writers. Forse però, anche qui, non si tematizza abbastanza la distanza che separa questo tipo di esperienza (quella delle bubble letters, degli slogan sui muri, dei graffiti sui treni), la quale elabora in fondo una forma esoterica di calligrafia e dunque di fatto “esclude” i non-iniziati da una piena e consapevole fruizione dell’opera, rispetto alla Street Art puramente (o precipuamente) figurativa, in cui l’elemento visuale parla all’osservatore con maggiore immediatezza, e in cui spesso il rapporto fra clandestinità e legalità (fra percezione di vandalismo e intento decorativo) è alquanto mutato.
Non si tratta di una differenza da poco: un’arte che nasce nello spazio pubblico si rivolge ai passeggeri dei treni e degli autobus, ai ciclisti e agli stradini, e propone loro da un lato ammassi di policrome lettere deformate (decifrabili forse solo in capo a un certo allenamento, o altrimenti godibili come semplici fenomeni estetici), dall’altro immagini più o meno anticonvenzionali, più o meno violente, più o meno rifinite, ma comunque comprensibili e interpretabili prima facie senza il ricorso a difficili analisi paleografiche. E in ogni caso, anche a prescindere dagli alfabeti: c’è differenza fra scrivere su un muro “God shave the queen” (Daniele Pario Perra, 2010), rappresentare la regina Vittoria in atti di amore saffico (Banksy, 2003), e disegnare il pelo pubico su una statua della medesima sovrana a Bristol (Vaj Graff, 2016)?
Terza questione: in che misura il mercato dell’arte, e lo stesso successo di alcuni autori, influenza la creazione, la fruizione e la conservazione della Street Art? Per quanto possa sembrare strano, su questo tema – pur già ampiamente trattato per es. da M. Tomassini, Beautiful Winners, Verona 2012 – nessuna delle due mostre prende una posizione chiara. Per Banksy il fenomeno assume proporzioni macroscopiche, e investe direttamente il fare dell’artista, il quale – se agli inizi della sua carriera doveva scappare dalla polizia che lo accusava d’imbrattare muri – oggi nel momento in cui agisce su una superficie non può ignorare che l’indomani essa varrà milioni (egli stesso ha parodiato un’asta delle proprie opere nel suo celebre I can’t believe you morons actually buy this shit). Un parallelo illuminante – se non altro perché in questo caso l’autore non è “mascherato” – si può istituire con l’americano Shepard Fairey, il quale al principio della sua carriera veniva arrestato per le immagini di ardita contestazione che proponeva sui muri del Kentucky, e pochi anni dopo (soprattutto dopo il successo planetario di Hope, divenuto un simbolo della campagna presidenziale di Barack Obama nel 2008) è ormai un attore consapevole della scena artistica internazionale, guidata dai medesimi principi capitalisti che nelle sue opere vengono ferocemente criticati.
Nella rassegna bolognese (dove a Fairey è dedicata una piccola quanto anonima sezione) si parla bensì dell’epoca “eroica” di Blek Le Rat e del primo Banksy, quando i writers avevano uno statuto sociale non lontano da quello dei topi, ma una qualche prospettiva critica e storica sull’evoluzione del fenomeno si ottiene soltanto nelle sale del terzo piano. Lì il visitatore è messo a confronto con una panoramica della Street Art a partire dall’America degli anni ’70 e ’80: vi vengono documentati sia i legami con la scena newyorchese (Andy Warhol, Basquiat, Keith Haring etc.) sia la nascita dei primi fenomeni di collezionismo (eccellente la raccolta di Martin Wong, in parte esposta in mostra), sia infine alcune forme del passaggio di queste forme d’arte in America Latina e in Europa, tramite l’attività di figure forse meno note al grande pubblico ma di altissimo valore, come Os Gemeos e Rammellzee.
L’ultima delle questioni poste qui è in realtà di grande momento, in quanto – al di là delle polemiche contingenti legate alle singole personalità – investe il senso e il rapporto dell’arte contemporanea all’interno dei contesti urbani, e la contraddizione quasi ineluttabile fra il grassroots e il mainstream. Da Thomas Hirschhorn, che offriva un discorso ambulante sull’arte nel suo Museo Precario di Aubervilliers (2004), fino agli artisti turchi che si sono opposti alla demolizione dell’antico quartiere di Tarlabasi a Istanbul (2012), si pone oggi con forza il dilemma di un’arte che, quando voglia assumere posizioni di forte contestazione dell’esistente (e Banksy, tanto per citare ancora lui, deve buona parte del suo successo alla decisa “conversione” al messaggio politico, che in molti datano all’anno 2003), deve cercare di sfuggire a logiche istituzionali e mercatistiche che finirebbero per depotenziarne il messaggio o la credibilità. Se l’arte contemporanea nello spazio pubblico serve, come si leggeva nella delibera della città di Johannesburg in favore della Public Art (2008), per creare “simboli condivisi che costruiscano coesione sociale, contribuiscano all’orgoglio civico e aiutino a forgiare un’identità positiva per la città”, allora essa non può spacciarsi come strumento urticante di rottura e di contestazione. Se l’arte contemporanea, come denuncia da anni il collettivo olandese BAVO, nei quartieri “riqualificati” di Rotterdam o nelle leziose creazioni dell’ex-incendiario Daniel Buren svolge la funzione di soprammobile destinato a ingentilire un’opera di inesorabile gentrification, allora essa accetta un ruolo subalterno alle stesse logiche che si vanta di rifiutare a livello teorico.
Il tema è ovviamente molto vasto, e poiché attiene alla ridefinizione degli spazi urbani tocca le riflessioni teoriche di sociologi e urbanisti, dal Diritto alla città di Henri Lefebvre (1968) alle Città ribelli di David Harvey (2012). In mostre che si occupano di street artists contemporanei sarebbe davvero necessario accennare a questi temi, affinché l’esperienza del visitatore non si limiti soltanto al (maggiore o minore) godimento estetico, o al velato compiacimento del proprio sopito o giovanile gusto incendiario, ma inneschi anche una seria riflessione di tipo civile. Si dovrebbe forse, in altre parole, inquadrare il fenomeno della Street Art nel più ampio contesto dell’Urban Art, quella teorizzata e messa in pratica da Gordon Matta-Clark a New York negli anni ’70, e ancor oggi attuale per esempio nell’Outdoor Festival del quartiere Flaminio a Roma. Si dovrebbe accettare il fatto che, se Banksy e Blu si defilano dalle retrospettive a loro dedicate, non si tratta di atteggiamenti da primedonne, bensì della spia di un disagio inerente alla stessa pratica artistica di cui ci stiamo occupando, e dunque di un elemento essenziale alla sua comprensione.
L’importanza di questa cosa travalica i muri dei palazzi che ospitano le due mostre. Da anni, almeno a partire dal mitico TuttoMondo di Keith Haring nei pressi della stazione di Pisa (1989), l’Italia pullula di interessanti iniziative di Street Art, non tutte ovviamente all’insegna della contestazione o della rivolta, ma spesso dotate di una carica d’innovazione: anche al di là dei fenomeni singoli, spesso di alto valore anche sul piano internazionale, esistono processi più strutturati che coinvolgono a vari livelli le amministrazioni comunali di diverse città, dalle periferie di Padova alle Officine Meccaniche di Reggio Emilia, dalla riqualificazione di Tor Marancia a Roma fino agli esperimenti di Bari. Ogni volta che ci troviamo dinanzi a queste iniziative, su spazi concessi o destinati dalle amministrazioni, bisogna interrogarsi sul grado (o sul rischio) di quell’ embedded cultural activism che alcuni vedono come una minaccia alla libera creatività degli artisti. Anche negli spazi octroyés, naturalmente, possono però sorgere capolavori: tra le iniziative più recenti segnalo quella del giovane sindaco di Colleferro (Roma), che il mese scorso ha concesso ad artisti locali e scuole un ampio muro della famosa e triste via degli Esplosivi, carica di grigie memorie: qui si trova la Venere a Lampedusa dell’ITIS Cannizzaro, un’immagine semplice, poetica e attuale a un tempo, che non avrebbe sfigurato nella recente rassegna internazionale sulla fortuna di Sandro Botticelli.