Siamo meno onesti di quanto pensiamo
Diciamo bugie e facciamo i furbi ma troviamo sempre giustificazioni – oppure decidiamo di dimenticarlo – per preservare l'immagine che abbiamo di noi
di Jeff Guo – The Washington Post
Nei primi anni del Duemila alcuni ricercatori della University of Massachusetts condussero uno studio sulla disonestà quotidiana: reclutarono qualche centinaio di studenti, li divisero in coppie e chiesero a ogni coppia di conversare per dieci minuti. I ricercatori ripresero ogni incontro con una videocamera nascosta e mostrarono le registrazioni alle coppie, chiedendo a ogni persona di segnalare tutte le bugie che avevano detto durante la conversazione. In media ogni studente in quei dieci minuti aveva mentito quasi due volte, e alcuni di loro avevano raccontato fino a 12 bugie. Se si fossero affidati alla loro memoria, molti studenti forse avrebbero detto di essere stati onesti, ma le registrazioni li hanno messi di fronte alla verità. «Mentre si rivedevano nelle registrazioni hanno scoperto di aver detto molte più bugie di quanto pensavano», raccontò uno dei ricercatori all’epoca dello studio.
Lo studio ha esaminato solo una conversazione di dieci minuti; cosa succederebbe però se andassimo alla ricerca dei momenti di disonestà nella nostra vita di tutti i giorni? A tutti piace credere di essere persone oneste, ma in realtà la maggior parte di noi non supererebbe molti test morali: diciamo alle persone di non aver visto i loro messaggi, rubiamo le penne al lavoro, saltiamo i tornelli e prendiamo troppi tovagliolini nei fast food. Forse rubare un paio di tovagliolini è solo un peccato veniale, certo, e a volte mentire è una cosa carina da fare, soprattutto se stiamo cercando di non ferire i sentimenti di un’altra persona. È questo il modo in cui funziona: salvaguardiamo l’opinione che abbiamo di noi stessi, in parte, trovando giustificazioni alle nostre bugie; inventiamo scuse o ci convinciamo della trascurabilità delle nostre colpe.
Secondo uno studio di Maryam Kouchaki, professoressa assistente di management alla Northwestern University, e Francesca Gino, professoressa di gestione aziendale ad Harvard, c’è qualcos’altro che ci aiuta a far fronte alle nostre debolezze morali: siamo molto bravi a dimenticare le nostre azioni scorrette. «Le persone attribuiscono molto valore alla propria moralità, e quindi sono spinte a dimenticare i dettagli delle loro azioni poco etiche, in modo da poter continuare a considerarsi persone oneste», hanno scritto Kouchacki e Gino nel loro nuovo studio, pubblicato la settimana scorsa dalla rivista scientifica americana Proceedings of the National Academy of Sciences. Le due professoresse di economia hanno trovato un nome accattivante per questo tipo di comportamento: “amnesia non etica”.
Per cercare di dimostrare come i ricordi delle nostre azioni poco edificanti svaniscano più in fretta, Kouchacki e Gino hanno condotto una serie di esperimenti. In uno di questi hanno chiesto ad alcune persone di giocare a testa o croce, scommettendo dei soldi; a distanza di due giorni i partecipanti, che avevano la possibilità di mentire sul risultato del lancio della moneta, sono stati sottoposti a un test di memoria: le persone che avevano imbrogliato avevano ricordi più vaghi rispetto a chi era stato onesto. Si potrebbe pensare che le persone che tendono a imbrogliare abbiano in generale una memoria peggiore; Kouchacki e Gino hanno però scoperto che tutti i soggetti che avevano partecipato all’esperimento – sia quelli che avevano imbrogliato che chi era stato onesto – avevano le stesse probabilità di ricordare cosa avevano mangiato a cena due giorni prima. In generale gli “imbroglioni” non sembravano avere problemi di memoria: piuttosto di dimenticare selettivamente le situazioni in cui il loro comportamento non era stato etico.
Il primo esperimento aveva però un problema: le ricercatrici non erano in grado di determinare chi aveva imbrogliato e chi no. Kouchacki e Gino ne hanno quindi condotto un altro, online, in cui alcune persone selezionate in modo casuale non avevano la possibilità di imbrogliare. L’esperimento prevedeva due versioni di un gioco di previsioni; in una di queste era possibile imbrogliare facilmente (il soggetto poteva cambiare la propria previsione dopo l’evento, senza poter essere scoperto). A due giorni di distanza, i ricordi delle persone che avevano giocato alla versione in cui era possibile imbrogliare erano più vaghi rispetto a chi aveva giocato onestamente.
Questi risultati indicano come ci sia qualcosa legato all’atto di imbrogliare a influenzare negativamente la memoria delle persone, e che quindi non è vero che chi imbroglia abitualmente ha di per sé una memoria peggiore: quando durante un gioco imbrogliare è impossibile, le persone tendono a ricordare meglio. Immediatamente dopo il gioco Kouchacki e Gino hanno chiesto ai partecipanti come si considerassero: si ritenevano persone moralmente corrette e degne di fiducia, o si vergognavano di se stesse? Due giorni dopo, le persone che avevano detto di vergognarsi sono state quelle con maggiori probabilità di non ricordare chiaramente l’evento.
«Maggiore è la dissonanza dopo aver imbrogliato, più diventano vaghi i ricordi legati alle azioni non etiche», si legge nello studio, che purtroppo non è in grado di dirci se i ricordi di quelli che avevano imbrogliato erano davvero spariti, se li stavano reprimendo, oppure se stavano mentendo alle ricercatrici. Il motivo è che lo strumento principale usato da Kouchacki e Gino per misurare i ricordi delle persone è stato una specie di sondaggio, con cui hanno chiesto ai partecipanti di raccontare se avevano ricordi chiari o meno, e quanto li ritenevano affidabili. Una valutazione soggettiva di questo tipo non fornisce molte informazioni sul meccanismo che si innesca nel cervello delle persone, e non ci dice per esempio se la vergogna interferisce con la costruzione dei ricordi, o con il loro recupero. Per scoprirlo si potrebbero condurre altri esperimenti che sfruttano la scansione del cervello o farmaci che influenzano i ricordi delle persone. Per il momento abbiamo uno studio che conferma molte delle nostre intuizioni: l’istinto di preservare la nostra dignità e la nostra autostima è sorprendentemente forte.
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