Cosa non va in Bernie Sanders?
Perché lo sfidante di Clinton perderà le primarie, e ora preoccupa il Partito Democratico
di Francesco Costa – @francescocosta
C’è questa storia che circola sulle primarie del Partito Democratico statunitense. Se due anni fa Hillary Clinton avesse dovuto delineare il ritratto dell’avversario più comodo da affrontare per lei alle primarie, quello che avrebbe battuto con più facilità, lo avrebbe probabilmente immaginato così: più grande di lei, che sarebbe già la seconda presidente più anziana di sempre, così che non potesse apparire “nuovo” come Barack Obama quando la sconfisse nel 2008; proveniente da uno stato piccolo e politicamente ininfluente; con posizioni politiche poco ortodosse per la politica americana e magari un’etichetta pesante come “socialista”; privo del carisma da star di Obama, e quindi goffo e a disagio nei rapporti diretti con gli elettori; naturalmente maschio e bianco, perché non potesse avere niente di potenzialmente “storico”; e magari anche estraneo alla vita del partito e ai suoi elettori. Uno che si fosse iscritto al partito un mese prima delle primarie, solo per parteciparvi. Cioè Bernie Sanders.
E invece Sanders è stato uno sfidante straordinariamente impegnativo: ha raccolto un sostegno rilevantissimo e maggioritario tra gli elettori più giovani del partito, a oggi ha ottenuto oltre 9,5 milioni di voti e ha vinto in 21 stati.
Il successo di Sanders è stato spiegato in questi mesi soprattutto con tre argomenti. Le sue posizioni molto di sinistra, che vent’anni fa lo avrebbero messo di fatto fuori dal partito, sono oggi apprezzate e popolari in una larga parte della base dei Democratici, che dopo la crisi economica si è radicalizzata in modo speculare allo spostamento a destra del Partito Repubblicano; la sua immagine di candidato “improbabile” lo ha reso autentico e credibile se paragonato a Hillary Clinton, che molti elettori giudicano inaffidabile, calcolatrice e poco trasparente; l’essere riuscito a generare entusiasmo tra le persone più giovani gli ha dato un grande vantaggio in termini di entusiasmo e capacità di mobilitazione (i suoi comizi sono sempre affollatissimi).
Un comizio di Bernie Sanders a Los Angeles. (Getty Images)
Nonostante questo, però, Sanders perderà le primarie: Clinton ha preso quasi 13 milioni di voti e ha vinto in 27 stati, ottenendo un largo vantaggio tra i delegati che il prossimo luglio alla convention di Philadelphia sceglieranno formalmente il candidato del Partito Democratico. Per ottenere la candidatura Sanders dovrebbe dare circa 35 punti percentuali di distacco a Clinton in ognuno dei pochi stati in cui si deve ancora votare (e Clinton ha un solido vantaggio nei due che assegnano più delegati, New Jersey e California).
La lettura per cui la sfida tra Clinton e Sanders sia stata solo la sfida tra un candidato di molto di sinistra e una moderatamente di sinistra è corretta – la familiare discussione tra chi propone cambiamenti radicali e chi incrementali – ma parziale: ci sono altre cose che hanno inciso in questa campagna elettorale, e che alla fine della fiera hanno impedito a Sanders di trasformare i suoi molti successi in una vittoria.
Sanders sa quello che dice?
Più volte in questi mesi Sanders è stato criticato per la vaghezza concreta di alcune sue proposte, soprattutto le più famose e radicali: per esempio la necessità di costringere le grandi banche a scindersi per evitare che diventino “too big to fail”. Come ha scritto Paul Krugman – editorialista del New York Times, opinionista molto di sinistra e premio Nobel per l’economia – le grandi banche hanno avuto un ruolo relativamente poco significativo nella crisi del 2008 (istituti finanziari più piccoli hanno fatto il grosso dei danni) e la riforma finanziaria approvata da Obama nel 2010 ha già corretto le situazioni più pericolose. «Queste leggi potrebbero essere rafforzate», ha scritto Krugman, «ma insistere sulle grandi banche oggi vuol dire mancare l’obiettivo. Nelle poche occasioni in cui gli sono stati chiesti dettagli, Sanders non è sembrato riuscire a dire di più sulla sua proposta. E l’assenza di sostanza dietro gli slogan sembra riguardare tutte le sue posizioni».
La volta che Sanders è stato più pressato sui dettagli delle sue proposte è stata durante un’intervista al Daily News, la cui trascrizione si può leggere qui. Interpellato sulle sue promesse più popolari – scindere le grandi banche, perseguire i manager di Wall Street, rivedere gli accordi commerciali di libero scambio, punire le aziende americane che trasferiscono i loro stabilimenti all’estero – Sanders non è riuscito a spiegare concretamente come intende realizzarle. Quando l’intervista è stata pubblicata, il Washington Post l’ha definita «praticamente un disastro»; un famoso giornalista di Bloomberg ha detto che Sanders ne viene fuori come «inadeguato».
Perché solo i bianchi hanno votato per Sanders?
A un certo punto è diventato facile prevedere l’esito delle primarie del Partito Democratico: se si votava in uno stato con un’alta percentuale di non bianchi, avrebbe vinto Clinton; se si votava in uno stato popolato a larga maggioranza da bianchi, avrebbe vinto Sanders. Altri opinionisti l’hanno messa così, invece: se Sanders fosse stato nero, avrebbe vinto le primarie. È un fatto che dall’inizio delle primarie Sanders abbia avuto un sostegno molto limitato dagli elettori neri e da quelli di origini latinoamericane – due segmenti demografici in grande espansione e molto influenti nella base del Partito Democratico – e che questo gli abbia impedito di vincere più di ogni altra cosa.
Sanders non è riuscito a rappresentare gli elettori non bianchi per due ragioni. La prima è che non si era mai rivolto a loro, nel corso della sua lunga carriera: ha abitato per decenni in Vermont, dove il 98 per cento degli abitanti è bianco, e in Vermont è stato eletto prima a sindaco, poi a deputato e poi a senatore. Non ha mai avuto a che fare da vicino con le esigenze degli elettori non bianchi, salvo negli anni di attivismo giovanile, e quelle esigenze sono cambiate molto negli ultimi decenni. Gli elettori neri, per esempio, hanno visto particolarmente male le posizioni moderate di Sanders sul controllo delle armi. Inoltre diverse volte durante la campagna elettorale, parlando degli elettori non bianchi, Sanders è apparso in difficoltà: una volta ha detto che capisce le loro esigenze anche se non ha mai «vissuto in un ghetto» (come se i neri nel 2016 vivessero tutti nei ghetti); un’altra volta ha risposto a una domanda sul razzismo dicendo che bisogna dare un lavoro ai ragazzini neri che passano le giornate a bighellonare per strada, come a considerarli in qualche modo responsabili.
Dall’altra parte, Hillary Clinton ha alle spalle vent’anni e più di lavoro con le minoranze, da subito dopo la laurea. Ha sempre vissuto e lavorato in posti molto multietnici, da Chicago a Little Rock a New York. Ha ottenuto molto per le scuole in Arkansas quando suo marito Bill era governatore, ha lavorato per i minorenni detenuti in South Carolina, è stata eletta senatrice in una delle città più etnicamente variegate del mondo: e suo marito Bill era così amato dai neri che veniva definito “il primo presidente nero”. Negli anni ha costruito relazioni di stima e fiducia con le organizzazioni che difendono i diritti civili e degli immigrati, nonché con i parlamentari non bianchi più apprezzati, costruendosi una grande credibilità con quel pezzo di popolazione.
I sostenitori di Sanders sono maschilisti e molesti?
La scarsa eterogeneità demografica dell’elettorato di Sanders e la sua grande popolarità tra i giovani ha portato nel corso della campagna elettorale alla nascita di un neologismo – i “Bernie Bros” – per indicare un certo tipo di sostenitore di Sanders: giovane, maschio, bianco, molto attivo su internet e soprattutto misogino.
Questi sostenitori di Sanders, come ha scritto Slate, “pubblicano quotidianamente commenti e tweet molto aggressivi sulle pagine online di Clinton e dei suoi sostenitori, che riducono spesso alle loro vagine”. Ha scritto BuzzFeed: «Gran parte dell’attività online dei Bernie Bros si ferma un passo prima delle vere molestie, e si può descrivere più come un argomentare sfinente e rumoroso, o “mansplaining” da gradassi». Più volte nel corso della campagna elettorale giornaliste e commentatrici hanno raccontato di aver ricevuto risposte aggressive e sessiste a tweet anche piuttosto innocui su Hillary Clinton, tanto che la stessa campagna elettorale di Sanders a un certo punto ha invitato i suoi sostenitori più aggressivi a darsi una calmata.
Nell’ultima parte della campagna elettorale alcuni hanno osservato che lo stesso Sanders è sembrato a tratti trasformarsi in un “Bernie Bro”: per esempio quando ha accusato Hillary Clinton di non essere abbastanza «qualificata» per fare la presidente o quando ha accusato il partito di aver piegato le regole per far vincere Clinton.
Sanders si è candidato contro Clinton o contro il partito?
Sebbene le sue speranze di vincere le primarie siano ormai quasi nulle, Sanders ha deciso di non ritirarsi: è una scelta inusuale ma legittima, e d’altra parte anche Hillary Clinton nel 2008 restò in corsa fino alla fine, nonostante a un certo punto fosse chiaro che non poteva più rimontare Obama (oggi Sanders ha uno svantaggio molto più ampio rispetto a quello che aveva Clinton su Obama). Molti però si aspettavano che continuasse a fare campagna elettorale sulle sue proposte e abbassasse il tono degli attacchi contro Hillary Clinton, in vista dell’usuale “riunificazione” del partito e del suo elettorato in vista delle elezioni di novembre. Fin qui non è successo.
Non solo Bernie Sanders continua a comportarsi come se avesse la vittoria a portata di mano, malgrado i fatti lo smentiscano, alimentando la frustrazione dei suoi sostenitori e tenendo impegnata Hillary Clinton contro due avversari contemporaneamente: ma più volte ha fatto capire in modo più o meno allusivo che se dovesse perdere sarà per le regole delle primarie e perché il Partito Democratico gli ha messo i bastoni tra le ruote. Sanders e i suoi si lamentano soprattutto di tre cose: i pochi dibattiti televisivi organizzati dal partito; il fatto che in diversi stati solo gli elettori registrati come Democratici abbiano potuto votare alle primarie; il ruolo dei superdelegati, cioè le persone che partecipano alla convention di diritto in quanto funzionari del partito o membri che ricoprono cariche elettive, e che oggi sostengono in grande maggioranza Hillary Clinton. Nessuna di queste tre accuse però è particolarmente convincente.
I candidati Democratici hanno partecipato a meno dibattiti televisivi dei Repubblicani, che però alle elezioni di quattro anni fa erano stati criticati e irrisi da tutti – elettori Democratici compresi – per la quantità esagerata di confronti tv organizzati dal partito; e quando si è capito che tra Clinton e Sanders sarebbe stata una campagna vera, il partito ha comunque organizzato dibattiti supplementari aggiungendoli al calendario inizialmente previsto. Inoltre nessuno stato ha cambiato le regole delle primarie in corsa: e quelli che hanno deciso di far partecipare alle primarie solo gli elettori registrati come Democratici nella grandissima parte dei casi fanno così da molti anni (e in passato questa era la cosa preferita dalla sinistra, visto che le primarie aperte limitavano l’influenza della base del partito). Infine, storicamente i superdelegati seguono sempre la volontà popolare, cioè i risultati delle primarie: nel 2008, infatti, a un certo punto si spostarono in massa da Clinton a Obama; e lo stesso Bill Clinton, che è un superdelegato in quanto ex presidente, ha detto che se Sanders avesse ottenuto più delegati con le primarie lui lo avrebbe votato alla convention.
Questo atteggiamento della campagna di Sanders ha avuto la settimana scorsa delle ricadute spiacevoli. Durante un congresso statale del Partito Democratico in Nevada, gli attivisti di Sanders hanno protestato contro un’attribuzione dei delegati fedele ai risultati del voto nelle primarie dello stato, e quella protesta verbalmente molto aggressiva è diventata violenta: sono state tirate sedie sul palco, la gente si è spintonata, qualcuno si è sentito male, finché la polizia non ha fatto evacuare la sala. Subito dopo i sostenitori di Sanders hanno diffuso online il numero di telefono della presidente locale del partito, Roberta Lange, che ha ricevuto dai sostenitori di Sanders migliaia di messaggi offensivi e minacce di morte.
Dopo gli incidenti il Partito Democratico del Nevada ha inviato una lettera al partito federale, in cui ha scritto tra le altre cose: «Vogliamo mettervi in guardia rispetto all’inclinazione della campagna Sanders per atteggiamenti da extraparlamentari – anche apertamente violenti – dopo aver visto quello che possiamo descrivere solo incoraggiamento e complicità con i comportamenti che hanno creato caos e minacce fisiche ad altri compagni Democratici».
Se cose del genere dovessero capitare ancora, e se Sanders non dovesse abbassare i toni, Hillary Clinton potrebbe fare molta fatica a ottenere il sostegno degli elettori di Sanders alle elezioni di novembre; e proprio martedì scorso, quando durante un suo comizio il pubblico ha cominciato a cantare cori contro Clinton, Sanders non ha detto nulla. Il fatto che Sanders e Trump condividano un pezzetto del loro elettorato – bianchi molto arrabbiati e un po’ complottisti, in estrema sintesi – e l’aperto corteggiamento di Trump per gli elettori di Sanders stanno preoccupando molto i dirigenti del Partito Democratico.
Cosa farà Sanders dopo?
Sanders è stato aperto ma piuttosto tiepido fin qui rispetto alla possibilità di lavorare per la candidatura di Hillary Clinton alle elezioni di novembre, quando la sua vittoria alle primarie sarà ufficiale; non ha garantito totale disponibilità nemmeno per partecipare a comizi e raccolte fondi. Le cose possono cambiare, naturalmente, e Sanders ha detto più volte che considera Clinton una candidata molto migliore di Trump, ma sarà difficile ricomporre una frattura che nelle ultime settimane è sembrata diventare anche personale.
Anche per questo le voci e le ipotesi sul fatto che Clinton possa scegliere Sanders come suo vice, allo scopo di unire il partito, non hanno fondamento nella realtà. Innanzitutto Sanders è un candidato che secondo molti analisti mostrerebbe straordinarie fragilità in un’elezione diversa dalle primarie di partito: alcune sue posizioni sono particolarmente impopolari nel paese – sulle tasse, sulla pena di morte, sulla sanità – e finora questi punti deboli non sono venuti fuori solo perché scaltramente il Partito Repubblicano ha deciso di non attaccarlo. Inoltre Clinton preferirà probabilmente scegliere qualcuno di cui si fida di più e che le permetta di espandere il suo elettorato, e non invece che rischi di farle perdere il sostegno di parte delle minoranze etniche.
Infine, lo stesso Sanders probabilmente non ne avrebbe nessuna voglia: il vicepresidente obbedisce agli ordini del presidente e ha spazi di autonomia politica praticamente nulli. Accettare quell’incarico – o un altro incarico di governo se Clinton dovesse vincere le elezioni, scenario già più plausibile – per Sanders vorrebbe dire rinunciare alla grande influenza politica che ha guadagnato in questi mesi, e a farla pesare al Congresso e nel partito: niente lascia pensare che ne abbia intenzione.