“Non puoi insegnare a scrivere”
A cosa servono veramente i corsi di scrittura creativa spiegato in un capitolo del nuovo libro di Giulio D’Antona, sul mercato editoriale negli Stati Uniti
Minimum Fax ha pubblicato il libro Non è un mestiere per scrittori. Vivere e fare libri in America di Giulio D’Antona, giornalista culturale esperto di letteratura americana.
Nel libro D’Antona esamina i vari aspetti della produzione editoriale negli Stati Uniti e racconta come funziona il mercato editoriale oggi, attraverso interviste e incontri con scrittori affermati e esordienti, librai, agenti letterari e editori, e visitando i luoghi che gli scrittori frequentano o utilizzano come fonte di ispirazione.
Questo è il capitolo che D’Antona dedica ai corsi di scrittura creativa.
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Chi vede per la prima volta Brighton Beach, a sud di Brooklyn, affacciata sull’Oceano Atlantico, si trova di fronte a un mondo che non è mai cambiato. Con le giostre di Coney Island visibili verso sud, dove le spiagge larghe di sabbia fina e chiara si perdono nella silhouette dei palazzoni popolari, è la cristallizzazione di un ricordo fiabesco, di un’Europa che non esiste più a seimila chilometri dall’Europa vera. Tra le casse di frutta accatastate ai piedi dei banchi dei negozianti che si sporgono sulla strada sotto due binari sopraelevati che conferiscono alla scena l’aspetto sinistro di un vecchio film di gangster, l’odore leggero dei vareniki proveniente dai piccoli ristoranti in cui non si parla inglese e quello stagnante dell’olio di frittura usato per le knish di verdure che le donne pescano da grossi contenitori di plastica e vendono in rotoli di carta assorbente, si apre un immaginario da prima immigrazione. Non riesco a non pensare ai racconti di bastimenti, di fughe dalla ferocia cosacca e dai pogrom della seconda metà dell’Ottocento. Alle sventure del topo Fievel, protagonista di un vecchio cartone animato di Steven Spielberg. Alla Mermaid Avenue di Bernard Malamud, ma anche al porto franco dei Guerrieri della notte. Qui vive la più grande comunità di lingua russa del Nord America, arroccata nelle proprie tradizioni.
L’immigrazione dai territori dell’Est Europa è cominciata ai tempi dello zar e si è intensificata negli anni Quaranta del Novecento. Brighton Beach è conosciuta anche come Little Odessa, non a caso. Tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta, con la caduta dell’URSS, agli ebrei ucraini si sono aggiunte varie minoranze russe, congelate in una sorta di piccolo mondo antico che vive delle regole di un tempo e di un luogo che non sono né adesso, né qui. Ma nemmeno più in Ucraina. Mentre i paesi dell’ex Unione Sovietica scoprono lo sfarzo sregolato e cavalcano una modernità spesso ostentata, qui si ha l’impressione che la guerra non sia mai passata: anziane signore con la testa coperta da foulard scelgono le mele migliori tastandole dai cesti, ebrei ortodossi pregano sul lungomare scandendo il ritmo del Kaddish con la testa ciondolante e la barba al vento, mastodontici uomini in giacche di pelle scura e grossi anelli al mignolo addolciscono il tè fumante seduti ai tavolini di qualche locale arredato con cristalli e grosse lampade colorate. Chi conosce già Brighton Beach, vede le farmacie. «Sai perché ce ne sono così tante?», mi chiede la giovane scrittrice Yelena Akhtiorskaya, che mi sta accompagnando in un tour del quartiere. «Perché qui sono rimasti solo gli anziani, e tutto quello di cui hanno bisogno sono farmacie e frutta fresca».
Yelena è nata in Ucraina, ma è immigrata negli Stati Uniti all’età di sette anni. Parla russo e inglese come se fossero entrambe la sua prima lingua, ma capisce lo yiddish. Ha scritto due romanzi. Il secondo è stato pubblicato, si chiama Panic in a Suitcase e parla proprio di Brighton Beach, o meglio della frustrazione di tornare nel vecchio quartiere. Non fa solo la scrittrice, lavora come impiegata part-time in un ospedale.
«È il lavoro più noioso del mondo», dice.
Vive ad Alphabet City, però non odia Coney Island, ci torna per trovare sua nonna e qualche suo amico rimasto. Pochi, ma ce ne sono. Dopo la stesura del suo primo romanzo non è riuscita a trovare un editore, per cui si è iscritta a un Master of Fine Arts alla Columbia. Ha speso un sacco di soldi e imparato poco. Quando ha finito era ancora senza editore, però aveva riscritto completamente il libro e aveva in tasca i nomi di alcuni professionisti a cui rivolgersi, che alla fine si sono rivelati solo poco più utili di quelli che aveva già incontrato fino ad allora.
«L’MFA non mi è servito a niente, avrei potuto continuare a cercare di cavarmela per conto mio. Probabilmente sarei arrivata alle stesse conclusioni, avrei scritto il mio romanzo nello stesso modo in cui l’ho scritto e poi lo avrei pubblicato ugualmente, spendendo molto meno».
«Non ti ha aiutato a trovare qualche contatto?»
«Dove?»
«Nell’editoria».
«No. Mi sono trovata un agente e lui mi ha trovato un editore, ma questo sarebbe capitato comunque, il libro era buono».
Le farmacie sono le spie della decadenza di Brighton Beach quanto la delusione di alcuni ex studenti è il campanello di allarme per l’inefficacia degli MFA. Finché non si fa caso alle farmacie, Little Odessa è la porta su un universo parallelo, come i master sono i cancelli dorati per la folgorante carriera letteraria. Poi si entra, si esce dall’altra parte, e ci si rende conto che non ci vuole più stare nessuno. I corsi non servono a molto più di quanto occorre a lavarsi la coscienza spuntando la voce «autocritica» e a pulire il foglio degli errori grossolani, figli dell’esordio.
Nel 1986, sfogliando la rivista People, lo spiantato ingegnere geofisico George Saunders si è imbattuto in un profilo di Carver e dello scrittore e critico culinario Jay McInerney e ha registrato l’esistenza dei master in scrittura creativa, cui fino ad allora non aveva dato molta importanza. A Sumatra, dove per qualche tempo aveva lavorato in mezzo alla giungla a quarantacinque minuti di elicottero dalla città più vicina, aveva preso l’abitudine di leggere molto per ammazzare il tempo. Non pensava che avrebbe iniziato a scrivere, ma ha comunque fatto domanda per essere ammesso a Syracuse, dove insegnavano Tobias Wolff e Douglas Unger. «Sono stato fortunatissimo», avrebbe detto in seguito. «A Syracuse ho conosciuto mia moglie e a quel punto è iniziata la mia seconda vita». Nel 1992, quando era alle prese con la sua prima raccolta di racconti, Bengodi, uno dei suoi scritti, dal titolo «Offloading for Mrs. Schwartz» fu pubblicato sul New Yorker, inaugurando la sua carriera di scrittore pubblicato e inchiodando al muro la sua gratitudine verso l’invenzione della scrittura creativa. Grazie a Jennifer Armstrong, amica e collega giornalista, collaboratrice di New York e Entertainment Weekly, ho seguito alcune lezioni di un corso privato di scrittura creativa che si tiene a Manhattan, alla Gotham School for Writers. La materia era qualcosa di traducibile come «saggistica pop» o «cronaca dello spettacolo»: recensioni, profili, copertura di eventi. Quello di cui la Armstrong si occupa tutti i giorni, scrivendo di televisione e spettacolo. Un ambito al contempo molto specifico e molto vasto, facile da confondere con una materia semplice.
La mia curiosità era rivolta al metodo, più che al contenuto. Volevo vedere come si fa a insegnare quello che io ho sempre considerato istintivo, ovvero l’interesse per determinati argomenti e l’abilità nell’analizzarli, oltre che un certo fiuto per coglierli quando non sono ancora troppo freddi.
Jen è una reporter molto in gamba e una scrittrice eccezionale. Ha pubblicato tre saggi, il primo dei quali sul femminismo nella società dello spettacolo, ed è alle prese con il suo quarto libro, un’analisi dettagliata della sitcom Seinfeld – uno dei più grossi fenomeni mediatici degli anni Novanta e il motivo per cui ci siamo conosciuti. Il giorno della prima lezione sono in anticipo ed entro in aula che non c’è ancora nessuno. Quattro grossi tavoli laccati chiari occupano quasi tutta la stanza e una quindicina di sedie sono disposte tutto intorno, lasciando poco spazio per muoversi. Alle spalle della sedia accanto alla porta c’è una grossa lavagna bianca, e leggo attraverso le scritte cancellate di fretta: «Column, interview, essay, story». Editoriale, intervista, saggio, racconto. La semplificazione mi fa sorridere. Mentre aspetto sfoglio alcune delle dispense che gli studenti hanno lasciato sui tavoli, spostandomi continuamente per non dare l’idea di essermi infilato nell’edificio solo per sfuggire alla prima giornata calda della primavera newyorkese. Articoli stampati da internet, presi da New Yorker, AM New York, Time Out e A.V. Club. Recensioni, soprattutto – più tardi scoprirò che questo è il tema della lezione. Comincio a leggere un lungo profilo di Sasha Frere-Jones il cui soggetto è il rapper Jay-Z, che contiene un’analisi piuttosto approfondita della sua poetica. Frere-Jones, a parte avere un cognome che molti del settore gli invidiano, è bianco, di Brooklyn, appassionato di rap al punto da diventarne un esperto. Dubito che una cosa del genere si possa veramente insegnare in un corso, sia esso universitario, post universitario o privato.
Jen arriva una decina di minuti più tardi, quasi contemporaneamente con la prima studentessa, una ragazza sulla ventina, molto alta e molto sorridente, che mi spiega il motivo per cui ha deciso di iscriversi al corso: si è appena diplomata in editoria al college e vuole cercare di concentrarsi su un ambito specifico. I corsi di laurea in giornalismo prevedono una preparazione molto generica e ancora almeno tre anni di studio, poi dovrebbe iscriversi a un MFA per affinare ulteriormente la sua preparazione e venire in contatto con l’ambiente lavorativo. Insomma, le ci vorrebbero almeno altri sei anni e davvero un sacco di soldi. Il corso di Armstrong dura solamente sei settimane. Non dovrei, ma arriccio il naso.
Man mano che gli studenti entrano in aula e prendono posto, mi rendo conto della varietà impressionante di persone spinta a frequentare un corso di scrittura. Tra i quindici allievi di Jen ci sono alcuni ragazzi in età da college, due donne di mezza età, una donna di origine asiatica che parla un inglese incerto, una ragazza piuttosto giovane che viene da Perth, in Australia, e si fermerà a New York solo per sei mesi. È a questo punto che mi pongo la domanda essenziale: una volta che queste persone avranno imparato a padroneggiare il mezzo della scrittura, a incanalare la loro ispirazione in un ambito ristretto e con regole grammaticali precise, dove andranno a sfogarlo? L’America mi ha abituato a un livello di pragmatismo che fino a qualche tempo fa non conoscevo. Tutto, qui, ha la sua dimensione lavorativa. Ogni attività è finalizzata, se non a un guadagno diretto, ad alimentare una catena di montaggio. Semestre dopo semestre, l’università riversa per le strade milioni di giovani pronti alla professione. Le scuole superiori forniscono una dose massiccia di lezioni pratiche per ovviare al sovrappopolamento delle aule accademiche. Nessuno sta con le mani in mano: persino i ragazzini delle scuole medie ed elementari dedicano una fetta importante delle loro ore di studio alla manualità e all’orientamento professionale. Le estati, dai tredici anni in su, sono spesso consacrate a lavoretti stagionali e campi a tema, che introducano quanto più concretamente possibile alla padronanza dei fondamentali in un campo specifico. Ciascun membro della società è spronato alla crescita individuale e a trovare il proprio posto nell’immensa macchina produttiva che tiene in piedi il paese. E allora, che posto è riservato a un manipolo di aspiranti giornalisti culturali altamente specializzati ma non abbastanza motivati da seguire un corso universitario, spesso fuori età per trovare un lavoro e comunque intenzionati a buttarsi in un campo già di per sé piuttosto saturo?
Una risposta me la dà una delle studentesse più anziane: «Ho un blog», mi dice semplicemente. «E voglio che i miei lettori siano soddisfatti dalla forma di quello che scrivo, oltre che dalla sostanza». Le chiedo quanti lettori ha al mese e la sua risposta è nell’ordine di poche decine. Ammiro il suo attaccamento al prodotto e mi dico che non può certo fare danno, dal momento che va a occupare un posto che ha costruito attorno a se stessa e che comunque ha probabilmente già realizzato la sua carriera lavorativa. Allora chiedo a Jen – per non essere indelicato con i ragazzi, memore dell’insegnamento di Lipsyte – se secondo lei qualcuno di loro può veramente aspirare a una carriera nel giornalismo.
«Non sono così sicura che vogliano trasformare questa esperienza in un vero lavoro», mi risponde. «Ci sono stati un paio di studenti che alla fine si sono messi a fare i giornalisti, ma credo che la maggior parte di loro voglia semplicemente esplorare la scrittura».
Mi viene in mente Carver che, molto prima di cominciare a insegnare, deciso a voler vivere della sua passione, si è iscritto al college, riluttante. Walla Walla, poi Palmer Institute of Authorship, poi Chico State per seguire John Garner, poi Arcata in California e infine l’Iowa Writers’ Workshop. L’inseguimento senza quartiere dell’affinazione tecnica e delle pubblicazioni, fino al coronamento della sua aspirazione. La risposta brutale a chi si limita a voler «esplorare», per ingrassare un blog da venti lettori al mese.
Le lezioni della Armstrong si basano su poca teoria e molta pratica – tecnica che, viste le premesse, è più che vincente. In tre ore gli studenti sono chiamati a scrivere un paio di recensioni e a leggere e commentare i «compiti» assegnati la volta precedente. Noto con stupore che il livello della discussione è piuttosto alto. Malgrado si tratti di amatori dichiarati, molti degli studenti danno l’idea di padroneggiare alla perfezione gli argomenti e di non prendere il corso affatto alla leggera. Carver ne sarebbe compiaciuto.
Tutto sommato, il destino degli scritti o di chi uscirà dai sei mesi di corso importa poco, vista la passione che ognuno mette nel proprio lavoro. Certo, il livello della scrittura giornalistica negli Stati Uniti è generalmente altissimo, decisamente fuori dalla portata di debuttanti totali, ma credo che ognuno dei quindici allievi della Armstrong potrebbe tranquillamente aspirare, se non a una carriera vera e propria, a un certo riconoscimento. Jen fornisce il materiale tecnico, dà indicazioni come: «Ovviamente potete usare la prima persona». Oppure: «Cercate di non fare frasi troppo lunghe, andate al sodo, date consigli». O ancora: «Siate divertenti all’inizio, ma non perdetevi negli aneddoti, non avete molto spazio». Non è nemmeno più insegnare a scrivere, ma insegnare a esprimersi in una maniera che sia immediatamente chiara a tutti – verso la fine della lezione, ripassando gli appunti e qualche capitolo del libro che state leggendo, mi viene il sospetto che avrei dovuto stare più attento.
Tornando al principio di questo capitolo: mentre io e Yelena Akhtiorskaya prendiamo una birra nell’unico pub di Brighton Beach sfacciatamente britannico, che comunque porta le insegne in cirillico e i cui camerieri ti si rivolgono prima di tutto in russo, lei mi dice qualcosa come: «Non puoi insegnare a scrivere. Se ti iscrivi a un master per imparare a scrivere, hai completamente sbagliato a capire». Ci tiene a sottolinearlo perché lei stessa è caduta in questa trappola. Tutti hanno bisogno che qualcuno impartisca le basi, corregga la lingua, indichi la via. Ma questo, a detta di molti, non succede negli MFA, e nemmeno in nessun altro corso di scrittura. Si impara leggendo, esercitandosi e confrontandosi. Si impara mettendo assieme una struttura di modelli provenienti dallo stesso campo e possibilmente orientati verso la direzione del proprio interesse.
Ho conosciuto diversi insegnanti di scrittura creativa, italiani e americani. Alcuni molto bravi, altri decisamente pessimi. Quelli molto bravi sanno una cosa: si possono correggere i difetti, non si può inculcare un talento. Ha detto Jennifer Egan: «Non c’è niente come il confronto, anche brutale, anche feroce, anche invidioso, con altri che nutrano la stessa nostra passione, per comprendere le proprie debolezze ed essere spronati a migliorarsi». E non c’è niente di meglio che avere accanto un avversario da battere, se si vuole raggiungere un obiettivo. I corsi di scrittura di qualsiasi livello, i gruppi di lettura e i tavoli di confronto – ma anche i reading e le presentazioni: perché non rivolgere la nostra ostilità in direzione di chi ce l’ha già fatta? – forniscono, se non altro, questo genere di opportunità.
(c) Giulio D’Antona, 2016 – (c) minimumfax, 2016. Tutti i diritti riservati