“Il Punitore” ha vinto le elezioni nelle Filippine
I dati non sono ancora definitivi, ma il controverso sindaco Rodrigo Duterte è in vantaggio sugli altri candidati
Aggiornamento delle 7:30 di martedì 10 maggio 2016
Rodrigo Duterte sarà il nuovo presidente delle Filippine. Il controverso candidato, già sindaco di Davao City e definito “il Punitore” per i suoi metodi spicci contro la criminalità, è in netto vantaggio rispetto ai suoi avversari politici che hanno partecipato alle elezioni presidenziali, che si sono tenute ieri nel paese. Secondo i dati non ancora definitivi e ufficiali, Duterte ha ottenuto il 39 per cento dei voti, distanziandosi molto dagli altri candidati. Grace Poe, considerata la sua principale avversaria, ha riconosciuto la vittoria di Duterte. Secondo la commissione elettorale delle Filippine, che potrebbe impiegare giorni prima di confermare i dati e assegnare la vittoria, circa l’80 per cento dei 54 milioni di aventi diritto al voto ha partecipato alle elezioni, organizzate per rinnovare anche il Parlamento e numerose cariche locali.
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Oggi si sono tenute le elezioni presidenziali e politiche nelle Filippine, un arcipelago del sudest asiatico dove vivono circa 98 milioni di persone. I seggi sono stati aperti dalle 6 del mattino locali (in Italia era mezzanotte) alle 17 locali, quando in Italia erano le 11 di mattina. Si è votato per rinnovare moltissime cariche: soprattutto quelle di presidente e vice-presidente del paese – le Filippine sono una repubblica presidenziale – ma anche per tutti i 297 seggi della camera bassa, gli 81 governatori regionali e i 145 sindaci delle principali città.
A circa tre quarti dello spoglio, il candidato presidente che ha ottenuto più voti è Rodrigo Duterte, 71enne sindaco di Davao City, una città di 1,5 milioni di abitanti sull’isola meridionale di Mindanao, che ha movimentato parecchio la campagna elettorale con le sue dichiarazioni sopra le righe e i suoi modi spicci (è già stato soprannominato il “Donald Trump orientale”). Duarte per ora è dato al 38,6 per cento dei voti, mentre il secondo candidato più popolare al 22,8 per cento. A meno di grosse sorprese, insomma, Rodrigo Duterte sarà in prossimo presidente delle Filippine.
Duterte è noto per le sue dichiarazioni incredibilmente offensive o indelicate, per lo stile di vita bizzarro – dice di avere due mogli e due “fidanzate” – e soprattutto per avere ammesso di essere legato a un corpo paramilitare che da anni a Davao City assassina i membri della criminalità organizzata. Nel 2002 un articolo su Time gli diede un soprannome con cui è noto ancora oggi: The Punisher, “il Punitore”, come il supereroe “cattivo” della Marvel che uccide i criminali a sangue freddo.
Chi è il “Punitore”
Duterte è nato da una buona famiglia filippina nel 1945: entrambi i suoi genitori facevano politica e ricoprirono cariche pubbliche. Duterte si laureò in giurisprudenza e nel 1972 divenne avvocato. Negli anni successivi fece carriera nella magistratura filippina, finché decise di entrare in politica: nel 1986 fu eletto vicesindaco di Davao City, mentre nel 1988 iniziò il suo primo mandato da sindaco.
Al Jazeera racconta che quando Duterte arrivò al potere, la città era coinvolta in «una lotta cruenta fra i ribelli [comunisti] e le forze di sicurezza», e che ai tempi era soprannominata “Nicaragdao”, per richiamare uno dei paesi più violenti del Centro America. Con gli anni Davao City è invece diventata una delle città più pacifiche del paese, meta di turisti e sicura per i suoi stessi abitanti: la città è piena di polizia e ha un centralino per le emergenze molto attivo. Duterte è rimasto in carica fino al 1998 e in seguito è stato rieletto due volte, nel 2001 e nel 2013. A queste elezioni Duterte si candida col Partito Democratico-Potere al Popolo, un piccolo partito di sinistra.
I suoi critici lo accusano però di aver risolto i problemi di ordine pubblico di Davao City con eccessiva violenza. Un portavoce di un comitato locale contro la violenza sommaria ha detto ad Al Jazeera che fra il 1998 e il 2015 un gruppo paramilitare molto attivo in città ha ucciso 1.424 persone, tra cui 132 minorenni. Il 24 maggio, durante una trasmissione di una tv locale, Duterte ha ammesso pubblicamente di essere legato al gruppo paramilitare, per poi ritrattare parzialmente le sue affermazioni (come aveva già fatto altre volte in passato). Human Rights Watch riporta che appena dieci giorni prima, durante una riunione politica, aveva detto: «Siamo la nona città più sicura al mondo. Come credete che ci sia riuscito? Come credete che abbia raggiunto il nono posto? Li ho uccisi tutti [i criminali]».
Nelle Filippine le sue dichiarazioni fuori luogo sono la norma: in un discorso pubblico ha chiamato scherzosamente Papa Francesco “un figlio di puttana”, poiché nella sua ultima visita a Manila aveva causato un gran traffico per tutta la città; durante le celebrazioni di un matrimonio di massa ha spiegato di avere un dono per ciascuna delle spose, ma non per gli sposi perché «non sono gay». In un recente comizio, ha parlato dello stupro e dell’uccisione di una missionaria australiana durante una rivolta della prigione di Davao City, nel 1989, spiegando di essere rimasto deluso perché in quanto sindaco sarebbe dovuto essere il primo a stuprarla. Durante un’intervista con una giornalista di Rappler, un noto sito di news filippino, Duterte ha spiegato con molta tranquillità, in inglese: «Devo ammettere che ho ucciso delle persone. Tre mesi fa ho ucciso circa… tre persone».
L’attuale presidente Benigno Aquino si è espresso pubblicamente più volte contro Duterte: il suo portavoce lo ha definito «inadatto» a governare e diverse persone temono che l’elezione di Duterte possa provocare una nuova svolta autoritaria. Altri non ne sono così convinti, e spiegano che Duterte è pur sempre un politico famoso per essere parecchio pragmatico, a modo suo: Reuters ha scritto che secondo un report della società di consulenza Eurasia Group, «le Filippine proseguiranno con le loro politiche riformiste e favorevoli alla crescita economica, a prescindere da chi venga eletto», e che nel caso vincesse, Duterte «probabilmente si impegnerà nello sviluppo di infrastrutture, nell’ottimizzazione della burocrazia e proseguirà la politica di apertura nei confronti degli investitori stranieri».
Al momento Duterte ha circa 11 punti di vantaggio nei sondaggi su Grace Poe, 47enne imprenditrice e politica centrista che ha vissuto per anni negli Stati Uniti e che nel 2013 era stata una dei candidati più votati al Senato filippino. Un pelo più sotto c’è invece Manuel Roxas II, esperto politico 58enne e nipote dell’ex presidente delle Filippine Manuel Roxas.
Ma perché?
L’Economist fa notare che in teoria i cittadini filippini dovrebbero preferire a Duterte un candidato legato all’attuale classe dirigente del paese, responsabile della rapida crescita economica degli ultimi anni – dal 2006 a oggi il PIL è praticamente raddoppiato, arrivando a quasi 300 miliardi di dollari – e della robusta politica di investimenti pubblici: sbagliato, spiega sempre l‘Economist.
Sembra invece che gran parte dell’elettorato filippino non desideri continuità, ma un cambiamento: il boom economico ancora in corso non è riuscito a fare abbastanza. La povertà – in particolare nelle zone rurali – rimane endemica. Milioni di filippini che vivono fuori dalle città frequentano scuole scadenti, e non riescono a ottenere lavori nel settore terziario per la cattiva educazione e per questioni geografiche. La politica filippina è stata a lungo dominata da poche famiglie. Anche il padre di Duterte era un politico locale, ma fuori dall’elite di Manila. Mentre candidati più esperti come Roxas faticano a legare con la gente, Duterte ha un dono naturale, esaltato dal suo linguaggio salace e dalla sua spacconeria.
Le sue posizioni sul crimine e sulla corruzione – due grossi temi della campagna elettorale – fanno leva su molti elettori, stanchi di essere vittime della criminalità organizzata e delle “mance”. Gli elettori filippini credono che abbia davvero reso Davao City più sicura – anche se i dati non tornano molto – cosa che li convince che riuscirà davvero a ottenere qualche risultato pratico; al contrario dei trapos, i politici dell’establishment, che gli elettori sentono blaterare di tassi di interesse e rating del debito mentre passano tre ore sui mezzi pubblici per arrivare al lavoro.