La complicatissima storia della foto di Iwo Jima
È tra le più famose della Seconda guerra mondiale, ma ancora oggi non sappiamo tutti i nomi dei soldati che issarono la bandiera
Una delle foto di guerra più famose di sempre fu scattata il 23 febbraio 1945 da Joe Rosenthal, un fotografo di Associated Press che quel giorno si trovava sul monte Suribachi, sull’isola giapponese di Iwo Jima. Rosenthal fotografò sei soldati dell’esercito americano issare una bandiera degli Stati Uniti sulla cima della montagna, e la foto diventò rapidamente un simbolo della Seconda guerra mondiale, e successivamente una delle immagini più iconiche di tutto il Novecento. Martedì 3 maggio James Bradley, l’autore di famoso libro sulla storia della foto, Flags of Our Father, nel quale aveva raccontato di come suo padre fosse uno dei sei Marines che alzarono la bandiera, ha detto in un’intervista al New York Times che ora non crede che suo padre fosse veramente uno degli uomini ritratti nella foto. Pochi giorni prima il Corpo dei Marines aveva annunciato di avere svolto un’indagine per stabilire se l’identificazione dei sei soldati fosse stata accurata. La fotografia è famosissima e diffusissima, il libro di Bradley ha ispirato l’omonimo film di Clint Eastwood, ma fino dai primi giorni dopo la sua pubblicazione ci sono stati moltissimi dubbi sulla sua autenticità e sull’identità delle persone ritratte: qualcuno sostenne addirittura che fosse stata inscenata.
Monte Suribachi, 23 febbraio 1945
La battaglia di Iwo Jima fu combattuta tra il 19 febbraio e il 26 marzo del 1945, subito dopo la campagna americana nelle isole Marshall e prima di quella a Okinawa. Gli Stati Uniti – che facevano parte della coalizione degli Alleati – stavano combattendo contro il Giappone – parte dell’Asse – la cosiddetta guerra del Pacifico, uno dei fronti della Seconda guerra mondiale. Sull’isola di Iwo Jima c’era un’importante e strategica base aerea e navale giapponese, presidiata da poco più di ventimila soldati: gli americani sbarcarono sull’isola il 19 febbraio 1945, sottovalutando le difficoltà dell’invasione. Fu necessario più di un mese per conquistare l’isola, con un impegno complessivo di oltre 70mila soldati statunitensi. La battaglia fu molto sanguinosa: morirono circa 6800 soldati americani e quasi 20mila militari giapponesi. La guerra del Pacifico si sarebbe conclusa solo nell’agosto del 1945, dopo i bombardamenti su Hiroshima e Nagasaki.
La foto dei soldati americani fu scattata il 23 febbraio in cima al monte più prominente dell’isola di Iwo Jima, il Suribachi, alto 169 metri e luogo strategico per il controllo della zona: la conquista era avvenuta quello stesso giorno e fu uno dei primi eventi significativi della battaglia. Rosenthal quella mattina stava raggiungendo l’isola a bordo di un mezzo da sbarco dei Marines (dormiva su una nave dell’esercito), quando venne a sapere che forse era stato preso il monte Suribachi, e che per segnare la vittoria i soldati si stavano organizzando per issare una bandiera. Appena sbarcato sull’isola, partì verso il monte, incontrando altri due fotografi che si unirono a lui. A circa metà della salita, incontrarono quattro Marines tra i quali un sergente che era anche fotografo della rivista Leatherneck: gli disse che la bandiera era già stata issata, ma che valeva la pena arrivare in cima al Suribachi anche solo per la vista; i tre decisero di proseguire la salita.
Arrivato sulla cima, Rosenthal scoprì che in effetti una bandiera era già stata issata poco dopo le dieci di mattina, ma che per ragioni ancora oggi non chiarite si stava pensando a sostituirla con una più grande. Rosenthal si mise senza successo alla ricerca dei Marines che avevano issato la prima bandiera con l’idea di fotografarli in posa: nessuno apparentemente sapeva chi fossero. Mentre li stava cercando, si accorse che altri sei soldati stavano per issare la nuova bandiera. Si posizionò e scelse l’obiettivo più adatto per scattare la fotografia; nel frattempo uno degli altri due fotografi, che stava riprendendo con una cinepresa, si piazzò vicino a lui e gli chiese se fosse d’intralcio. Rosenthal si girò per rispondergli, ma con la coda dell’occhio notò che i soldati stavano issando la bandiera proprio in quel momento: scattò senza guardare nel mirino. Non potendo sapere di avere scattato quella che sarebbe stata la foto più importante della sua vita e una delle più famose della storia, mise insieme altro materiale: radunò tutti i soldati intorno alla bandiera e scattò un’altra foto, che prese poi il nome di “gung ho”, una locuzione di origine cinese popolare nell’esercito americano per esprimere entusiasmo.
Il rullino con la foto fu mandato a sviluppare da Rosenthal nella redazione militare sull’isola di Guam, dalla quale fu trasmessa via radiofax alla redazione centrale a New York. Il 25 febbraio, meno di 48 ore dal momento in cui era stata scattata, finì sulle prime pagine di moltissimi giornali, in un tempo incredibilmente breve per l’epoca. Rosenthal ricevette un messaggio di congratulazioni dalla redazione di AP, ma subito non capì neanche a quale foto si stessero riferendo i suoi colleghi. L’immagine divenne rapidamente un simbolo dello sforzo dei soldati statunitensi nel Pacifico, e fu utilizzata dalla propaganda dell’amministrazione del presidente Franklin D. Roosevelt (che morì un mese e mezzo dopo) e da quella di Harry Truman. La foto vinse nel 1945 il premio Pulitzer, e fu riprodotta in vari formati: dai francobolli al memoriale dei Marines ad Arlington, in Virginia.
I primi dubbi
I primi dubbi sull’autenticità dell’immagine iniziarono a circolare per un equivoco. Robert Sherrod, un reporter di Time e Life, qualche giorno dopo intervistò Rosenthal sull’isola di Guam: gli chiese se la foto fosse stata organizzata, e Rosenthal gli disse «certo», pensando si riferisse alla foto di tutti i soldati intorno alla bandiera, quella del “gung ho”. Sherrod lo scrisse alla sua redazione, e la notizia fu data durante un programma radiofonico di Time. Nel giro di qualche giorno la questione venne chiarita e Time si scusò con Rosenthal, che da subito spiegò dettagliatamente come aveva scattato la foto e la storia delle due bandiere. Constatata l’autenticità, qualcuno sostenne comunque che l’impatto storico ed emotivo della foto fosse sproporzionato, considerando che la bandiera fu issata per ragioni tecniche quando il monte era già stato preso da qualche ora. Altri misero in dubbio la stessa importanza strategica della conquista del monte Suribachi: in effetti la battaglia di Iwo Jima durò per altri venti giorni, e la resistenza giapponese incontrata quel giorno fu molto meno tenace e sanguinosa di quella che l’esercito americano avrebbe affrontato nelle settimane seguenti. Sia i soldati che issarono la prima bandiera sia quelli che issarono la seconda, comunque, combatterono nei giorni successivi in quella che fu una delle battaglie più dure della Seconda guerra mondiale. Sopravvissero solo in cinque su undici.
I nomi dei soldati della foto non furono subito resi noti e Rosenthal non li incluse nella didascalia spedita a Guam. Nel 1945, il presidente Roosevelt ordinò che i sei soldati fossero identificati, e non era solo un’esigenza storica: Roosevelt voleva usare i soldati della foto per pubblicizzare la raccolta fondi per il finanziamento della guerra del Pacifico. Non era però una cosa facile: perfino i soldati che quel giorno erano stati sul monte Suribachi non erano sicuri dei nomi delle sei persone che avevano alzato la bandiera, senza contare la confusione tra quelli che lo avevano fatto la prima volta e quelli della seconda.
Rene Gagnon, che si sapeva con certezza fosse uno dei sei, diede i nomi degli altri: John Bradley, rimasto ferito nei giorni seguenti, Franklin Sousley, Michael Strank e Henry “Hank” Hansen, tutti morti a Iwo Jima. Ira Hayes, il sesto uomo nella foto, aveva minacciato Gagnon perché non facesse il suo nome: non voleva diventare famoso. Era anche la posizione di Bradley, che però non arrivò a minacciare Gagnon, e si ritrovò coinvolto nella foto e nelle sue conseguenze. Gagnon però aveva sbagliato un nome, senza volerlo: l’uomo tutto a destra non era Hansen, ma il Marine Harlon Block. La famiglia di Block, morto in battaglia, rese nota la cosa nel 1946, e un’indagine del Corpo dei Marines confermò. Gagnon, Hayes, e Bradley, gli unici sopravvissuti, dopo Iwo Jima tornarono negli Stati Uniti, incontrarono il neopresidente Truman e partirono per una tournée per il paese per raccogliere fondi, tra il maggio e il giugno del 1945.
(una delle prime versioni della foto, con i soldati identificati in maniera sbagliata: il primo da destra è in realtà Block, e Hayes e Sousley, a sinistra, sono invertiti)
Chi è l’uomo nel centro?
Oggi tutti gli uomini della foto di Rosenthal sono morti. Il padre di James Bradley – che si chiamava John H. Bradely – morì nel 1994. Suo figlio scrisse il libro Flags of Our Fathers nel 2000: diventò un best seller e ispirò il film di Eastwood. Nel 2014 l’Omaha World-Herald pubblicò un lungo articolo nel quale raccontò che due storici amatoriali, Eric Krelle e Stephen Foley, avevano scoperto che per settant’anni ci si era sbagliati sull’identità del soldato al centro della foto: non era John Bradley, il padre di James, ma Harold H. Schultz.
Nell’estate del 2013, Foley era a casa in convalescenza dopo un’operazione per un’ernia. Fin da bambino si era appassionato di storia della Seconda guerra mondiale e aveva letto un libro sulla bandiera di Iwo Jima: in copertina c’era la famosa foto di Rosenthal, mentre all’interno c’erano le altre immagini che il fotografo di AP e gli altri che erano con lui sul monte Suribachi avevano scattato quel giorno. Tra queste ce n’erano altre di Bradley. Nella foto in cui viene issata la bandiera la faccia dell’uomo che si credeva essere Bradley è coperta, ma in altre – in cui è ritratto sicuramente Bradley – si vede chiaramente: Foley notò che i due non sembravano la stessa persona, e passò le settimane seguenti a indagare la cosa.
Nella foto diventata famosa, il soldato identificato come Bradley non ha i risvolti ai pantaloni. Foley notò che in tutte le altre foto, Bradley invece li aveva. Un’altra differenza era che nella foto dei soldati che alzano la bandiera, l’uomo in centro aveva un berretto sotto l’elmetto: nella foto-“gung ho” Bradley – il sesto da sinistra – ha l’elmetto alzato in mano, ma dentro non si vede nessun berretto. Ma la differenza più grossa è nella cintura: Bradley non era un Marine, ma un portaferiti della Marina. L’uomo nella foto invece aveva una cintura con il posto per le munizioni e delle cesoie per tagliare il filo spinato: quelle che indossavano i Marines. I portaferiti non avevano il posto per le munizioni perché non usavano un fucile, ma una pistola. Non erano neanche equipaggiati con le cesoie, perché dovevano avere le mani libere per soccorrere i feriti.
Tra le foto di quel giorno sul monte Suribachi, Foley trovò una persona che corrispondeva all’uomo nella foto identificato come Bradley. Il problema era che si trattava di Franklin Sousley, il Marine morto negli ultimi giorni della battaglia a Iwo Jima, fino ad allora identificato con il secondo uomo da sinistra nella foto. Foley era arrivato a un punto morto della sua indagine, e non sapendo bene cosa fare contattò Eric Krelle, un progettista di giocattoli statunitense che gestiva un sito dedicato ai Marines. Krelle si rese subito conto di avere per le mani qualcosa di grosso, e che bisognava scoprire chi fosse il soldato misterioso. A differenza di Foley, Krelle aveva a disposizione moltissimo materiale su Iwo Jima, raccolto in anni di ricerche.
Krelle si mise a spulciare tutte le foto e le riprese in suo possesso: nel video girato nel momento dell’issata della bandiera, notò che per un momento si vedeva una specie di laccio pendere dall’elmetto dell’uomo misterioso, il secondo da sinistra. Passando in rassegna tutte le altre foto di quel giorno, trovò un’altra immagine di un soldato con lo stesso laccio sull’elmetto: era Harold H. Schultz, sopravvissuto a Iwo Jima e fino ad allora mai associato alla foto di Rosenthal. Nella foto-“gung ho”, Schultz è il quinto da sinistra. Krelle raccolse i risultati delle ricerche sue e di Foley e scrisse un post sul suo blog, che però non ricevette nessuna attenzione. Contattò allora Matthew Hansen, un giornalista dell’Omaha World-Herald, che provò a verificare la scoperta contattando diversi storici. La maggior parte negò categoricamente l’ipotesi, esprimendo molti scetticismi sul fatto che la teoria arrivasse da due storici amatoriali. Uno rispose a Hansen che i due erano «chiaramente pazzi». Un’ora dopo però scrisse di nuovo a Hansen, per dirgli due cose: si era convinto della scoperta, ma non voleva essere citato.
Hansen parlò con altri storici e indagò sulla vita di Schultz. Dopo Iwo Jima, Schultz era stato congedato con onore dall’esercito e si era trasferito a Los Angeles, dove aveva lavorato per il servizio postale americano. Negli anni ebbe diversi figli, da due matrimoni diversi. Hansen riuscì a contattare una delle figlie, Dezreen Schultz, che gli spiegò che suo padre era morto nel 1995, aveva avuto una vita piuttosto solitaria e aveva sempre parlato poco della guerra. A quanto ne sapeva, non aveva mai parlato di Iwo Jima, tantomeno del monte Suribachi. Hansen ricevette dalla figlia di Schultz una scatola con ricordi di guerra conservati dal padre. Dentro c’era una copia della foto-“gung ho”: sul retro l’autografo di Rosenthal e i nomi di tutti i soldati annotati a penna. Ma dentro la scatola c’era un’altra foto, quella dei sei soldati che alzano la bandiera. A differenza dell’altra, però, sul retro non erano segnati i nomi. Hansen quindi non riuscì a confermare definitivamente la teoria che diceva che quello nella foto non fosse Bradley.
La versione del figlio di Bradley
Prima di scrivere il suo articolo, Hansen contattò James Bradley, che secondo Hansen reagì alle ipotesi di Krelle e Foley con «mentalità aperta»: in quel periodo però aveva appena finito di scrivere un libro e stava per partire per il Vietnam per scriverne un altro, e disse che non aveva le energie per infilarsi in un dibattito simile. Espresse comunque scetticismo, ipotizzando che le differenze nell’abbigliamento potessero essere dovute al fatto che suo padre si era tolto i risvolti tra una foto e l’altra. Disse anche che secondo lui se suo padre non fosse stato davvero uno degli uomini della foto, lo avrebbe detto prima di morire, perché non avrebbe voluto essere coinvolto ingiustamente in tutto quel trambusto. Promise a Hansen che avrebbe studiato tutto il materiale che il giornalista gli aveva mandato, ma poi cambiò idea e gli disse che non l’avrebbe fatto: «Ascolta, ho scritto un libro basato sui fatti che mi hanno raccontato le persone che erano davvero lì. Sono le mie ricerche. Io ci credo».
Martedì 3 maggio, però, Bradley ha cambiato la sua versione. Ha contattato il New York Times e ha detto di aver aspettato così tanto a farsi avanti perché dopo il viaggio in Vietnam era andato in Nuova Guinea si era gravemente ammalato, e perché fino a ora c’era stato poco interesse sulla questione. Ha detto però che ora è convinto dall’ipotesi che suo padre non sia in realtà nella fotografia di Rosenthal: secondo lui faceva parte del gruppo di soldati che alzò la prima bandiera, e per cinquant’anni ha creduto che fosse quella a essere ritratta nella foto. Recentemente lo Smithsonian Channel, un canale americano che si occupa di divulgazione scientifica, ha lavorato con il Corpo dei Marines per chiarire una volta per tutte l’identità della foto. Quando Hansen li aveva contattati, invece, il Corpo dei Marines aveva dimostrato poco interesse nelle ricerche di Krelle e Foley. Pochi giorni fa ha reso nota la sua indagine in collaborazione con Smithsonian Channel, che verrà trasmessa quest’anno.