I problemi di quando si traducono le parole dei fumetti
Non è tanto linguistico, quanto grafico: ne ha scritto Giada Nardozza su Fumettologica, confrontando la versione originale del graphic novel “Palestine” con quella italiana
Palestine è un graphic novel del 1996, scritto e disegnato dal giornalista maltese Joe Sacco: racconta un suo viaggio in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza nei primi anni Novanta. Palestine è stato premiato, apprezzato, ben recensito e nel 2002 pubblicato in italiano con il titolo Palestina, una nazione occupata. Sul sito italiano Fumettologica, Giada Nardozza ha confrontato la versione originale con la sua traduzione italiana e ne ha analizzato il lettering, «l’attività di riempire gli spazi dedicati alle parole in una tavola di fumetto». Nella versione originale le parole sono state scritte a mano dall’autore, in quella italiana sono invece state inserite a computer. È una cosa che si fa spesso perché è comoda, veloce e ovviamente meno costosa. «La scrittura omogenea prodotta dal computer annulla parte della connotazione che il pennino dell’autore conferisce alle tavole originali», scrive Nardozza, che poi spiega e fa vedere alcuni problemi grafici dovuti alle parole tradotte.
Per alcuni lettori e autori di fumetti è un aspetto determinante; per altri invece è qualcosa di “invisibile”, se non irrilevante. Su Fumettologica ne è stato scritto più volte, seguendo un assunto che potremmo riassumere così: il lettering – ovvero l’attività di riempire gli spazi dedicati alle parole in una tavola di fumetto – è un elemento di importanza capitale nel confezionamento di un prodotto di valore, che sia curato nei dettagli ed esteticamente piacevole. Una regola che tuttavia, tanto nella composizione quanto nella traduzione di un fumetto, vale spesso, ma non sempre.
Torniamo quindi sul tema, allo scopo di (ri)sottolineare un punto: il lettering, per il fumetto, è una questione davvero complessa. Una complessità che emerge con particolare evidenza nelle traduzioni, nei casi in cui un lettering automatico venga a sostituirne uno che nella versione originale era manuale.
Per capirci, prendiamo in esame un esempio – il celebre Palestine di Joe Sacco – in cui la versione italiana ha proposto un carattere tipografico differente dalla calligrafia originale e che ha addirittura prodotto una serie di inestetismi, quando non addirittura di veri e propri errori. Naturalmente, molte delle considerazioni che seguiranno possono avere una valenza generale, che va oltre il singolo caso che analizzerò qui.
Partiamo dunque dalla prima vignetta della pagina 128 della versione originale (Fantagraphics Books, 2001) e confrontiamola con la corrispondente vignetta dalla traduzione italiana (il riferimento è all’edizione 2002 pubblicata da Mondadori).
Risulta evidente ad un primo sguardo che la versione italiana ha posto nelle didascalie un carattere sottodimensionato, che non riempie il riquadro e che comunque è molto più sottile del contorno delimitante lo stesso riquadro. Con questo carattere automatico risulta anche più difficile dare una rilevanza particolare ad alcune parole, che vengono grassettate dove nell’originale sono invece sottolineate, quando non addirittura scritte in dimensioni variabili.
La trasformazione che pone in essere questo pur limitato aspetto ha implicazioni profonde: la scrittura omogenea prodotta dal computer annulla parte della connotazione che il pennino dell’autore conferisce alle tavole originali.