Il giornalismo delle angurie
Un seguitissimo video di Buzzfeed ha riattizzato la discussione sul futuro del giornalismo, e sul suo presente
di Emanuele Menietti – @emenietti
Venerdì 8 aprile due redattori del sito BuzzFeed si sono seduti a un tavolino e hanno iniziato a disporre decine di elastici intorno a un’anguria – un esperimento di antica popolarità online – mentre altri loro colleghi riprendevano la scena, trasmettendola in streaming su Facebook. Elastico dopo elastico, l’esperimento dell’anguria è andato avanti per quasi tre quarti d’ora, poi la cucurbitacea non ha più retto alla pressione degli elastici ed è esplosa, con grande soddisfazione dei due redattori e del resto della redazione di BuzzFeed. Tra visualizzazioni in diretta e in differita, il video dell’anguria su Facebook è stato visto più di 10 milioni di volte, ha raccolto più di 36mila “Mi piace” e oltre 327mila commenti, ma ha soprattutto rilanciato l’annoso dibattito su dove stia andando il giornalismo e con cosa competa – Buzzfeed è considerato un sito di informazione, pur ibrido di contenuti più genericamente “virali” –, dibattito rilevante sia per chi produce notizie sia per chi le legge online e sugli altri media.
Il confronto sui grandi cambiamenti che i media devono affrontare è molto più longevo del caso dell’anguria, ma la diretta di BuzzFeed è finita lo stesso nel mezzo di molti articoli e analisi sul tema che sono usciti in queste settimane, ed è stata usata come esempio positivo o negativo. Il giornalista Erik Malinowski ha scritto un laconico tweet: “L’anguria… siamo noi”, suggerendo che di questo passo la mancanza di una visione chiara manderà in pezzi giornali e giornalisti, e lettori pure.
https://twitter.com/erikmal/status/718522398752935937
Molti osservatori hanno opinioni simili e si chiedono come una testata possa mantenere una propria credibilità con iniziative di questo tipo e di fronte al successo tentatore che ottengono, che sempre secondo loro non hanno nulla di giornalistico. Ed è questo il nodo intorno cui girano le analisi e gli approfondimenti di queste ultime settimane: come possono articoli lunghi e seri su temi importanti – dalle politiche economiche di un paese ai pericoli del terrorismo internazionale – avere qualche speranza di sopravvivere nella competizione sui social network con cose più frivole e facili, come due tizi che fanno saltare in aria un’anguria? Se non reggono la concorrenza, diventano rapidamente marginali e difficilmente ripagano lo sforzo della testata che li ha prodotti, che la volta dopo potrebbe decidere di ridurre i suoi investimenti di tempo e denaro nei contenuti più impegnativi. Come ha spiegato giovedì un articolo sul sito International Business Times, il bandolo di questa competizione sta nel modello di business principale dell’informazione online, quello della pubblicità e delle impressions, ovvero delle volte che le pubblicità vengono viste, a prescindere da tutto quello che le circonda.
Quando gli editori digitali vendono la pubblicità sulla base del numero di impressions, qualunque contenuto ha lo stesso valore. Una lunga inchiesta del New York Times non ha né più né meno valore di un post su un blog pieno di Vines raccolti in giro. Questo fa sì che creare contenuti di qualità e costosi diventi un progetto folle, soprattutto in un mondo in cui ogni minuto vengono prodotte 72 ore di video, 204 milioni di email e 277mila tweet.
La via di BuzzFeed
Negli ultimi cinque anni, BuzzFeed ha provato a dare una risposta alla domanda sulla sostenibilità del giornalismo: era nato come una specie di osservatorio per identificare e sfruttare i cosiddetti “contenuti virali” – cose che affiorano dal rumore di fondo del web e diventano molto condivise in breve tempo – ma nel 2011 ha affiancato alla produzione di liste di ogni tipo e foto di gattini una sezione dedicata alle notizie serie, diretta da Ben Smith, che arrivava da Politico. Con un obiettivo a metà tra lo sfruttamento del successo virale per produrre anche cose di qualità e la foglia di fico giornalistica per legittimare la frivolezza del core business. Da allora i due generi coesistono all’interno della stessa testata, che si è fatta sempre più fluida e slegata dal classico concetto di sito: molti articoli non finiscono nemmeno nella homepage, sono solo condivisi sui profili di BuzzFeed sui social network e vivono quasi esclusivamente delle condivisioni dei lettori. Altri contenuti non sono proprio pubblicati sul sito, ma direttamente su Facebook, come nel caso degli articoli istantanei e dei video dei canali tematici di BuzzFeed, come quello di cucina Tasty e quello per il fai-da-te Nifty.
I social network sono al tempo stesso la forza e il punto debole di BuzzFeed: garantiscono milioni di lettori ogni giorno, ma rendono la testata totalmente dipendente da chi li gestisce, che da un giorno all’altro può decidere di cambiare gli algoritmi che stabiliscono cosa mostrare a ogni loro iscritto, con serie conseguenze se i propri contenuti vengono penalizzati. BuzzFeed raccoglie ogni anno milioni di investimenti e si può permettere di sperimentare, ma tutto ha un costo. Il 12 aprile un articolo del Financial Times ha annunciato che BuzzFeed ha mancato gli obiettivi finanziari del 2015 e che di conseguenza ha deciso di rivedere al ribasso quelli di quest’anno. I responsabili del sito, che non rende pubblici i dati finanziari, hanno parzialmente smentito la notizia dicendo di essere soddisfatti per i risultati ottenuti e che quest’anno saranno raggiunti gli obiettivi di crescita già stabiliti.
Il grande cocomero
L’ipotesi di qualche segnale di crisi dalle parti di BuzzFeed ha fatto ben sperare i più tradizionalisti nelle redazioni, quelli che sostengono che un modello basato su liste di ogni tipo, ammiccamenti ai lettori e fotografie di animali carini con in mezzo qualche notizia seria non sia un’alternativa seria al giornalismo di qualità. Ma in un lungo articolo sul New York Times, Jim Rutenberg spiega che piaccia o no, il modello tradizionale di fare giornalismo non dà più garanzie sufficienti per la sopravvivenza delle testate:
Potremmo non essere ancora l’anguria. Ma quelli che dirigono le organizzazioni che producono notizie dicono praticamente all’unisono che anche noi dovremmo trovare una nostra anguria, e che avremmo dovuto già farlo ieri. Significa che si stanno verificando rapidamente dei cambiamenti nel modo in cui si fa giornalismo, nei contenuti e in come si prendono le decisioni sui temi di cui occuparsi.
Rutenberg scrive che attualmente i giornali si stanno muovendo in modo disordinato, come una folla presa dal panico, per cercare di rispettare gli obiettivi finanziari posti ogni trimestre dai loro editori. In molti casi, per riuscirci, fanno senza dirlo esplicitamente quello che BuzzFeed fa da anni, mettendo insieme contenuti più frivoli e che producono più visite per mantenere i ricavi e compensare il calo di interesse verso gli articoli più seri, in parte dovuto a come funzionano i social network e alla tendenza che hanno a privilegiare i primi sui secondi nelle loro timeline. La conclusione dell’articolo piuttosto allarmato di Rutenberg è che i giornalisti non dovrebbero “perdere troppi valori fondamentali nella strada che ci sta portando verso il futuro”: “Altrimenti ci aspetterà davvero un’anguria flambé all’insediamento di una Kardashian alla presidenza degli Stati Uniti e, sì, in quel caso saremo noi l’anguria”.
I gattini e il New York Times
Jack Shafer su Politico ha criticato Rutenberg ricordando che già da tempo immemore nei “valori fondamentali” di molti giornali tradizionali ci sono contenuti frivoli e leggeri di ogni tipo, che in fin dei conti non hanno messo a rischio quelli più seri e ragionati. Per sostenere la sua tesi, Shafer cita uno studio accademico realizzato da Matthew C. Ehrlich, dal titolo inequivocabile: “Prendere sul serio le notizie sugli animali: storie di gatti nel New York Times”. La ricerca dimostra come uno dei giornali più rispettati e conosciuti al mondo abbia dedicato per decenni le sue attenzioni a gatti e gattini. L’elenco di articoli proposto da Shafer è sterminato e va da un pezzo degli anni Venti sui gatti ospitati nella redazione del giornale ad articoli più recenti e molto letti, come “Che cosa pensano i gatti”, pubblicato sul giornale nel 2014.
Il Times non deve chiedere scusa a nessuno per i suoi articoli sui gatti, o per mostrare l’esplosione di un’anguria, se un giorno volesse farlo. Come hanno fatto notare diversi osservatori negli anni, di recente Michael Wolff su USA Today, il Times attuale è formato da due giornali. C’è il serioso Times con le ultime notizie sui terremoti, sulle battaglie per le finanziarie, sull’economia, su disastri di vario tipo, con la sua sezione di recensioni di libri e quella con gli editoriali. E poi c’è un Times più leggero, popolato da consigli sulla moda, confessioni di vario tipo in prima persona, articoli sul cibo, sulla casa, sul design, rompicapi, consigli per i viaggi, racconti sulle celebrità e altra fuffa, compresa una lista infinita delle fesserie più discusse online.
Shafer conclude il suo articolo ricordando che il Times è la dimostrazione che serio e frivolezze possono convivere nello stesso giornale, senza che le seconde mettano in discussione la credibilità della testata, citando cosa diceva Herbert Bayard Swope, storico direttore del New York World, alla fine degli anni Venti: “Ciò che cerco di fare col mio giornale è dare al pubblico parte di ciò che vuole e parte di ciò che dovrebbe comunque avere anche se non lo vuole”. Forse la differenza sostanziale, che Shafer non indaga, sta nel cosa si propone come contenuto prioritario e più rappresentativo del sito di news: il New York Times è per tutti un giornale di qualità e informazione accurata con dei contenuti più leggeri per i propri lettori, lettori di quotidiano. Buzzfeed è un sito di buffe e divertenti scemenze o questioni pratiche quotidiane con del giornalismo di qualità per i propri utenti, utenti di contenuti virali e liste.
Il caso di Mashable
L’impressione di altri osservatori è che Shafer abbia semplificato eccessivamente il discorso, trascurando che il problema delle notizie serie che funzionano meno online non riguarda soltanto i giornali tradizionali, ma anche testate giovanissime nate su Internet come Mashable. Il giorno prima della diretta con l’anguria, è stata annunciata l’uscita da Mashable di Jim Roberts, già giornalista del New York Times, assunto nel 2014 per occuparsi delle news di più stretta attualità all’interno della testata. Con lui hanno perso il lavoro circa 30 persone nell’ambito di una riorganizzazione del personale decisa per sfruttare meglio le risorse interne, puntando sugli ambiti in cui Mashable è più forte: Internet, tecnologia, media e soprattutto contenuti virali ed evoluzioni dei social network.
In molti hanno commentato la decisione di Mashable parlando dell’ennesimo caso di testata che abbandona i contenuti seri, che nel rapporto costi-benefici rendono meno, per concentrarsi su quelli più facili, vedendo in questo un altro chiodo sulla bara del giornalismo per come è stato inteso per decenni. Gregory Grittrich, il nuovo responsabile editoriale di Mashable, ha negato questa interpretazione, spiegando che continuerà a seguire l’attualità nel caso di grandi eventi e breaking news, sfruttando meglio le risorse interne che già si dedicano ad altri temi e coinvolgendo di più i social media editor, per rafforzare la presenza della testata sui social network. Anche in questo caso, quindi, il piano prevede di fare molto affidamento su Facebook, Google e compagnia per avere una presenza diffusa online e che superi quella classica del sito.
Gli articoli DENTRO i social network
La tendenza ad affidare ai social network buona parte dei propri contenuti dipende da come funzionano le cose su Internet da qualche tempo. Nel bene e nel male Facebook – il social network più grande di tutti con oltre 1,65 miliardi di iscritti – per moltissime persone è diventato Internet: lì sopra ci sono gli amici, le loro foto, la possibilità di scambiarsi messaggi, di mostrare in diretta video ciò che si sta facendo, di vedere le novità dei propri marchi preferiti attraverso le loro Pagine, e di leggere e vedere notizie e qualunque cosa. Come ha spiegato di recente Mark Zuckerberg, il piano è di rendere ancora più pervasivo Facebook nei prossimi anni, con l’obiettivo di fare trovare agli utenti tutto ciò di cui hanno bisogno all’interno del social network, annullando le loro esigenze di cercare altrove su Internet. Il modello sta funzionando, garantisce ricavi enormi a Facebook grazie alla pubblicità e sta spingendo i giornali ad entrare nel recinto dove sono finiti i lettori, e l’unico modo per farlo è travasare articoli e altri contenuti al suo interno, rinunciando a fare arrivare gli utenti sul proprio sito.
Emily Bell, che ha collaborato in passato con diversi giornali curandone strategie e affari, pensa che Facebook e in misura minore gli altri social network abbiano inghiottito il giornalismo, o per lo meno buona parte dei suoi contenuti, con le testate che per mantenere la loro visibilità hanno rinunciato al rapporto diretto con i lettori, cedendolo alle aziende online a partire dai “quattro cavalieri dell’Apocalisse”: Amazon, Apple, Google e Facebook. Tramite i loro servizi e applicazioni – come gli articoli istantanei su Facebook, l’equivalente AMP di Google e Apple News – hanno offerto ai giornali un nuovo modo per raggiungere un pubblico più ampio, soprattutto sui dispositivi mobili, ma al tempo stesso li hanno privati del legame diretto con i loro lettori e si sono anche messi in mezzo dal punto di vista dei ricavi: le testate mantengono le pubblicità nei loro contenuti, ma per mostrarle devono rispettare alcune regole imposte da Facebook e compagnia, che trattengono per loro una percentuale in cambio del servizio offerto.
Il rischio più grande, dicono Bell e altri osservatori, è la perdita del controllo sui propri contenuti: con gli algoritmi delle loro timeline o dei motori di ricerca, Facebook, Google e gli altri decidono cosa mostrare a ogni utente e una modifica al modo in cui funziona il sistema può determinare il successo o l’insuccesso di ogni articolo e nel complesso di un’intera testata. Se un giornale basa il suo modello di ricavi esclusivamente sulla pubblicità, dice Bell, non ci sono molte alternative a stare al gioco e fidarsi dei social network e delle app per le notizie come Apple News, anche perché sono la soluzione più pratica per arginare il fenomeno degli ad-blocker, i software per bloccare i banner pubblicitari e rendere più leggere le pagine al loro caricamento, che in molti casi non possono funzionare all’interno delle applicazioni diverse dai browser mobili.
Per differenziare il rischio, i giornali dovrebbero valutare soluzioni alternative o complementari al modello della pubblicità, per esempio offrendo contenuti a pagamento o abbonamenti a iniziative per coinvolgere i lettori e farli sentire più partecipi: conferenze, incontri con la redazione, servizi aggiuntivi e personalizzati per gli iscritti. Il Guardian ha da poco iniziato a seguire questa strada, raccogliendo molte iscrizioni, ma è ancora presto per dire se il suo modello sia proficuo. Un altro modello riguarda l’utilizzo dei cosiddetti “paywall porosi”, la limitazione del numero di articoli che possono essere letti gratuitamente al mese, oltre il quale è necessario abbonarsi alla testata. Giornali come il Times di Londra lo fanno da tempo blindando tutti i loro articoli, molti altri si sono stabilmente convertiti appunto a vie più soft, come il New York Times, il Washington Post, il Wall Street Journal (hanno un paywall che può essere aggirato in vari modi), facendo leva sul coinvolgimento dei lettori più assidui e sulla loro disponibilità a pagare qualche dollaro al mese e al tempo stesso non rinunciando ai lettori occasionali che arrivano dai social network o dalle ricerche su Google.
Le app per le news
Negli anni passati si è più volte sperato che la riduzione dell’attuale dipendenza dai social network dei giornali potesse anche passare da un nuovo tipo di siti e applicazioni come Blende, una specie di iTunes per gli articoli. Blende esiste dal 2014 ed è stata realizzata dall’olandese Alexander Klöpping: mostra articoli pubblicati su licenza da decine di diverse testate e dà la possibilità di pagare per ogni singolo articolo tramite il proprio account, senza doversi abbonare ai singoli giornali. Blende trattiene per sé un terzo dei ricavi e lascia il resto alle testate. Chi lo utilizza spende pochi centesimi per articolo e quando l’ha finito, se non è soddisfatto, può ottenere un rimborso. Il sito è molto curato e da poco è stato lanciato anche negli Stati Uniti, grazie alla partecipazione di testate come il New York Times e il Wall Street Journal: ma la speranza che potesse essere LA soluzione si è un po’ affievolita, anche di fronte alla consapevolezza che una soluzione buona per tutti – come fu il semplice sistema di vendita/abbonamenti/pubblicità per i giornali di carta – probabilmente non esisterà mai più.
Tim Adams del Guardian ha intervistato il creatore di Blende:
La “pazza idea” di Klöpping si basa su un paio di sue intuizioni. La prima è che “le piattaforme offerte dalle grande aziende tecnologiche alla fine misurano solamente il numero di occhi, e non penso che questo sia un gran parametro per valutare il giornalismo. L’altra è l’esempio dell’industria dei film e della musica. Più della metà degli iscritti a Blende hanno caratteristiche simili a quelle di Klöpping: sotto i 30, molto istruiti, la prima generazione a essere cresciuta con contenuti gratuiti. “Non ho mai pagato per la musica in vita mia prima che arrivassero iTunes e Spotify” dice Klöpping. “Di solito scaricavo tutto da Napster come facevano tutti gli altri. Lo stesso valeva per i film, ma all’improvviso tutti i miei amici si sono messi a pagare per Netflix e pagano per Spotify”. Lo fanno non tanto per motivi di coscienza, ma per il fatto che questi siti hanno creato un’esperienza d’uso gradevole. “Avere tutto su una piattaforma, più un sistema semplice di ricerca, più avere i propri amici tutti lì e vedere quello che ascoltano, senza dimenticare il fatto di avere un piccolo spazio in cui preparare le proprie playlist. Tutte queste cose insieme a quanto pare sono sufficienti per convincere le persone a spendere 10 dollari al mese”. Cosa ha funzionato per la musica, pensa Klöpping, può funzionare anche per il giornalismo.
La fine delle homepage
Soluzioni come Blende potrebbero in effetti fare recuperare un minimo di controllo sui loro contenuti ai giornali, ma confermano comunque la tendenza che vede il singolo articolo come elemento autonomo e accessibile da più parti, senza la necessità di andarlo a trovare sul sito, che quindi beneficerebbe poco dei risultati dei singoli articoli. In molti si chiedono quindi se abbia ancora senso la costruzione dei siti dei giornali a strati, con pagine tematiche tenute tra loro insieme dalle homepage, dove sono mostrate le ultime cose pubblicate ordinate secondo un criterio deciso dalla redazione. Tra motori di ricerca, social network e applicazioni, il numero di accessi alle homepage si è ridotto drasticamente e riguarda una quantità minoritaria di lettori (il Post per esempio riceve oggi dalla homepage circa il 25% del suo traffico).
Non è un caso se molti giornali negli ultimi anni si sono concentrati sul design delle pagine degli articoli, trascurando la grafica delle loro homepage. Anche in questo BuzzFeed è esemplare: ha una homepage graficamente molto scarna e che ricorda le timeline dei social network, in cui segnala solo una frazione dei contenuti che produce e che fa conoscere tramite Facebook e compagnia. L’Atlantic, che negli ultimi anni ha cercato di svecchiare il suo sito senza ottenere grandi risultati, ha pubblicato la settimana scorsa un appello, invitando i lettori a inviare suggerimenti e opinioni per rifare la sua homepage:
Vogliamo farci un’idea su come utenti diversi tra loro utilizzino la nostra homepage, per capire che cosa gli piace, che cosa gli piace meno, e che cosa vorrebbero aggiungere. Quindi inviteremo alcuni membri di questo gruppo nei nostri uffici per vedere come usano il sito, e fargli qualche domanda.
Lauren Sherman scrive che i social network e le applicazioni come Snapchat hanno “ucciso la homepage”, e fa l’esempio del sito Obsessee.com, che esiste solo sotto forma di una pagina in cui sono elencati i profili social su cui si possono seguire le sue attività. I contenuti sono pubblicati su Instagram, Facebook, Twitter, Snapchat e altri, senza che siano proposti anche sul sito, che è quindi una pagina di servizio e niente di più. Le piattaforme più usate danno il vantaggio di raggiungere molti più utenti, ormai abituati a passare la maggior parte del tempo al loro interno senza avventurarsi sul resto del Web. Gli inserzionisti, del resto, spendono sempre di più per farsi pubblicità all’interno dei social network e meno sui singoli siti, proprio perché hanno costi minori e maggiori garanzie sulla possibilità di raggiungere più persone, che vedranno quindi i loro annunci. Un altro fronte in cui Facebook e Google stanno infatti portando sconvolgimenti e frustrazioni è quello delle concessionarie pubblicitarie e della filiera relativa.
Concorrenza e notizie false
La presenza sui social network non garantisce comunque automaticamente ai giornali la possibilità di avere più lettori, molto dipende dai contenuti che propongono e dalla loro capacità di attirare l’attenzione in un ambiente estremamente competitivo. La stessa notizia, lo stesso video insolito o la stessa foto che sta generando un meme sono raccontati da centinaia di testate diverse, e chi ci arriva prima o con un titolo più accattivante può raccogliere molte più visite dei concorrenti. Il problema è che la continua ricerca di più traffico, indispensabile per tenere in ordine i conti producendo ricavi sufficienti dalla pubblicità, incide sulla qualità e sull’affidabilità dei contenuti: da una parte rende difficile la retromarcia per i giornali tradizionali che decidono di creare dei paywall e di chiedere ai lettori di pagare per contenuti che sono diventati di bassa qualità e uguali a quelli di mille altri siti (Corriere.it ha associato il lancio del suo nuovo paywall a una maggiore visibilità dei suoi editoriali e commenti firmati e originali, ma è poi rapidamente tornato a privilegiare video bizzarri e notizie a effetto), dall’altra contribuisce alla diffusione ormai quotidiana di notizie false di ogni tipo.
Kevin Rawlinson scrive sul Guardian di avere sentito diverse storie da suoi colleghi, in altre redazioni, sulle pressioni ricevute per pubblicare una storia con grandi potenzialità sui social il prima possibile, senza il necessario controllo delle fonti e della sua attendibilità:
Una persona che lavora in un giornale britannico dice che il sistema dell’informazione ora è “come il selvaggio West”. La fonte, che ha chiesto di non essere identificata per paura di ritorsioni da parte del suo datore di lavoro, dice: “Hai un caporedattore che ti respira sul collo e hai degli obiettivi da raggiungere. […] Molte delle cose raccontate online succedono online. Non c’è la necessità di uscire o andare alla porta di qualcuno. Te ne stai alla scrivania e lo fai, perché è tutto più immediato, e ti assumi un rischio nel farlo. Un caporedattore ti dirà: ‘BBC ha dato la notizia sei secondi prima di noi’”.
Visto dall’Italia, il racconto di Rawlinson sembra quasi ingenuo. E se in molti casi le notizie che si rivelano false sono relativamente innocue e non hanno grandi conseguenze, ferma restando la responsabilità di chi le ha diffuse, in altre circostanze possono avere serie conseguenze, come accadde nel dicembre del 2012 quando i media statunitensi dissero che l’autore della strage nella scuola elementare di Newtown (Connecticut) fosse Ryan Lanza, per poi scoprire solo due ore dopo che a sparare era stato il fratello Adam. Il nome e i dettagli della vita di Ryan trovati sui social network fecero il giro del mondo, con articoli pubblicati in pochi minuti e molto condivisi sui social. Qualcosa di analogo avvenne nel 2013 dopo le bombe alla maratona di Boston, quando per ore si parlò di una “pista saudita” legata agli attentati, che in realtà non esisteva, e si accusarono due persone mostrate in un’immagine che si rivelarono del tutto innocenti.
E mentre cominciano a logorarsi e dimostrarsi non risolutivi i “nuovi modelli di business” come i paywall e i servizi a pagamento, alcuni siti di news in tutto il mondo provano a tornare sull’unico ricavo garantito – quello della pubblicità – e sulle sue fragilità, cercando di far passare con gli inserzionisti un criterio che non sia più quello delle impressions (del tutto ingannevole, e dispersivo per lo stesso inserzionista: quante volte da lettori sappiamo dire quali pubblicità c’erano sulle pagine che abbiamo visitato?) ma piuttosto del tempo speso sulle pagine, indicativo di maggiore attenzione e coinvolgimento del lettore.
Certo che sull’anguria, i lettori, ci sono stati un sacco di tempo.