I magistrati italiani sono i più produttivi d’Europa?
Lo dice spesso il nuovo presidente dell'ANM Davigo, "quattro volte più dei tedeschi": ma le cose non stanno proprio così
Negli ultimi giorni si è tornati a parlare molto della giustizia in Italia, soprattutto in seguito alle controverse interviste date da Piercamillo Davigo, nuovo presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, una sorta di sindacato dei magistrati. Nella difesa della sua categoria, Davigo ha spesso ripetuto che i magistrati italiani “sono i più produttivi dei 47 stati del Consiglio d’Europa” (per la precisione: quattro volte più dei tedeschi e due volte più dei francesi). Davigo dice che la fonte di questo dato è la Commissione Europea per l’efficienza della giustizia (CEPEJ), che fa parte del Consiglio d’Europa (un’organizzazione internazionale che non c’entra nulla con l’Unione Europea). Luciano Capone, sul Foglio, ha cercato di approfondire la dichiarazione del presidente dell’ANM e ha scoperto che le cose non stanno proprio così.
Partiamo da un dato molto importante: in tutte le 545 pagine dell’ultimo rapporto CEPEJ (pubblicato nel 2014 con dati riferiti al 2012) non c’è una sola tabella che mostri la classifica della “produttività dei magistrati”. Ci sono moltissime classifiche su vari aspetti della giustizia, ma in quasi nessuna di queste l’Italia è in prima posizione: si trova quasi sempre intorno alla media o nelle posizioni più basse. Il dato a cui si riferisce Davigo, quindi, è frutto di un’elaborazione ulteriore dei dati forniti della CEPJ. Il sospetto è in parte confermato da un commento pubblicato dall’Unione delle camere penali nel 2013, poco dopo l’uscita del precedente rapporto:
[…] da una simulazione anche in estrema approssimazione, emerge come i nostri magistrati appaiano produttivi al di là quasi della sostenibilità umana. Assumendo – in modo puramente apodittico (ma la simulazione operata è volutamente ipersemplificata) – che il numero dei magistrati giudicanti dediti al penale siano un terzo del numero totale complessivo e dividendo il mero numero dei reati “seri” per il numero dei magistrati dediti al penale, ne esce un indice di produttività altissimo (774 casi chiusi all’anno per magistrato). Si tratta di un rapporto molto maggiore di quello ricavabile dalla medesima operazione effettuata per i dati di Germania (162), Francia (346), Russia (133).
L’indice di produttività di Davigo è quindi un indicatore elaborato un po’ alla buona partendo dai dati della CEPJ: si prende il numero totale dei procedimenti penali definiti in un anno, lo si divide per il numero approssimativo dei magistrati che si occupano di penale e si ottiene così il famoso “indice di produttività”. È un indicatore molto limitato: stiamo contando solo i procedimenti penali, soltanto quelli avvenuti nel primo grado e abbiamo approssimato il numero di giudici che si occupano di penale. Facendo questo conto, i risultati italiani sono effettivamente molto elevati: quattro volte più definizioni che in Germania e due volte più che in Francia.
Il problema, a questo punto, è stabilire che cosa ci dice davvero questo numero. Non ci dice, per esempio, quante ore lavorano i giudici né qual è la qualità del loro lavoro. Per assurdo, possiamo immaginare un giudice che firma tutti i procedimenti che gli passano sotto gli occhi, senza curarsi di quello che sta facendo: e sarebbe un giudice produttivissimo. Facendo i conteggi che fa Davigo, per esempio, risulta che uno dei sistemi penali più “produttivi” è quello turco, dove la magistratura è sempre meno indipendente e sulla correttezza dei suoi giudizi ci sono da anni numerosi e fondati dubbi. Facendo questi conti nel civile, il sistema più produttivo risulta quello russo, considerato uno dei peggiori del continente. L’articolo delle Camere penali, infatti, continua:
Si tratta, come si vede, di dati così estremi da indurre a dubitare della loro correttezza. Certo, si può scegliere di raffigurarsi il sistema italiano come caratterizzato da giudici fenomenali, quanto a capacità di lavoro e qualità, in grado di produrre 6 volte di più di quelli tedeschi e il doppio dei colleghi francesi, e tuttavia assediato da una moltitudine di cause, e in definitiva schiacciato da un sistema diabolico. C’è forse un’ombra di verità anche in simile ricostruzione. Ma forse, più banalmente e più attendibilmente, sul piano scientifico, occorre riconoscere che il dato sulla chiusura del caso non è sufficientemente indicativo, non spiegando che cosa si intenda con esso, vale a dire quali contenuti siano stati considerati (sentenze, decreti penali, annullamenti, etc. E, ancora, tra le sentenze, quante siano di proscioglimento per prescrizione).
La definizione di “procedimenti definiti” usata da CEPEJ, infatti, non indica soltanto i procedimenti di primo grado definiti in seguito a un dibattimento in tribunale, ma include quasi tutte le volte in cui nel corso del primo grado di giudizio un giudice si esprime su un procedimento penale. Il dato quindi risulterà più alto in un sistema in cui è richiesto che i giudici si esprimano molte volte. Per esempio, in Italia vige l’obbligatorietà dell’azione penale. Tutte le notizie di reato di cui un magistrato viene a conoscenza devono essere obbligatoriamente iscritte nell’apposito registro, ogni “notizia” genera un “procedimento penale” e quindi un’indagine. Se l’indagine non porta da nessuna parte, il pm ha bisogno di una decisione di un giudice per archiviarla e questa archiviazione viene conteggiata nel totale dei “procedimenti definiti”. In Germania, invece, l’obbligatorietà azione penale è meno restrittiva e il pm in certi casi ha la facoltà di archiviare l’indagine senza bisogno di farne richiesta a un giudice. Per via di queste e di altre potenziali differenze tra sistemi giuridici, la CEPEJ mette più volte in guardia dal fare confronti tra nazioni.
Nel suo lungo dossier la commissione ha comunque inserito un capitolo sull’efficienza dei tribunali. L’indicatore che utilizza è il “tasso di definizione”, cioè la percentuale di quanti procedimenti vengono definiti sul totale dei procedimenti sopraggiunti in un anno (il conteggio di Davigo, invece, è elaborato contando i procedimenti definiti per ogni giudice). Il senso di questo conteggio è calcolare quanto un sistema è in grado di affrontare il numero di procedimenti penali che le sue stesse regole generano; e come abbiamo visto, l’Italia è un paese che per via delle sue leggi e di altri fattori genera un elevato numero di procedimenti. In questa classifica l’Italia è messa meglio di quanto ci si potrebbe aspettare, ma è comunque lontanissima dalle cifre fornite da Davigo. Nel nostro paese ogni anno i giudici di primo grado definiscono il 108,4 per cento dei procedimenti civili, cioè più di quanti ne sopraggiungono: in questo modo stanno cominciando a intaccare l’enorme quantità di procedimenti arretrati che, sopratutto nel civile, costituiscono uno dei principali fardelli della giustizia italiana. I giudici francesi e tedeschi ne definiscono rispettivamente il 102,2 per cento e il 99,3 per cento. Le cose vanno peggio invece nel penale: in Italia si definiscono il 93,6 per cento dei procedimenti sopraggiunti in un anno, contro il 100,5 per cento di Germania e il 101,9 per cento della Francia. Per tutte le ragioni che abbiamo illustrato sopra, però, anche questo confronto andrebbe trattato con molta cautela.