Un altro sito che chiude i commenti
Il fondatore di un sito giuridico americano spiega perché ha cambiato idea sui commenti online, fino a decidere di eliminarli del tutto
di David Lat - The Washington Post
Nel febbraio del 2009 i grandi studi legali americani erano in crisi. Il mercato azionario era in caduta libera, Lehman Brothers era fallita da poco e circolavano voci su licenziamenti di molti avvocati e sullo sgretolamento degli studi. Qui ad Above the Law (“Al di sopra la legge”), il sito di notizie giuridiche che ho fondato nel 2006, io e la mia collega Elie Mystal seguivamo con attenzione questi sviluppi. Avevamo notato che nella sezione commenti del nostro sito diversi utenti continuavano a prevedere che ci sarebbero stati dei licenziamenti a Latham & Watkins, un importante studio legale internazionale. I commenti ci spinsero a investigare sulla questione, così lo raccontammo in un articolo prima che Latham & Watkins annunciasse il suo piano di licenziamenti da record. Il merito del nostro scoop, uno dei più grandi mai fatti dal nostro sito, era della nostra sezione commenti.
All’inizio di Above the Law i commenti dei lettori erano una fonte preziosa di informazioni, approfondimenti e senso dell’umorismo. Contribuivano a portare avanti la nostra missione, ovvero rendere più trasparente una professione che spesso lo è poco. I commenti sul nostro sito erano molto popolari: c’erano lettori che entravano apposta per leggerli e alcuni commentatori sono diventati delle celebrità di Internet. “Loyola 2L”, uno studente di giurisprudenza che nel 2007 contribuì a far conoscere all’opinione pubblica i rischi e i costi di frequentare la facoltà di giurisprudenza, fu nominato Avvocato dell’anno dal Wall Street Journal Law Blog. Con gli anni, però, i commenti sul nostro sito iniziarono a cambiare. Erano sempre stati taglienti, ma il rapporto tra quelli offensivi e quelli utili iniziò a pendere a favore dei primi; le informazioni da “insider” sugli studi legali e le facoltà di giurisprudenza furono rimpiazzate da battute tra gli utenti non comprensibili dall’esterno, i contributi pertinenti vennero sostituiti da osservazioni slegate dal contesto, e le basi dell’educazione (con un tocco di politicamente scorretto) si arresero di fronte ad abusi e insulti.
Una giudice della Corte Suprema americana fu definita “una lesbica stronza”. Un articolo di una donna americana di origine asiatiche sull’educazione nelle professioni legali ha avuto come risposta un «mio amole dula molto» (la battuta di una prostituta vietnamita nel film Full Metal Jacket). Alla mia collega Staci Zaretsky, che scrive molto di disuguaglianza di genere nelle professioni legali, una volta è stato scritto: «Staci, tu hai molte risorse, come quel culone bianchiccio che ti ritrovi». Per questo abbiamo deciso di eliminare la sezione commenti. La nostra decisione ha in parte dei fondamenti scientifici. Dei ricercatori hanno scoperto che quando i lettori sono esposti a commenti incivili e negativi alla fine di un articolo, si fidano meno del suo contenuto (gli scienziati lo chiamano “effetto cattiveria”). Stando a uno studio dell’Atlantic, poi, i commenti negativi che accompagnano un articolo portano i lettori a ritenere quell’articolo meno affidabile. In un panorama mediatico sempre più competitivo i siti non possono permettersi di vedere i loro contenuti e la loro immagine intaccati in questo modo.
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Bisogna anche considerare il peso che i commenti hanno sui giornalisti. Come ha spiegato la scrittrice americana Jessica Valenti, «per chi scrive leggere i commenti non ha molto senso: è come fare un turno di lavoro un più, in cui ci si sottopone volontariamente agli attacchi di persone che non si conoscono e si spera di non conoscere mai». Questo concetto si applica soprattutto alle donne e a chi fa parte di una minoranza etnica. Il Guardian ha scoperto che dei suoi dieci editorialisti che sono più spesso oggetto di abusi, otto sono donne e due sono uomini neri, mentre i dieci meno attaccati sono tutti uomini. Alcune autrici hanno lasciato il loro lavoro per via dei degli attacchi online, impoverendo così il dibattito pubblico. I cinque autori-redattori di Above the Law formano un gruppo eterogeneo. Io sono un uomo gay di origine asiatiche e lavoro, tra gli altri, con un afro-americano e due donne. Tutti noi abbiamo ricevuto regolarmente attacchi razzisti, sessisti e omofobi.
La mia collega Staci, che interagiva con i commentatori più di noi, è diventata molto più dura su questo tema dopo che uno di loro ha proposto a un altro utente di fare sesso con lei e di picchiarla, perché sembrava essere il tipo a cui poteva piacere. Anche i commenti negativi che non si basano sul genere o l’etnia possono ferire e demoralizzare, e non possono essere bollati come idiozie razziste o sessiste. Jill Filipovic, un’avvocatessa diventata poi giornalista, a proposito della sua esperienza con i commenti negativi ha detto: «Dubito molto di più di me stessa. Quando leggi molte volte che sei una persona terribile e un’idiota, poi è molto difficile non iniziare a pensare che forse gli altri riescono a vedere qualcosa che tu non vedi».
Nonostante questi problemi, la decisione di eliminare la sezione dei commenti è stata difficile, ed è arrivata solo dopo mesi di discussioni, ricerche e litigi. Non era una questione di traffico online – le nostre pagine relative ai commenti arrivavano a meno del tre per cento del totale – né di pubblicità (i nostri colleghi che si occupano di vendere annunci non hanno avuto voce sulla questione, e comunque sospetto ne siano stati felici). Non era nemmeno una questione legale, dal momento che per la legge americana gli editori non hanno responsabilità sui commenti lasciati da terzi sul loro sito. La questione è stata più filosofica. Avendo iniziato a scrivere con uno pseudonimo, capivo come i commentatori online – specialmente gli avvocati che non vogliono correre rischi e tengono alla loro reputazione – spesso abbiano bisogno dell’anonimato per prendere posizioni importanti ma controverse, diffondere informazioni sensibili, o rivelare verità impopolari.
Da giornalisti che trascorrono le loro giornate mettendo gli studi legali e le facoltà di giurisprudenza davanti alle loro responsabilità, consideravamo i commenti come un modo per far sì che i lettori potessero fare lo stesso con noi e segnalare i passaggi superficiali e illogici, gli errori di sostanza o i refusi nei nostri articoli. Alla fine, però, ci siamo resi conto che sui social network i nostri lettori discutevano dei contenuti dei nostri articoli in modo perlopiù civile e proficuo. Perciò siamo arrivati alla conclusione che non avevamo più bisogno dell’aggravio di una sezione commenti sul nostro sito. Per dirla con le parole della mia collega Elie, uno degli ultimi baluardi a favore del mantenimento della nostra sezione commenti: «Pensavo che i lettori avessero il diritto di criticarmi se investivano il loro tempo per leggere i miei pezzi, ma ora le persone mi criticano solo su Facebook».
Non siamo i soli ad aver eliminato la sezione commenti. Nel 2013 la rivista di scienza americana Popular Science ha fatto lo stesso, seguita nel 2014 da Recode, Mic, the Week e Reuters. Tra gli altri siti che hanno rimosso la sezione commenti ci sono Bloomberg e il Daily Beast. Secondo uno studio del 2014 del professore di giornalismo Arthur Santana, in quel momento il 49 per cento dei 137 maggiori giornali americani non consentivano di pubblicare commenti anonimi, mentre il 9 per cento non aveva proprio una sezione per i commenti. Dopo aver eliminato i commenti per la maggior parte delle sue storie, il traffico online e la partecipazione degli utenti della rivista americana National Journal sono aumentati. Avremmo dovuto prendere in considerazione altre soluzioni invece di eliminare del tutto i commenti?
Come altri siti di news, avevamo già ridotto la loro visibilità, nascondendoli nel layout del nostro sito e introducendo la possibilità di disattivarli per determinati articoli. Nessuna delle due mosse però è riuscita a fermare i danni causati dai commenti negativi ai nostri lettori, agli autori e all’immagine del nostro sito. Abbiamo pensato di moderare o controllare di più i commenti, facendolo noi stessi o lasciandolo fare agli utenti del sito, o ancora combinando le due cose. Come dimostrano le esperienze del Guardian e di Salon, le sezioni dei commenti possono funzionare bene se i siti e i loro direttori decidono di investire di più nella cura del loro giardino digitale, estirpando le erbacce e piantando i semi di una discussione sana. Come ha detto Tauriq Moosa, un blogger che scrive di tecnologia, se si vuole promuovere una conversazione civile e intelligente i commenti dovrebbero essere moderati in modo massiccio, oppure rimossi del tutto. Ad Above the Law, considerato lo staff ristretto, le grandi risorse necessarie per un lavoro di moderazione giusto ed efficace, e il peso che la moderazione ha per chi se ne occupa, abbiamo deciso che non ne sarebbe valsa la pena. Preferiamo dedicare il nostro tempo e le nostre energie per lavorare ai nostri articoli e interagire con i nostri lettori sui social network. Questo ha anche il vantaggio di promuovere il nostro sito: fa aumentare i nostri like su Facebook e i nostri follower su Twitter, e porta traffico sul sito dai due social. Come ha scritto Kalev Leetaru su Forbes, «spostando la discussione sui social network le società di news non solo scaricano l’onere della cura e la responsabilità legale a una parte terza, ma trasformano ogni commento in pubblicità che porta nuovi lettori all’articolo». I social network sono addirittura finiti per diventare una delle nostre fonti principali di spunti.
Anche se so che abbiamo preso la decisione giusta (me lo conferma il fatto che ora mi godo di più il mio lavoro e che vivo con meno ansia) parte di me è triste. Mi mancheranno i commenti e i commentatori, soprattutto quelli buoni. Ma non porto rancore a quelli cattivi. Nei loro confronti ho le stesse emozioni che provo per un ex fidanzato che si è sempre comportato bene: ci siamo divertiti insieme, ci siamo allontanati e avremmo dovuto separarci prima. Ma gli auguro tutto il meglio, anche se preferisco non risentirlo mai più.
© 2016 – The Washington Post