Come si calcola il PIL?
Il dato più citato quando si parla di economia è in sostanza una gigantesca addizione: ma richiede mesi e mesi di lavoro, ed è molto criticato
A metà marzo, membri del governo ed economisti hanno litigato per colpa di alcuni zero virgola. In quei giorni l’ISTAT aveva pubblicato un aggiornamento della stima di crescita del PIL nel 2015: più 0,8 per cento, invece del precedente più 0,6. Per una serie di fraintendimenti, era sembrato che questo aumento fosse una specie di piccolo favore al governo, che subito dopo la diffusione del comunicato aveva rilanciato la cifra con grande enfasi. In realtà, come hanno scritto in molti nei giorni successivi, l’ISTAT non aveva colpe: l’aggiornamento era semplicemente frutto di una revisione e di alcuni arrotondamenti. Questo piccolo episodio racconta quanto sia diventato importante il PIL, il “prodotto interno lordo”, un indicatore diventato sinonimo della ricchezza e del benessere di un’intera nazione. Ma da dove arriva e come si calcola questa grandezza?
Come si calcola il PIL
Il PIL è la misura principale che si utilizza per determinare quanto è grande l’economia di un paese. Calcolarlo, almeno sulla carta, non sembra difficile: «Sommiamo tutto ciò che viene prodotto dalla nazione, che siano beni o che siano servizi: questo è il PIL, né più né meno», spiega Manuela Ciani Scarnicci, ricercatrice presso l’università Ecampus e autrice del libro “Il PIL: un problema di valutazione“. «Con il calcolo del PIL si fa quello che ogni famiglia fa a casa propria: per conoscere quanto è ricca, somma i redditi di tutti i suoi componenti».
Il problema è che una famiglia conosce bene i redditi dei suoi singoli membri: ma come si può fare un’addizione di un famiglia composta da decine di milioni di membri? «I dati si trovano nelle dichiarazioni fiscali», spiega Scarnicci: «Da ogni reddito, infatti, deriva un’imposizione fiscale». In altre parole, si raccolgono dichiarazioni fiscali di individui e imprese, bilanci pubblici e privati. Si sommano insieme, ma badando a conteggiare soltanto i prodotti finiti. Significa che le lamiere prodotte da un’acciaieria e poi usate per fare carrozzerie di auto vengono conteggiate una volta soltanto, come parte del valore dell’automobile prodotta.
In questa grande addizione, però, non tutto è certificato e basato su numeri reali: c’è anche una parte “presunta”: «Il lavoro di stima», spiega Scarnicci, «riguarda quello che con i dati depositati presso i vari enti non può essere calcolato: il sommerso». Si tratta di attività illegali, del lavoro nero e dei fenomeni difficili da osservare, come l’autoproduzione (che può andare dal limoncello fatto in casa a una piccola impresa che, sfruttando le sue risorse interne, crea un nuovo laboratorio senza acquistarlo all’esterno).
E perché il prodotto interno lordo è “lordo”? «Perché include gli ammortamenti, cioè la perdita di valore degli impianti nel corso degli anni», continua Scarnicci: «Immaginiamo un’azienda che compra un impianto che vale 100 mila euro e che dura 10 anni. Nel corso del suo utilizzo l’impianto perderà valore e magari, dopo cinque anni, varrà cinquemila euro». Questa perdita di valore si chiama in gergo contabile “ammortamento”. Se si toglie l’usura degli impianti dal PIL si ottiene il Prodotto Interno Netto, una misurazione che in genere non viene utilizzata, in parte perché molto complicata da calcolare, ma soprattutto perché non è molto rilevante nel “fotografare” la situazione economica di un paese in un dato momento.
Come si calcola il PIL in Italia?
Il calcolo del PIL si compie sulla base di criteri internazionali, stabiliti dalle Nazioni Unite. L’ultimo manuale di calcolo del PIL è del 2008 ed è lungo 700 pagine. Aldilà delle procedure standardizzate, gli istituti di statistica nazionale calcolano il PIL seguendo alcuni propri criteri. Loes Witschge ha raccontato in un articolo su Slow Journalism che negli Stati Uniti il PIL viene elaborato da un gruppo di economisti che restano rinchiusi per giorni in una serie di uffici senza accesso a telefoni e internet. Nel Regno Unito il processo è molto meno rigido e, secondo il vicedirettore dell’istituto statistico nazionale Andrew Walton, «piuttosto divertente». Ovunque, calcolare il PIL prevede inserire milioni di dati in potenti computer che passano giorni interi a elaborarli.
In Italia, Gianpaolo Oneto, direttore della Contabilità nazionale dell’ISTAT, definisce calcolare il PIL «una grande addizione in cui non tutti i pezzetti sono conosciuti in maniera perfetta». Dal 2014, quando l’ISTAT ha adottato una nuova serie di criteri di calcolo, la parte “presunta” è diminuita molto: «Oramai si integrano tutte le informazioni che si hanno sulle imprese, che sono diventate tantissime: dai bilanci depositati a tutti i dati fiscali, contributivi e di bilancio. Si arriva così ad avere dati dettagliati impresa per impresa». Fino a pochi anni fa, invece, soltanto i dati delle imprese sopra i cento addetti erano addizionati. Per le milioni di aziende con meno di cento impiegati ci si basava su un’indagine campionaria.
A questi dati solidi e reali bisogna aggiungere la cosiddetta NOE, la “not observed economy”: l’illegale, il sommerso e l’autoproduzione che abbiamo visto prima. Un punto importante è che raccogliere milioni di bilanci di imprese è un lavoro lunghissimo e i dati necessari impiegano molto tempo a essere prodotti: «I numeri che riguardano la parte che possiamo misurare per addizione arrivano 18-20 mesi dopo la fine dell’anno. In questi giorni, per esempio, stiamo cominciando a lavorare sulla stima completa del 2014». In altre parole è necessario un anno e mezzo per fare una stima esatta, per addizione, del PIL italiano.
Ma da dove arrivano allora le stime sul PIL dell’anno precedente che vediamo di solito a marzo? E quelle trimestrali che vengono pubblicate quattro volte l’anno? «Le stime già pubblicate, per esempio quelle sul 2014 o sul 2015, sono basate su informazioni più incomplete, essenzialmente degli indicatori, delle variabili che ci permettono di comprendere come va il tutto». Si tratta per esempio degli indicatori sulla produzione industriale, sul fatturato dei servizi e sull’occupazione, che a loro volta sono frutto di dati solidi oppure di indagini campionarie. Partendo da un anno per il quale si ha una stima più completa e affidabile, si analizza come si sono mossi questi indicatori e si fa una stima di com’è andato il PIL sfruttando complicate formule matematiche. «Soltanto dopo un anno e mezzo, quando sono arrivati i dati più completi, possiamo addizionare il tutto e ottenere il risultato definitivo che, se abbiamo fatto bene il nostro lavoro, non sarà troppo diverso dalla stima precedente». Oneto dice che di solito questi valori si discostano l’uno dall’altro per alcuni decimali.
In Italia questo complesso lavoro viene eseguito dalla Contabilità nazionale, una divisione dell’ISTAT dove lavorano un centinaio di persone che si occupano anche di altre statistiche importanti, per esempio i conti della pubblica amministrazione, del deficit e della pressione fiscale. Questo gruppo impiega due o tre giorni per formulare la stima del PIL più semplice, quella trimestrale, la cosiddetta “stima flash”. La prossima stima trimestrale sarà pubblicata il 13 maggio e conterrà un singolo numero sul PIL nei primi tre mesi del 2015. I dati necessari per elaborarla finiranno di arrivare il 10 maggio e a quel punto i ricercatori dell’ISTAT avranno circa 48 ore per elaborare la stima. Dopo qualche altra settimana di lavoro, a fine maggio, sarà pubblicata una stima del trimestre più completa, con i dati divisi nei vari settori. Servono diverse settimane per fare la stima annuale che sarà pubblicata a marzo 2017, mentre la stima più completa, la grande addizione, richiede tra i tre e i quattro mesi di lavoro.
I problemi del PIL
Il PIL è stato spesso definito “il peggior indicatore a parte tutti gli altri”, parafrasando la famosa frase di Winston Churchill sulla democrazia. Fin dalla sua invenzione, negli anni Trenta, e soprattutto dalla sua diffusione dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il PIL è stato un indicatore molto controverso. Alcuni dei suoi limiti sono tecnici, altri sono politici o ideologici. Per spiegare i primi, gli statistici di solito fanno l’esempio di un anziano signore che decide di sposare la sua cuoca. Prima del matrimonio, la cuoca riceveva uno stipendio, su cui pagava regolari tasse e contributi e che quindi finiva conteggiato nella grande addizione del PIL. Dopo il matrimonio la cuoca continua a cucinare, la sua quantità di lavoro non è diminuita, ma non prende più uno stipendio e per quanto riguarda il PIL è, a tutti gli effetti, scomparsa.
Ma le critiche principali all’uso del PIL sono di un altro tipo. La più famosa e citata è probabilmente quella di Robert Kennedy, che in un discorso del 1968 disse che il PIL misurava tutto «tranne i motivi per cui siamo orgogliosi di essere americani». Kennedy sottolineava che il PIL non teneva conto di fattori importanti come salute o inquinamento, della qualità del dibattito pubblico e della produzione letteraria, dell’onestà dei politici e di moltissimi altri fattori altrettanto importanti per il benessere di ciascuno di noi. Un classico esempio che viene fatto per sostenere questa tesi è che se le famiglie spendono denaro per allarmi e porte blindate, il PIL registra questa spesa con un aumento, senza tener conto del fatto che si tratta di una spesa dettata da un aumento dell’insicurezza.
«La qualità della vita non dipende soltanto dal reddito», spiega Donato Speroni, giornalista, ex dirigente dell’ISTAT e autore del blog Numerus sul Corriere della Sera. Il movimento per trovare una forma di misurazione del benessere alternativo al PIL è cresciuto molto a partire dagli anni 2000, racconta Speroni, soprattutto grazie agli sforzi dell’OCSE, il cui ufficio statistico all’epoca era diretto da Enrico Giovannini (che poi sarebbe divenuto presidente dell’ISTAT dal 2009 al 2013). Un altro forte impulso arrivò dal lavoro della commissione voluta nel 2009 dal presidente francese Nicolas Sarkozy e diretta da tre dei più importanti economisti del mondo: il premio nobel Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi. Anni di lavoro e di ricerca hanno prodotto numerosi indici in tutto il mondo. In Italia, per esempio, l’ISTAT elabora il BES, che sta per “benessere equo e sostenibile”, un indice composto da 130 indicatori diversi. Anche gli altri indici sono composti da decine di indicatori e non sono facili da consultare – a differenza del PIL. Il problema, infatti, è che «voler misurare una cosa complessa come il benessere con un solo indicatore è come pensare di guidare una macchina dove sul cruscotto si legge soltanto la velocità», spiega Speroni.
Il dibattito sul tema è ancora oggi molto ampio, con i sostenitori degli indicatori alternativi che sottolineano le mancanze del prodotto interno lordo, mentre i sostenitori del PIL puntano il dito contro l’ampiezza e la mancanza di sinteticità dei suoi “avversari”. Di certo c’è il fatto che il PIL continua ad essere l’indicatore migliore per misurare le dimensioni di un’economia e la sua produttività. Nel futuro è probabile che il PIL sarà sempre più affiancato da altri indicatori e già oggi considerazioni sociali e ambientali sono sempre più importanti nel dibattito pubblico sullo sviluppo. Ma fino a che le dimensioni di un’economia e la sua crescita saranno tenute in considerazione dall’opinione pubblica, gli statistici continueranno a passare settimane chiusi nei loro uffici ad addizionare milioni di numeri.