Quando iniziò tutto, tra Israele e Palestina
Prima del 1947, prima della risoluzione dell'ONU: accadde nell'aprile del 1936, ottant'anni fa, con l'uccisione di due commercianti di pollame
Il 15 aprile del 1936, circa ottant’anni fa, è forse la data che si avvicina di più a una data di inizio del conflitto tra ebrei e arabi in Palestina. Erano successe molte cose prima, e ne capitarono moltissime altre dopo, ma quello che avvenne quel giorno è considerato da molti esperti e storici uno spartiacque, nonché il momento in cui gli israeliani presero consapevolezza del fatto che i problemi con gli arabi della Palestina sarebbero stati risolti solamente con la forza. Per capire cosa accadde quel giorno, bisogna fare qualche passo indietro.
Nel 1904 Israel Zangwill, uno dei più famosi scrittori ebrei del primo Novecento, pronunciò un famoso discorso a New York argomentando la necessità che il popolo ebraico, da secoli sparpagliato nei vari paesi europei, occupasse con la forza la Palestina, che gli ebrei da sempre considerano la “terra promessa” donata loro da Dio. Zangwill in particolare riteneva che fosse necessario conquistare la Palestina con la violenza, «per cacciare con la spada le tribù che la posseggono, come hanno fatto i nostri padri». Un movimento politico e culturale che sosteneva una maggiore presenza ebraica in Palestina esisteva già da decenni, e fra Ottocento e Novecento erano nate diverse comunità ebraiche in Palestina: ma all’epoca i vertici del movimento sionista erano composti perlopiù da intellettuali e filantropi della borghesia europea, e raramente aveva preso forme così violente. A causa delle sue posizioni Zangwill fu espulso dal movimento sionista, e venne riammesso solamente anni più tardi, nonostante continuasse a mantenere posizioni ugualmente radicali.
Qualche anno dopo, nel 1918, David Ben Gurion – il futuro primo premier di Israele – criticò aspramente Zangwill e le sue posizioni sostenendo in un articolo della rivista Yiddishe Kemper che espropriare gli abitanti della Palestina «non è l’obiettivo del sionismo. […] Per nessuna ragione dobbiamo ledere i diritti dei suoi abitanti. Solo gente come Zangwill può immaginare che la Terra di Israele sarà data agli ebrei assieme al diritto di espropriare gli attuali abitanti». Diciotto anni dopo, arabi ed ebrei combatterono il primo vero scontro di una guerra in corso ancora oggi: fra il 1936 e il 1939 gli abitanti arabi della Palestina si ribellarono contro il “mandato” locale del Regno Unito – una specie di protettorato – soprattutto perché secondo loro avvantaggiava troppo i nuovi immigrati ebrei. L’inizio della cosiddetta “Grande rivolta araba”, il nome che si dà alle rivolte di quei tempi, si fa risalire proprio al 15 aprile 1936.
Nel primo trentennio del Novecento, un numero sempre maggiore di ebrei compì lo aliyah – cioè in ebraico “l’ascesa”, il “ritorno” – in territorio palestinese, dove comprava terreni dai proprietari arabi, bonificava paludi e zone deserte per costruire kibbutz – cioè comunità egalitarie dove la proprietà privata era molto rara – scuole e altre istituzioni ebraiche. I più ottimisti fra i sionisti pensavano che la convivenza sarebbe stata pacifica, e che gli arabi avrebbero lentamente accettato di rimanere una minoranza in Palestina; quelli pessimisti pensavano che il flusso continuo di ebrei europei li avrebbe costretti a migrare nei paesi arabi confinanti come la Siria, la Giordania e il Libano.
Per molti ebrei arrivati in Israele, comunque, gli autoctoni di etnia araba non erano il problema principale: da quando nel 1917 l’Impero inglese, che aveva una specie di protettorato sulla Palestina, riconobbe la legittimità di istituire uno stato ebraico, gli israeliani si dedicarono soprattutto a mettere in piedi un sistema economico stabile e di ispirazione socialista – puntando moltissimo per esempio sulla coltivazione e il commercio di agrumi – e a dotarsi delle prime istituzioni statali (la nota Università ebraica di Gerusalemme fu fondata nel 1918). All’epoca circa il 90 per cento della popolazione palestinese era di etnia araba.
Negli anni successivi ci furono numerosi esempi di tolleranza, se non di convivenza pacifica, fra arabi ed ebrei. A Lidda, un’antica colonia greca poi diventata una cittadina araba situata a 20 chilometri da Tel Aviv, il medico ebreo tedesco Siegfried Lehman fondò nel 1927 un collegio per ragazzi ebrei molto rispettato dai vicini paesi arabi: Lehman forniva cure mediche agli abitanti dei villaggi arabi, i ragazzi del collegio andavano spesso in gita negli stessi villaggi e nel collegio era stata istituita una “fiera” per celebrare e studiare la cultura araba. Nel 1947, vent’anni dopo la sua fondazione, il collegio di Lehman aveva circa un migliaio di studenti, ed era uno dei più attivi della Palestina ebraica.
Nel suo recente libro La mia terra promessa, l’editorialista di Haaretz Ari Shavit ha raccontato che anche a Rehovot, il piccolo paese israeliano in cui è nato nel 1957, esistevano simili forme di convivenza pacifica fra arabi e israeliani. Scrive Shavit:
Proprio come a Rehovot, anche Zarnuga [il villaggio arabo da cui ai tempi proveniva metà della forza lavoro di Rehovot] si sta sviluppando rapidamente. […] Negli ultimi dieci anni la popolazione del villaggio è aumentata, raggiungendo le 2.400 unità; negli ultimi cinque anni anche la superficie occupata dagli aranceti è raddoppiata, e ora è pari a 2.555 dunam (un’unità di misura araba pari a un chilometro quadrato) in dieci anni i prezzi degli immobili sono decuplicati. Lavorando e trascorrendo la maggior parte del tempo a Rehovot, molti dei suoi abitanti hanno imparato tante cose. Ora sanno guidare i trattori, azionare le pompe dei pozzi e coltivare gli aranceti secondo le tecniche più recenti. Costruiscono moderne case di pietra sempre più simili a quelle di Rehovot. Nell’insediamento arabo comprano giacche di taglio occidentale, mobili, pentole e padelle prodotti in Occidente, alimenti in scatola, medicine e cibo per bambini.
Così, nell’autunno del 1935, il coltivatore di arance [israeliano] può pensare che la questione araba non sia affatto una questione. Gli arabi che lavorano per lui non sono un problema […]. Rehovot cresce, e di pari passo anche Zarnuga. Rehovot si arricchisce, e così Zarnuga. Ogni mattina, quando i braccianti del villaggio arrivano davanti al cancello dell’aranceto, sembra che tutto vada per il meglio. E ogni giorni, quando decine di ragazzini di Zarnunga arrivano a Rehovot in sella alle loro biciclette, sembra non esservi nulla di cui preoccuparsi.
Coloni israeliani pranzano assieme a dei loro vicini arabi per festeggiare la nascita di un kibbutz nell’attuale Cisgiordania, 13 febbraio 1949 (AP Photo)
In realtà fra gli anni Venti e Trenta la situazione si era fatta sempre più tesa: gli ebrei continuavano ad arrivare in Palestina a migliaia, e a comprare terreni e fondare kibbutz. La crisi economica mondiale del 1929 aveva messo in difficoltà soprattutto gli agricoltori arabi, che avevano perso il lavoro o erano stati costretti a vendere i propri terreni agli ebrei, che disponevano di ingenti risorse provenienti dall’Europa. Per reazione a tutto questo – le cattive condizioni economiche della Palestina araba e l’avanzata del progetto sionista – i nazionalisti palestinesi si organizzarono in associazioni nazionaliste e brigate para-militari, criticando l’immigrazione ebraica e il progetto sionista per volersi imporre su una terra che consideravano di loro proprietà.
Il primo grande scontro avvenne nel 1929: a fine agosto si sparse la voce che gli ebrei in Palestina avrebbero cercato di ottenere il controllo del Muro del Pianto, un luogo considerato parte dell’antichissimo tempio ebraico distrutto dai Romani. Il Muro si trova però appena sotto alla Spianata delle Moschee, la cui più importante è la moschea di al Aqsa, costruita nel luogo dove secondo l’Islam il profeta Maometto salì in cielo. A seguito delle voci, la popolazione araba attaccò diversi abitanti ebrei della Palestina: negli scontri dei giorni successivi morirono circa 130 ebrei – metà dei quali a Hebron, una città a maggioranza araba che oggi si trova in Cisgiordania e ancora oggi molto pericolosa – e quasi altrettanti arabi. Lo storico James L. Gelvin, che ha scritto un apprezzato manuale storico sul conflitto israelo-palestinese, ha descritto molto bene la situazione di quegli anni dal punto di vista degli arabi palestinesi:
Più ebrei arrivavano in Palestina, più gli agenti sionisti acquistavano terra. I prezzi dei terreni agricoli balzarono alle stelle, e non pochi proprietari terrieri [arabi] residenti in città decisero di fare il colpo gobbo vendendo le loro terre al Fondo nazionale ebraico. [Quando anche] le grandi proprietà terriere cominciarono a scarseggiare, allora gli agenti sionisti cominciarono ad acquistare piccoli appezzamenti, sia direttamente, sia rilevandoli dagli usurai. Entrarono così in contatto con un numero sempre maggiore di palestinesi che vivevano al limite della sopravvivenza. Nel 1931, gli acquisti di terra da parte dei sionisti avevano comportato l’espulsione di circa ventimila famiglie contadine dalle loro terre. Nel giro di pochi anni, la percentuale di agricoltori palestinesi senza terrà raggiungerà il 30 per cento. Inoltre, il 75-80 per cento dei proprietari disponeva di appezzamenti insufficienti per la sopravvivenza. Il sionismo, in precedenza qualcosa di decisamente astratto per molti abitanti autoctoni della Palestina, era diventato una presenza tangibile.
Nell’ottobre del 1935 la situazione peggiorò ulteriormente: alla fine dell’anno un funzionario britannico scoprì nel porto di Giaffa – un’antica città a sud di Tel Aviv – un carico di armi destinato alla comunità ebraica in Palestina, nascosti in un carico di cemento partito dal Belgio. Dopo la scoperta, un popolare predicatore e capo militare islamico di nome Izz Abd al Kader Mustafa Yusuf ad Din al Kassam invocò la jihad contro la popolazione ebraica: nonostante la popolarità di al Kassam – che faceva leva sulla povertà e il risentimento della popolazione araba – in pochi si unirono alle sue brigate, e lo stesso al Kassam morì durante uno scontro con l’esercito britannico il 20 novembre 1935.
Si arrivò così al 15 aprile 1936, quando un gruppo di uomini armati occupò la strada di Tulkarem che porta a Tel Aviv. Ai primi passanti vennero chiesti dei soldi per la causa araba. Quando arrivarono due commercianti di pollame ebrei diretti a Tel Aviv, Israel Khazan e Zvi Dannenberg, la banda armata li derubò e li uccise. I giornali arabi dell’epoca, scrive Haaretz, raccontarono che un altro uomo tedesco che si trovava lì in quel momento venne lasciato andare: e che la banda armata gli disse “vai in pace, in nome di Hitler” (la contiguità fra capi islamisti in Palestina e dittatura nazista è tuttora oggetto di studi, benché sia data praticamente per certa). Rami Khazan, bis-bis nipote 64enne di Israel Khazan, ha detto ad Haaretz: «Gli fecero un’imboscata. Fu fermato al posto di blocco, e per orgoglio – che in quel caso può anche essere considerata irresponsabilità – affrontò la banda armata e disse loro: “eccomi qui, cosa potete farmi?”. E poi gli spararono».
Dopo l’uccisione di Khazan e Dannenberg, Haaretz uscì con un editoriale molto preoccupato in cui scriveva: «in questi giorni l’atmosfera è elettrica. L’umore delle masse è stato avvelenato da una propaganda totalmente ideologica, per la quale il fine giustifica tutti i mezzi. Questa elettricità può essere scaricata in ogni momento, sia in “piccoli” atti criminali come quello di due giorni fa, sia durante atrocità di massa». Il 17 aprile, durante i funerali di Khazan, un gruppo di ebrei cercò di uccidere dei lavoratori arabi che si trovavano per strada, per rappresaglia. Nei giorni successivi la comunità civile ebraica fu bersaglio di diversi attentati, fra cui una bomba lanciata su una delle vie più affollate di Tel Aviv, e alcune uccisioni compiute da cecchini. In tutto nell’estate del 1936 furono uccisi 88 ebrei.
Nel frattempo i leader popolari palestinesi – storicamente molto divisi – erano riusciti a riunirsi in un “Alto comitato arabo”, che doveva rappresentare i loro interessi coi britannici. L’Alto comitato arabo organizzò uno sciopero generale dei lavoratori arabi, che causò diversi problemi e che alla lunga aumentò il divario fra le due comunità: i britannici e gli ebrei sostituirono i lavoratori arabi in sciopero con lavoratori ebrei, e lo scioperò si concluse senza grosse conseguenze nell’ottobre del 1936 (mentre pochi mesi dopo l’Alto comitato arabo fu dichiarato fuorilegge dai britannici e smise di funzionare).
Le violenze proseguirono anche negli anni successivi. Gelvin scrive che nell’autunno del 1937, «tra i 9000 e i 10mila combattenti arabi, palestinesi e no, s’aggiravano per le campagne, attaccando le forze britanniche e gli insediamenti sionisti, seminando il panico». Fu però il 1938 l’anno più violento di tutta la rivolta. Il 19 giugno 18 civili arabi morirono per lo scoppio di una bomba in un mercato arabo di Gerusalemme; una bomba esplose anche il 6 luglio nel mercato arabo di Haifa, uccidendo 21 arabi. Entrambi gli attentati sono stati attribuiti all’Irgun, una brigata ebraica para-militare fondata pochi anni prima che durante le rivolte compì decine di attacchi.
Nei mesi successivi la rivolta araba fu sedata dall’esercito britannico, soprattutto con la violenza: ma gli scontri convinsero la comunità ebraica del fatto che la convivenza pacifica coi palestinesi non fosse più possibile (e alla stessa conclusione giunsero anche le autorità britanniche, che per questo motivo alcuni anni più tardi proposero un piano di partizione che prevedeva la creazione di uno stato ebraico e uno arabo). Nel 1938 David Ben Gurion, come riporta Shavit nel suo libro, disse: «la mia soluzione alla questione degli arabi nello stato ebraico è il loro trasferimento negli altri paesi arabi». Il 19 settembre 1939, a rivolta ormai conclusa, fu fondato lo stato maggiore dell’Haganah, un corpo ebraico para-militare già attivo da anni e che dopo la guerra del 1948 divenne il nucleo base dell’esercito nazionale israeliano.
I soldati di un battaglione britannico sorvegliano un territorio nei pressi di Nablus, nell’odierna Cisgiordania, 2 dicembre 1936 (J. Smith/Fox Photos/Getty Images)
Nel 1948, durante quella che gli israeliani chiamano la Guerra di Indipendenza e i palestinesi la Nakbah, la “catastrofe”, una delle più discusse azioni militari dell’esercito israeliano si tenne a Lidda, la città dove aveva aperto il collegio giovanile di Lehman. Per una specie di malinteso, l’esercito israeliano – che aveva già conquistato la città con un’azione militare – ordinò di sparare indiscriminatamente su un gruppo di civili rimasti in città: ne furono uccisi fra i 150 e i 200. Il giorno successivo l’esercito israeliano ordinò agli abitanti rimasti di raccogliere i propri averi e abbandonare la città, per raggiungere i reggimenti arabi distanti alcuni chilometri. In molti – forse decine, ha scritto lo storico israeliano Benny Morris – morirono di disidratazione e fatica lungo la strada.
In un articolo scritto nel 2013 per il New Yorker, Shavit ha spiegato:
«Lidda è la scatola nera del sionismo. La verità è che il sionismo non poteva tollerare una Lidda araba. Sin dall’inizio, c’è stata una contraddizione sostanziale fra il sionismo e Lidda. Se il sionismo doveva sopravvivere, Lidda non poteva esistere. A posteriori, è tutto molto chiaro. Quando Siegfried Lehman arrivò a Lidda nel 1927, avrebbe dovuto sapere che Lidda era un ostacolo per la creazione di uno stato ebraico, e che un giorno il sionismo avrebbe dovuto sbarazzarsene. Ma Lehman non se ne accorse, e il sionismo fece finta di niente. Per decenni gli ebrei sono riusciti a nascondere a se stessi la contraddizione fra il loro movimento nazionale e Lidda. Per 45 anni il sionismo ha fatto finta di essere il collegio Ben Shemen, e di vivere in pace con Lidda. Poi, nel giro di tre giorni nell’estate del 1948, Lidda cessò di esistere.»