La democrazia ha vinto su Anders Breivik
La sentenza che ha dato ragione allo stragista norvegese in realtà non riguarda lui ma noi, scrive Giancarlo De Cataldo su Repubblica
A marzo 2015 Anders Behring Breivik – il colpevole della strage del 2011 a Oslo e sull’isola di Utøya, nella quale sono morte 77 persone – ha fatto causa alla Norvegia per “detenzione disumana” per via dello stato di isolamento in cui è tenuto e alle violazioni del suo diritto di privacy. A settembre Breivik scrisse invece una lettera ai media norvegesi lamentandosi perché il caffè della mensa era servito freddo, perché la sua cella non aveva vista e perché non c’era abbastanza burro per il pane. Il 20 aprile Breivik ha vinto la sua causa contro il governo norvegese: sarà risarcito con 331mila corone norvegesi, circa 35mila euro.
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Il 21 aprile Giancarlo De Cataldo – magistrato, scrittore e sceneggiatore, famoso soprattutto per aver scritto Romanzo Criminale – ha scritto su Repubblica che la vicenda “rinfocola l’attualissimo dibattito sul rapporto che avvince sicurezza e pena, repressione e diritti dei condannati”. De Cataldo ha scritto che è giusto che le democrazie europee perseguano “la rieducazione del condannato e il suo reinserimento sociale” e anche nell’estremo caso di Breivik – “un indifendibile nemico della democrazia” – la Norvegia ha fatto bene a considerarlo “un individuo che, qualunque fosse stato il suo passato, lamentava una condizione del suo presente”.
Anders Breivik è ufficialmente una vittima. I cinque anni di isolamento ai quali è sottoposto il massacratore nazista di 77 civili inermi ledono il suo diritto a un’equa detenzione. I giudici di Oslo hanno applicato l’articolo 3 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo, che vieta la tortura e ogni trattamento inumano o degradante. Eppure, Breivik dispone di un appartamento di trentuno metri quadrati con palestra, servizi, televisore e computer. Egli versa in una condizione detentiva che, in molti altri Paesi, sarebbe persino considerata invidiabile. Si potrebbe, dunque, sostenere che si tratta solo di una questione di misura. I giudici norvegesi sono di manica più larga, considerano illecito ciò che altrove è la norma. Così ragionando, il principio fissato dalla Cedu sarebbe salvo, e l’errore andrebbe cercato nella sua applicazione.
Ma la sensazione, nello scorrere i commenti che in queste ore si infittiscono, è che sia proprio il principio a risultare indigesto. Il fatto è che questa vicenda rinfocola l’attualissimo dibattito sul rapporto che avvince sicurezza e pena, repressione e diritti dei condannati. Con l’ulteriore precisazione che si tratta di questioni proprie degli stati democratici, e in particolare di quelli europei: dove regnano dittatori e cacicchi – e anche in qualche grande nazione fuori d’Europa – le questioni criminali si regolano con metodi assai più sbrigativi. È tipico, invece, dell’Europa democratica, il tentativo di uniformarsi a uno standard comune che interpreta in modo multiforme il rapporto fra sicurezza e pena.
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