Ma Obama e i sauditi, cosa devono dirsi?
Barack Obama è in visita a Riyadh, tra lo scetticismo della stampa e degli esperti: la storica alleanza è in crisi da molto tempo
Barack Obama è arrivato martedì in Arabia Saudita per incontrare i leader dei paesi che fanno parte del Consiglio di Cooperazione del Golfo, un’organizzazione che include tutti i paesi arabi del Golfo Persico (o Arabico, come vorrebbero chiamarlo loro) tranne l’Iraq. Del viaggio di Obama si sta parlando molto sulla stampa locale e internazionale per motivi diversi dalla sua reale importanza. Al Hayat, giornale controllato dalla monarchia saudita, ha parlato di “un incontro d’addio”, riferendosi al fatto che tra pochi mesi Obama non sarà più presidente: «Obama non sarà più né rilevante né utile ai paesi del Golfo». L’edizione europea di Politico è stata ancora più dura: «Obama sta facendo un viaggio inutile. Gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita non vedono più niente allo stesso modo».
Quando si parla dei rapporti tra Stati Uniti e Arabia Saudita, spesso non si va oltre al fatto che sono paesi alleati: e lo sono per davvero, da parecchi decenni, ma da diverso tempo le cose non vanno più così bene. È un punto importante perché l’Arabia Saudita è il principale alleato arabo degli Stati Uniti, e uno dei due più importanti degli americani in Medio Oriente (l’altro è Israele, e anche qui le cose vanno parecchio male). I problemi più grossi sono iniziati nel 2011, quando l’amministrazione Obama appoggiò gli oppositori di Hosni Mubarak, l’ex presidente dell’Egitto destituito durante la cosiddetta “primavera araba”, grande alleato dei sauditi. Di recente i guai si sono concentrati attorno all’accordo sul nucleare iraniano raggiunto tra Iran e diversi paesi occidentali e sostenuto con molti sforzi dallo stesso Obama: l’accordo è stato osteggiato dall’Arabia Saudita, che ha guardato con pericolo un avvicinamento tra americani e iraniani (nemici dal 1979, anno della rivoluzione in Iran) e che non crede che l’Iran smetterà di tentare di fabbricare armi nucleari.
Nelle ultime settimane si è aggiunto un altro motivo di scontro, che rende il viaggio di Obama ancora più complicato. Il Congresso degli Stati Uniti, a maggioranza Repubblicana, ha tentato di dare alle famiglie dei morti negli attentati dell’11 settembre 2001 la possibilità di procedere legalmente contro l’Arabia Saudita, paese dal quale provenivano 15 dei 19 terroristi che compirono gli attacchi. Obama ha minacciato di mettere il veto sull’eventuale legge, ma i tentativi del Congresso sono stati visti dai sauditi come una chiara indicazione che il governo americano non dà più valore alla sua alleanza con l’Arabia Saudita. C’è di più: nella ripresa e commentata intervista del giornalista Jeffrey Goldberg a Obama, pubblicata sull’Atlantic lo scorso marzo, Obama parlava dei cosiddetti “free riders”, “scrocconi” in italiano. “Free riders” è un termine che in economia indica quegli individui che beneficiano di risorse, beni o servizi senza pagare per riceverli. Obama si riferiva – oltre che ai suoi oppositori negli Stati Uniti – ad alcuni suoi alleati: in molti ci hanno visto un riferimento anche all’Arabia Saudita. O almeno così sembrano averlo visto i sauditi.
La tesi prevalente sul viaggio di Obama a Riyadh è che sarà piuttosto inutile. Ray Takeyh, esperto di politica estera del Council on Foreign Relations, ha scritto su Politico che la visita di Obama «potrebbe essere la sua ultima – e probabilmente la più futile – da presidente». Takeyh sostiene che oggi i due paesi non condividono più niente di quello che succede in Medio Oriente, dal futuro della Siria al ruolo dell’Iran: «In questi giorni, quando gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita guardano alla regione, vedono due contesti completamente diversi e hanno interessi conflittuali». I sauditi pensano che gli americani dovrebbero intervenire, anche militarmente se è il caso, per allontanare dal potere il presidente siriano Bashar al Assad e per riabilitare gli stati falliti. L’amministrazione Obama si è data invece obiettivi molto più limitati: combattere il terrorismo basandosi principalmente sui droni e indebolire lo Stato islamico.
Carol E. Lee e Margherita Stancati hanno usato sul Wall Street Journal parole ancora più dure: «Nella regione, gli Stati Uniti sono visti come un elemento che ha contribuito ad accelerare la frizione tra Riyadh e Teheran, frizione che sta alimentando un nuovo periodo di instabilità regionale». Un esempio è quello che è successo dopo la rimozione delle sanzioni internazionali all’Iran, successiva all’accordo sul nucleare: la rimozione delle sanzioni ha permesso al settore petrolifero iraniano di espandere la sua produzione, vista la possibilità di riprendere a esportare il greggio. In questo modo l’Iran è entrato in diretta competizione con l’Arabia Saudita, un altro importante produttore ed esportatore mondiale di petrolio.
Un altro esempio è quello sta accadendo in Yemen, dove da oltre un anno combattono due schieramenti: uno che include i ribelli Houthi appoggiati dall’Iran e alleati con le forze fedeli all’ex presidente yemenita Ali Abdullah Saleh; l’altro formato dall’Arabia Saudita e dagli altri paesi arabi del Golfo, che sostengono le forze legate al presidente yemenita Abdel Rabbo Monsour Hadi. Gli Stati Uniti appoggiano i sauditi, più per doveri di alleanza che per reale interesse nazionale: per esempio hanno venduto loro moltissime armi (lo facevano già prima, ma con Obama i trasferimenti di armi sono aumentati) e hanno fornito supporto alla coalizione saudita con 50-60 militari americani, scrive Reuters. Le armi americane sono usate dall’Arabia Saudita per bombardare le città yemenite sotto il controllo dei ribelli Houthi: tra queste ci sono le bombe a grappolo, un tipo di armi vietato da un trattato internazionale che però non è stato firmato né dagli Stati Uniti né dall’Arabia Saudita. L’uso di queste armi – soprattutto quelle che colpiscono indiscriminatamente – ha aumentato la violenza della guerra: una volta vendute, gli Stati Uniti non sono più in grado di gestire la frequenza e le modalità con cui vengono usate.
William Hartung ha scritto in un articolo sul New York Times che l’appoggio americano all’azione militare saudita in Yemen non pone solamente questioni di tipo umanitario. Hartung sostiene che sia stato proprio un errore dal punto di vista strategico: per esempio ha lasciato spazio all’avanzata di al Qaida nella Penisola Arabica, il gruppo che tra le altre cose ha rivendicato l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo a Parigi del 7 gennaio 2015. In altre parole, per non perdere un alleato importante come l’Arabia Saudita, l’amministrazione americana ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte. Ha continuato ad armare i sauditi nel loro sforzo di controbilanciare l’influenza dell’Iran nella regione del Golfo, tenendoseli stretti; e dall’altra parte ha concluso le trattative relative all’accordo sul nucleare iraniano, per spingere il regime iraniano a politiche meno aggressive. Ma così facendo ha fatto temere ai sauditi che la loro alleanza con gli Stati Uniti fosse passata in secondo piano, alimentando ancora di più i loro sforzi nello scontro con l’Iran.
Obama rimarrà presidente ancora per circa nove mesi, e una delle cose che più saranno ricordate dei suoi otto anni di mandato sarà il tentativo di disimpegnare gli Stati Uniti dal Medio Oriente. Michael Singh, direttore del Washington Institute for Near East Policy, ha detto al Wall Street Journal: «La regione è diventata sempre più caotica e il presidente Obama lascerà al suo successore una proliferazione di crisi in Medio Oriente e nessuna chiara politica per barcamenarcisi». A oggi sembra improbabile che Obama riesca a raggiungere qualche obiettivo durante il suo viaggio – l’ultimo quasi certamente – in Arabia Saudita. Anche perché, per l’appunto, i leader dei due paesi hanno molto poco da dirsi.