Come sono nati i “paradisi fiscali”?
Sono stati la conseguenza di uno scandalo simile a quello dei Panama Papers negli anni Trenta, nel paese a cui probabilmente state pensando
di Stephen Mihm – Bloomberg
Anche se le informazioni sui conti off shore contenute nei Panama Papers hanno fatto molto scalpore, probabilmente non segneranno la fine dei “paradisi fiscali” tanto cari ai più ricchi e potenti del mondo. Le rivelazioni, piuttosto, servono a ricordarci come questi posti esistano da ormai quasi un secolo e si siano dimostrati molto solidi, nonostante ciclicamente suscitino indignazione nell’opinione pubblica e facciano invocare riforme fiscali. Anzi, potrebbe essere stato proprio uno scandalo simile negli anni Trenta a dare origine a quei “paradisi fiscali” che oggi sono sotto esame (anche se altre ricostruzioni fanno coincidere la loro nascita già alla fine dell’Ottocento negli stati americani del Delaware e del New Jersey, ndt).
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La Svizzera è diventata, a ragione, sinonimo dell’occultamento di denaro: da tempo cerca di attrarre capitali stranieri verso il suo sistema bancario offrendo riservatezza, un regime fiscale favorevole e strutture societarie creative. L’inizio di questo fenomeno è precedente alla Prima guerra mondiale, quando il Canton Zugo modificò le proprie leggi per agevolare la creazione di società e holding sul proprio territorio per i cittadini stranieri. Fu quindi il Canton Zugo, che oggi si stima ospiti circa 29mila società di questo tipo, a dare inizio alla tradizione della ricerca di capitali stranieri. Il cantone ha fatto parlare di sé nel 2001, quando l’allora presidente statunitense Bill Clinton concesse la grazia a Marc Rich, un cittadino americano condannato per evasione fiscale che si era rifugiato proprio a Zugo. Anche i banchieri e gli avvocati di Zurigo – e, in misura minore, Basilea – contribuirono alla gestione di queste società e dei soldi che facevano arrivare nelle loro regioni. Negli anni Venti la Svizzera era diventata la meta di riferimento per i soldi che dovevano sfuggire agli occhi attenti delle autorità nei vari governi. Questa tendenza ha creato un clima di risentimento verso i banchieri svizzeri, acutizzato dal loro fermo rifiuto a cooperare con qualsiasi paese intenzionato a rintracciare gli evasori. Lo stesso governo svizzero decise di abbracciare questo approccio ostruzionista: in un verbale del Consiglio Federale (l’organo equivalente al Governo in Svizzera) del 1924 si legge che la Commissione dell’Associazione Svizzera dei Banchieri aveva deciso di respingere «qualsiasi misura per combattere l’evasione».
Fino ad allora il segreto bancario in Svizzera rappresentava una consuetudine, ma non era stabilito per legge. Le cose cambiarono nel 1934, quando la Svizzera rese il segreto bancario una politica nazionale. Secondo la narrazione classica che viene fatta di questa evoluzione, la decisione fu una risposta all’ascesa al potere dei nazisti in Germania nel 1933: il segreto bancario sarebbe stato quindi un gesto umanitario finalizzato a tutelare i patrimoni degli ebrei dal governo nazista.
Questa ricostruzione, però, è totalmente inventata. Come ha dimostrato lo storico Sébastien Guex, il segreto bancario in Svizzera è stato soprattutto una reazione a uno scandalo poco conosciuto, che ha diverse analogie con i Panama Papers. La storia inizia nel 1932, quando il governo francese faticava a raggiungere il pareggio di bilancio, in un periodo in cui il paese era in grosse difficoltà per la Grande Depressione. La coalizione di sinistra allora al governo, consapevole del fatto che molti dei cittadini francesi più ricchi evadevano il fisco spostando i loro soldi in Svizzera, decise di avviare un’indagine. Il 26 ottobre le autorità locali entrarono senza preavviso negli uffici parigini della Banca Commerciale di Basilea e sequestrarono i registri con i nomi dei 2.000 cittadini dell’alta società francese che si erano rivolti alle banche svizzere per occultare al fisco i loro patrimoni. I conti di ricchi imprenditori, come i fratelli Peugeot, e di importanti politici divennero di dominio pubblico. Il segreto era stato rivelato, e spinse anche molte delle persone che non erano state identificate a ritirare i loro soldi dalla Svizzera.
Il governo francese cercò di costringere la Svizzera a consegnare altre informazioni, arrivando ad arrestare alcuni funzionari legati alla Banca Commerciale di Basilea. Per la Francia non era una questione di secondo piano: stando alle stime di Guex, il governo francese aveva perso oltre 2 miliardi di franchi in gettito fiscale per colpa dell’evasione. Le autorità francesi, perciò, continuarono a prendere di mira le banche svizzere.
La Svizzera però non rimase a guardare. Un funzionario del governo scrisse che «non sarebbe assolutamente nel nostro interesse garantire alle autorità francesi una cooperazione giudiziaria che potrebbe avere conseguenze estremamente negative sulle importanti attività che le nostre banche svolgono grazie a depositi stranieri». In realtà le banche svizzere stavano già affrontando grossi problemi, e non solo per colpa dei depositi poco trasparenti. La Grande Depressione aveva messo in ginocchio il sistema finanziario, spingendo molti svizzeri a chiedere maggiore controllo, come accadde nello stesso periodo in diversi altri paesi. Un controllo maggiore, tuttavia, comportava grandi rischi: le autorità federali averebbero avuto accesso a informazioni sugli intestatari dei depositi, che sarebbero poi potuti diventare pubblici, allontanando ulteriormente i cittadini stranieri disposti a depositare i loro soldi in conti segreti.
Le due parti quindi raggiunsero un accordo. Le banche svizzere furono sottoposte a maggiore controllo da parte dello stato nei termini previsti dalla legge bancaria del 1934, il cui articolo 34 però rese la divulgazione dell’identità dei clienti delle banche a governi stranieri un reato passibile di reclusione e pesanti sanzioni. La legge, che impose il “silenzio assoluto” a tutti i custodi di denaro svizzeri, funzionò. I fondi stranieri ricominciarono a confluire verso la Svizzera e il suo sistema bancario e, nel frattempo, gli svizzeri avevano creato un modello che altri paesi avrebbero potuto emulare nel caso avessero voluto attrarre capitali stranieri. Così nacquero i “paradisi fiscali” off shore. Nel secondo dopoguerra, diversi paesi adottarono il modello svizzero: il Libano, le Bahamas, l’Uruguay, il Lichtenstein e, ovviamente, Panama.
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