Sarà Trump o Cruz, con buona pace del Partito Repubblicano
Un analista del Washington Post suggerisce che sia inutile fantasticare su alternative moderate dell'ultimo minuto
di Chris Cillizza − The Washington Post
La classe dirigente del Partito Repubblicano americano fatica a contenere il suo entusiasmo dopo gli eventi dell’ultima settimana.
Il direttore per la campagna elettorale di Donald Trump, Corey Lewandowski, è stato accusato formalmente di “battery” (un reato che non ha un immediato omologo italiano ma che sostanzialmente indica un contatto fisico indesiderato e minaccioso) dopo aver strattonato una giornalista durante un comizio in Florida e aver negato di averlo fatto. Per le 48 ore successive Trump si è speso in difesa di Lewandowski sostenendo ancora che la giornalista si fosse inventata tutto. A questo brutto scivolone Trump ne ha fatto seguire un altro, dicendo al giornalista di MSNBC Chris Matthews che se negli Stati Uniti l’aborto dovesse mai essere vietato, allora le donne che hanno abortito dovrebbero essere punite; poi ha passato le 72 ore seguenti cercando di svincolarsi dall’errore con una serie di dichiarazioni confuse. In mezzo a tutti i problemi di Trump, per l’establishment Repubblicano è arrivata poi una notizia ancora migliore: Trump ha perso le primarie in Wisconsin.
Per il movimento anti-Trump, quella passata è stata una settimana d’oro. A beneficiarne però è stato Ted Cruz, l’uomo che aveva iniziato la sua campagna elettorale come il candidato contro cui la classe dirigente del Partito Repubblicano avrebbe fatto di tutto pur di impedirne la nomination. Non solo: il partito potrebbe ritrovarsi un candidato che persino il Repubblicano più irriducibile non crederebbe in grado di ottenere i voti che mancarono a Mitt Romney nel 2012, quando perse le elezioni presidenziali. Alla domanda su quale sarebbe il miglior scenario possibile per il Partito Repubblicano dopo la convention di Cleveland, che a metà luglio eleggerà il candidato Repubblicano alla presidenza, l’esperto stratega Repubblicano Mike Murphy ha detto che vorrebbe «un candidato diverso da Trump o Cruz», aggiungendo però che «non vede possibilità perché questo succeda».
Quando si parla di Trump, Cruz e della convention, Murphy fa parte di quella che io chiamo l’ala realista del Partito Repubblicano. Questa corrente riconosce il fatto che il miglior-scenario-possibile è in realtà uno scenario negativo, cioè la nomina di un candidato molto estremista e conservatore come Cruz, che inizierebbe la campagna elettorale in una posizione di netto svantaggio rispetto a Hillary Clinton. Per Murphy e i Repubblicani che la pensano come lui, l’unica speranza realistica per il Partito Repubblicano nel 2016 è mantenere la maggioranza alla Camera e al Senato: cosa che sarebbe possibile con Cruz, ma non con Trump.
Al momento, però, Murphy e l’ala realista non sono la corrente dominante nell’establishment del Partito Repubblicano: ad andare per la maggiore è la posizione di quella che chiamo l’ala del realismo magico. Queste persone sono convinte che anche se Trump e Cruz dovessero risultare rispettivamente al primo e al secondo posto come numero di delegati – e quindi come numero di voti tra gli elettori – alla convention di Cleveland spunterebbe come per magia un’alternativa più eleggibile, moderata e vicina alla classe dirigente, in grado di salvare il partito da sé stesso. I nomi che circolano nella corrente del realismo magico − John Kasich, Mitt Romney e Paul Ryan − almeno sulla carta sarebbero candidati più forti di Trump e Cruz alle presidenziali. Sempre sulla carta, però, lo sarebbero anche Jeb Bush, Marco Rubio e Chris Christie, candidati che hanno finito per essere sostenuti più dai finanziatori e dall’establishment del partito che dagli elettori. L’idea secondo cui i delegati della convention Repubblicana − persone che in linea di massima sono piuttosto conservatrici e vengono descritte a ragione come la base del partito − volterebbero le spalle ai due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti è decisamente poco plausibile, alla luce di quanto sappiamo al momento dello stato del Partito Repubblicano.
Peter Hart, che da molti anni si occupa di sondaggi per il partito Democratico, ha organizzato di recente un gruppo di discussione a St. Louis, in Missouri, a cui hanno partecipato anche degli elettori Repubblicani, con l’obiettivo di capire il fenomeno Trump e la sua tenuta. Uno dei messaggi emersi dalla discussione è che l’eventualità di una cosiddetta “brokered convention” – cioè una convention senza un candidato con la maggioranza assoluta dei delegati – «avrebbe probabilmente delle ripercussioni negative» sul partito.
La “brokered convention” − chiamata anche “open convention” o “contested convention” − semplificando molto potrebbe portare anche una persona che non ha partecipato alla primarie a vincere la nomination. «Gli elettori Repubblicani e gli indipendenti vicino ai Repubblicani sono ancora disposti a sostenere chiunque riceva il maggior numero di voti», ha concluso Hart in una nota sui risultati del gruppo di discussione, «se quella persona fosse Trump e non dovesse ottenere la nomination a causa di una “brokered convention”, gli elettori dicono che reagirebbero in modo duro e ostile: e il discorso non vale solo per gli elettori di Trump, ma anche per molti sostenitori di Cruz». In un’elezione che è stata fortemente caratterizzata dall’antipatia e dalla sfiducia della base Repubblicana verso i dirigenti del partito, non sarebbe realistico pensare che la stessa base decida di arrendersi a sostenere un candidato appoggiato dalla classe dirigente, che per di più potrebbe non aver partecipato alle primarie e non essersi sottoposto al giudizio degli elettori. Il realismo magico in politica è una cosa pericolosa: è abbastanza plausibile per essere accettato, ma non abbastanza per essere realizzabile.
© 2016 − The Washington Post