Com’è il romanzo di Elliot Ackerman
Qualche pagina di "Prima che torni la pioggia", una storia di formazione ambientata durante la guerra in Afghanistan
Prima che torni la pioggia è il primo romanzo di Elliot Ackerman, un capitano dei marines in congedo. Ackerman ha combattuto in Afghanistan – guerra che racconta nel suo romanzo – e in Iraq ricevendo decorazioni, e nel 2005 ha guidato un contingente di 75 uomini durante i soccorsi per l’uragano Katrina. Ackerman è nato a New York nel 1980, ma a 9 anni la famiglia si è trasferita a Londra, per poi ristabilirsi a Washington nel 1995. Dopo la carriera militare, Ackerman è stato per un anno un White House Fellow, una specie di stagista a tempo pieno pagato della Casa Bianca. Ackerman – che oggi vive a Istanbul e scrive per New Yorker, Atlantic, New Republic e Daily Beast – viene da una famiglia di idee liberali e pacifiste: il padre Peter è il fondatore dell’associazione International Center on Nonviolent Conflict; la madre Joanne Leedom, scrittrice e giornalista, è impegnata nel Pen International, un’organizzazione fondata a Londra nel 1921 che aiuta scrittori perseguitati nel mondo. Elliott Ackerman ha anche un fratello matematico, Natan, che ha fatto parte della nazionale britannica di lotta greco romana, partecipando alle Olimpiadi del 2004 e a vari campionati mondiali.
Prima che torni la pioggia è uscito nel 2015 per Scribner. Il titolo originale è Green on blue, dove blue sono i soldati americani e green è il codice per “fuoco amico”. Ha ricevuto ottime critiche, tra cui quelle di Khaled Hosseini, autore di Il cacciatore di aquiloni, e di Azar Nafisi, la scrittrice di Leggere Lolita a Teheran.
Prima che torni la pioggia è un romanzo di formazione che racconta la storia di due fratelli afghani, Aziz e Ali, costretti dalla guerra a lasciare casa e a chiedere l’elemosina. Quando il maggiore, Ali, viene ferito da una bomba dei talebani in un mercato di Orgun, il minore Aziz entra in contatto con una milizia di guerriglieri afghani finanziata dagli Usa. Si convince a combattere con loro per vendicare il fratello. La sua è la scelta di un traditore, anche se a volte nelle guerre – e in particolare in Afghanistan – è impossibile capire quali siano le parti in conflitto, perché si combatta, se per il nang (l’onore) e per la badal (la vendetta), o soltanto perché la guerra diventa un modo di essere. Come dice uno dei personaggi verso la fine: «La guerra è una madre per gli uomini come noi. È una madre la cui generosità ha dato a te la badal e darà a me l’avamposto».
Le pagine che pubblichiamo descrivono la prima missione dell’unità di Aziz, condotta dal comandante Sabir a Gomal, un villaggio sulle montagne, per convincere i suoi abitanti a ospitare un avamposto della milizia. Durante la visita nella casa del villaggio, Aziz conosce Fareeda, una ragazza bellissima che ha un braccio deforme.
***
L’incontro con Fareeda
L’ultima casa a cui facemmo visita era al limitare del villaggio, tra le prime basse alture di confine. Non aveva camino, il muro perimetrale era di cemento, non di fango, e sul tetto spuntava una parabola. Mortaza pestò sul portone di ferro rosso con il tacco dello scarpone. Si sentì qualcosa sbattere e un istante dopo il portone si aprì. Ci accolseì un uomo dalla carnagione olivastra. Era Atal, uno spingari importante che avrei imparato a conoscere bene. I suoi abiti erano pulitissimi e si era messo tanto di quel profumo che inalarlo mi diede un istante di ebbrezza. Ci tese la mano come se avessimo dovuto baciargliela.
«Salam, posso aiutarvi?» chiese.
Aveva un turbante arancione brillante e uno shalwar kameez verde smeraldo, intonato con i suoi occhi, punteggiati di pagliuzze gialle. Sotto la barba lunga due pugni, da una catena di argento intrecciato pendeva un opale a forma di lacrima. Era un gioiello da donna. Al suo collo, la traccia femminile suggeriva una ferocia astuta e virile.
«Salam. Siamo qui con…» iniziai.
Atal mi interruppe: «Scusate, sto venendo meno ai miei doveri di ospitalità. Prego, entrate, sarete affamati. Fatemi compagnia».
Mentre entravamo, ci strinse la mano. Il contatto mi lasciò il palmo oleoso e morbido. Varcato l’ingresso esterno, ci incamminammo verso l’abitazione. Parcheggiata in cortile c’era una Toyota Hilux, lo stesso modello che gli americani fornivano a noi. Ma a differenza delle nostre, che erano dipinte di grigio per mimetizzarsi tra le rocce, la sua aveva colori civili: bianca con un vistoso fulmine argentato sulla fiancata. Nell’angolo più lontano del cortile ronzava un generatore, da cui partiva un groviglio di fili collegati alla casa. In salotto una stufa soffiava aria calda, i tappeti coprivano pavimenti piastrellati e lungo le pareti erano disposti divani lussuosi. Nell’angolo, a terra, c’era un enorme televisore Hitachi. Si sentivano i mormorii in urdu dei programmi pakistani che passavano sullo schermo al plasma.
«Prego, accomodatevi», disse Atal.
Mi slacciai gli stivali infangati per non sporcare i tappeti. Atal mi lanciò un’occhiata di ringraziamento, Mortaza invece mi guardò male. Allora li riallacciai. I soldati non si accomodano in salotto a piedi scalzi. Ci sedemmo di fronte ad Atal, che si distese con eleganza su uno dei divani. Rigirando tra pollice e indice l’opale che aveva al collo, si puntellò sui gomiti e si sporse verso il retro della casa.
«Fareeda! Porta la colazione. Abbiamo ospiti», gridò .
Dalla cucina sul retro provenivano rumori di stoviglie e passi strascicati. Atal girò pigramente la testa verso di noi. La sua espressione era talmente rilassata che un sorriso non avrebbe trasmesso più calore. «Chiedo scusa. Mia nipote avrebbe preparato qualcosa in anticipo, se avessi saputo della vostra visita, ma mi fa molto piacere avervi ospiti. Siete venuti con Sabir? Spero che stia bene. Portategli i miei migliori omaggi.»
Mortaza annuì. Era seduto sul bordo del divano, chino in avanti, teso, i gomiti puntati sulle ginocchia.
«Il comandante Sabir ha convocato una shura al bazar», gli disse. «È richiesto che partecipi il capo di ogni famiglia.»
«Ah, certo. Riferitegli che mi scuso, ma oggi ho altre faccende da sbrigare.»
Mortaza si protese ancora di più e ripeté: «Il comandante Sabir richiede che partecipi il capo di ogni famiglia».
Dalla cucina uscì una ragazza, abbastanza giovane da girare ancora per casa senza il burka in presenza di estranei. Portava con fatica un pesante vassoio d’argento carico di bicchieri di tè al latte e dolci al miele. Lo reggeva in alto, sopra la testa, usando solo il braccio sinistro. Appoggiò il primo bicchiere davanti ad Atal, che schioccò le labbra e agitò la mano per farle capire che noi, i suoi ospiti, dovevamo essere serviti per primi. Lei annuì e gli rivolse uno sguardo gentile. Aveva l’hijab allentato, non se l’era ancora fissato bene, e i capelli, neri e lisci, uscivano da sotto il bordo come una patina di petrolio. I suoi occhi, di colori diversi, non catturavano mai la luce nello stesso modo. Pagliuzze verde smeraldo e nere, e un rosso profondo, deciso, che faceva girare orbite nel suo sguardo. Potrei dirvi che l’unione di tutti quei colori dava il marrone, ed era così, ma nei suoi occhi il marrone rifrangeva mille sfumature, come una manciata di pietre rare. Si inginocchiò e distribuì, uno per uno, i bicchieri pieni di tè al latte, di una sfumatura terrosa simile all’argilla. Dispose piccole paste rotonde sui piattini. I suoi movimenti erano rapidi, tutti compiuti con la mano sinistra. Sulla spalla portava drappeggiato uno scialle azzurro brillante, sotto il quale penzolava inerte il braccio destro. Prese il vassoio e se lo infilò sotto il braccio sinistro. Mentre lo faceva, le vidi la mano destra. Era grottesca, con pollice e indice talmente congestionati da sembrare sul punto di esplodere, le unghie gialle e friabili. Sul dorso della mano correva un intrico di vene blu, come le radici di un albero malato che escono dalla terra. Il suo profumo dolce aleggiava attorno a noi e, nonostante la deformità, era una ragazza adorabile. La sua bellezza stava nelle feroci contraddizioni del suo corpo.
«Grazie, Fareeda», disse Atal. Le prese la mano buona e la baciò.
«Se hai bisogno di me, sai dove trovarmi, zio.»
Mentre parlava, il suo sorriso era solo per lui. Poi si voltò verso di noi. Atal si alzò a sedere e si chinò sopra il suo tè. Agguantò una pasta e agganciò il nostro sguardo. Non ci avrebbe permesso di rubarle nulla con le nostre occhiate. Lei uscì.
Mangiammo e bevemmo in silenzio. Poi Mortaza parlò di nuovo. «Il comandante Sabir ha bisogno di vedere tutti gli spingari. Temo che dovrai rimandare le altre faccende.»
«Sabir può decidere che vuole avere a che fare con me, ma io sono libero di decidere che non voglio avere niente a che fare con lui.»
«Ci sono voluti due giorni per arrivare qui e ne abbiamo passate parecchie», disse Mortaza.
«Mi dispiace che Sabir vi abbia fatto fare un viaggio di due giorni, ma per me non cambia le cose.»
«I nostri sforzi non significano niente per te?»
«Basta così», lo interruppi.
Atal mi lanciò un’occhiata, poi guardò Mortaza dritto in faccia. «So perché Sabir è venuto. E lui sa come la penso sulla questione che affronterà durante la shura. Portategli i miei saluti. Immagino che a breve lo vedrò di persona.»
Mortaza distolse lo sguardo e, con un cenno del capo, cedette.
Atal sorrise e continuò: «Ora, come vi ho detto, ho delle faccende da sbrigare e devo chiedervi di andarvene. Ma siete liberi di finire la colazione».
Si alzò, fece un leggero inchino e uscì.
Io e Mortaza mangiammo ancora qualche boccone. Quando uscimmo in cortile, la Hilux di Atal era sparita. Dal retro dell’abitazione vidi salire piccole nuvolette di fumo. «Secondo te, cos’è?» chiesi, guardandole.
«Non ci riguarda», rispose Mortaza. «Aspetta.» «Vieni, la shura sta per cominciare!» «Vai avanti», gli gridai. «Arrivo subito.» Lui se ne andò e io cercai di scoprire da dove veniva il fumo. Prima guardai il generatore, ma ronzava senza interruzione. Poi vidi Fareeda. Era sdraiata su un materassino rosso fuori dalla porta sul retro e aveva la testa appoggiata a un paio di cuscini di feltro. Si girò sul fianco, verso una lampada, e passò il fornello di una pipa sulla fiamma. Mentre espirava, mi guardò e il suo viso si perse in una nuvola di fumo.
«Keana», disse, invitandomi a restare. Quando mi sedetti accanto a lei, la sua testa sobbalzò. Il braccio era disteso sul materasso. Inalando altro fumo, si massaggiò la carne nodosa. Le sue dita forti premevano con tale energia da far sbiancare le nocche. Teneva gli occhi chiusi. I miei erano fissi su di lei, paralizzati. Ribollivo di eccitazione. Pensai alle sigarette di mia madre nascoste nella culla, a come mi sentivo quando, di notte, vedevo che le prendeva. Fareeda aprì gli occhi e vide che le guardavo il braccio. Non si curò di nasconderlo.
«La pipa è per il dolore», disse.
«Devi fumarla spesso?»
«Quando ho la medicina, molto poco.»
«Adesso ce l’hai?»
«No, ma presto mio zio me ne procurerà ancora.» «È l’unico parente che hai?»
«Non ho parenti. Lui è il mio tutore e, prima che
fosse ucciso, era amico di mio padre. Dunque è mio zio.»
Distolse gli occhi da me e cominciò a manipolare una palla nera di oppio. La infilò su un ago e la fece asciugare sulla lampada. Sfrigolò appena. La grattò via dall’ago in modo che cadesse dentro la pipa, posata accanto ai suoi cuscini. Tirò su la manica fino alla spalla e vidi la pelle. Chiuse gli occhi e affondò le dita nella carne che sporgeva come un frutto deforme.
«Tutti hanno molta paura di voi», disse.
Annuiva, con gli occhi chiusi.
«E perché dovresti avere paura di me?» le chiesi. Formulò le parole con lentezza: «Sono loro che hanno paura, non io».
Aprì gli occhi. Ripassò la pipa sulla fiamma. Il fumo le usciva dai polmoni, denso e dolce. Ne sentivo il sapore.
«Perché tu non hai paura di me?» chiesi.
Lei si guardò il braccio e disse: «Io sento solo il dolore qui».
«Sei sempre stata così?»
Non mi rispose, ma rimise la pipa sulla fiamma e inspirò la pece sfrigolante all’interno. Espirando, disse cose che davano forma al fumo: «Non sempre. Dicono che una volta la mia carne non lottava contro se stessa. Dicono che la medicina giusta potrebbe guarirmi. Ma di quello ho pochi ricordi. Per me è sempre stato così e credo che lo sarà per sempre».
I suoi occhi si posarono sui miei e il rosso, il verde e il nero gelarono, restando sospesi con la fissità delle costellazioni. Chiuse le palpebre e si girò sulla schiena. Rimase così, respirando superficialmente. Si sentì un leggero raspare quando cominciò a digrignare i denti, il braccio appoggiato sul materasso, in una chiazza di sole. I miei occhi presero tutto quello che desideravano da lei, e sapevo che avrei potuto avere ben altro. La sua indifferenza era un invito, ma avrei anche voluto prenderla in braccio, portarla nella nostra infermeria, o a Orgun, all’ospedale, con mio fratello. Volevo salvarla e possederla, e in quel momento sentii di amarla. Così la lasciai sui cuscini; al risveglio non mi avrebbe trovato.