“Race”, la storia di Jesse Owens
È nei cinema dal 31 marzo e racconta dell'atleta nero che nel 1936 vinse quattro medaglie d'oro alle Olimpiadi nella Germania nazista
Race – Il colore della vittoria è un film biografico che è al cinema dal 31 marzo e racconta la storia di Jesse Owens, l’atleta statunitense che nel 1936 vinse quattro medaglie d’oro alle Olimpiadi di Berlino, organizzate da Adolf Hitler per mostrare al mondo la potenza del nazismo. Owens era nero e il titolo del film – in inglese è solo Race – ha un doppio significato: la parola vuol dire sia “razza” che “corsa”. Owens ha infatti vinto tre delle sue medaglie olimpiche correndo nei 100 metri, nei 200 e nella staffetta 4×100 e una nel salto in lungo, battendo il forte atleta tedesco Luz Long e diventando uno strano simbolo dell’opposizione al nazismo, che quando tornò negli Stati Uniti dovette riadattarsi alla vita nella segregazione razziale.
Race fa una scelta simile a quella di molti altri film biografici degli ultimi anni: racconta un momento preciso della vita di Owens, dicendo pochissimo sul prima e sul dopo. Il pezzo di vita di Owens che si vede in Race va dal 1933 – l’anno in cui Owens iniziò a studiare all’università statale dell’Ohio – al 1936, con le vittorie di Owens e il suo ritorno negli Stati Uniti. Il regista del film è l’australiano Stephen Hopkins, che in passato ha diretto film piuttosto mediocri tra cui Nightmare 5: Il mito, Spirito nelle tenebre e I segni del male. Owens è interpretato da Stephan James, il cui più importante ruolo al cinema è stato una parte secondaria in Selma – La strada per la libertà. Nel cast di Race ci sono anche Jason Sudeikis, Jeremy Irons, William Hurt e Carice van Houten.
Regista e attore protagonista non sono famosi e Race è costato cinque milioni di euro: pochi; soprattutto per un film d’epoca in cui si deve ricostruire – davvero o in digitale – quasi tutto. Solo negli Stati Uniti, dove è uscito a febbraio, ha però già incassato circa 18 milioni di dollari ed è piaciuto discretamente al pubblico. Le cose vanno un po’ peggio se si guarda ai critici: molti hanno accusato il film di essere troppo semplice, poco originale e con troppe differenze e deviazioni dalla storia vera di Owens.
La versione italiana ha una particolarità: la voce del radiocronista che dall’Olympiastadion di Berlino racconta le vittorie di Owens è quella di Federico Buffa, telecronista sportivo – e non solo – che a quelle Olimpiadi ha dedicato un libro (L’ultima estate di Berlino), uno spettacolo teatrale e, insieme al giornalista Paolo Condò, un programma trasmesso su Sky Sport, in programmazione in questi giorni.
La storia di Jesse Owens
Owens era nato in Alabama il 12 settembre 1913: era figlio di un agricoltore nero del sud degli Stati Uniti e aveva nove fratelli. Come viene spiegato anche in Race, Jesse è un soprannome. Owens si chiamava James Cleveland, abbreviato in J.C., due lettere che, se lette all’inglese, hanno un suono – Jay C – simile a quello del nome “Jesse”. Un po’ perché lui veniva dal sud degli Stati Uniti e aveva un accento molto marcato e un po’ perché la sua maestra elementare capì male il suo nome, Owens iniziò a essere chiamato Jesse.
Owens riuscì ad andare all’università statale dell’Ohio dopo che nei primi anni Trenta fece vedere ottime cose nelle gare studentesche di atletica leggera. Come detto nel film, al tempo ai neri era permesso fare atletica leggera ma non, per esempio, stare nelle squadre universitarie di football americano. Come mostrato nei primi minuti del film, quando Owens si iscrisse all’università aveva già una figlia, Gloria, nata da Ruth Solomon, al tempo sua fidanzata (interpretata da Shanice Banton) e in seguito sua moglie.
L’allenatore universitario di Owens fu Larry Snyder (Jason Sudeikis): si sanno pochissime cose del vero Snyder e molto di quello che dice e fa nel film è quindi poco verificabile. Sudeikis, al suo primo importante ruolo drammatico, ha detto che per costruire il personaggio si è ispirato al ruolo di Gene Hackman in Colpo vincente e a quello di Kevin Costner in Bull Durham – Un gioco a tre mani. Nel film Snyder è un personaggio molto positivo: un grande allenatore, e anche un po’ un secondo padre, capace di tirare fuori il meglio da Owens. In realtà Owens, quello vero, parlò soprattutto del suo allenatore di atletica delle medie – Charles Riley – perché fu lui a farlo appassionare alla corsa e al salto in lungo.
I più grandi 45 minuti nella storia dello sport e le Olimpiadi
Un momento importante della storia di Owens prima delle Olimpiadi arrivò il 25 maggio 1935, a una gara di atletica tenuta in Michigan. A vedere il film sembra una di quelle cose-da-film, troppo grande e giusta per essere vera, invece lo è. Quel giorno Owens stabilì in meno di un’ora tre record del mondo, eguagliandone un quarto. Fece anche i record delle 100 e delle 220 iarde, ma quelle sono distanze americane che non si corrono alle Olimpiadi. I minuti passati dal primo all’ultimo record che Owens fece quel giorno sono stati definiti “i più grandi 45 minuti nella storia dello sport“.
Race racconta anche i dubbi che sia Owens che il Comitato Olimpico statunitense (USOC) ebbero prima delle Olimpiadi di Berlino. Era chiaro che rappresentavano un evento di propaganda nazista ma prima l’USOC e poi Owens decisero di andare: la loro idea era, in sintesi, quella di sfidare “Hitler” attraverso lo sport. Uno dei personaggi più importanti di Race è Avery Brundage (interpretato da Jeremy Irons). Brundage è stato un ex sportivo, un imprenditore e, dal 1952 al 1972, il presidente del Comitato Olimpico Internazionale. Fu accusato di essere troppo disponibile e “amico” dei nazisti prima e durante le Olimpiadi del 1936, e il film mostra parte di queste controversie.
Gli Stati Uniti andarono quindi alle Olimpiadi di Berlino e in squadra c’erano alcuni ebrei e dieci atleti neri. Owens fu di gran lunga il migliore: il 3 agosto vinse la medaglia d’oro nei 100 metri, il 4 agosto quella nel salto il lungo e il 5 agosto quella nei 200 metri. Infine, il 9 agosto vinse la sua quarta medaglia d’oro nella staffetta 4×100 metri. Era una gara a cui Owens non era nemmeno iscritto, ma partecipò dopo che la squadra americana decise di non far partecipare due atleti ebrei a causa delle pressioni dei nazisti: anche questa questione è raccontata in Race.
Il significato extra-sportivo delle vittorie di Owens sta soprattutto in due cose: la reazione di Hitler alle sue medaglie e il rapporto tra Owens e Long, il saltatore in lungo tedesco, che vinse la medaglia d’argento. Il film fa vedere come Long e Owens divennero amici, mostrando anche che Long accompagnò Owens nel suo giro d’onore. Nel finale di Race è scritto che quando iniziò la Seconda guerra mondiale Long fu punito e mandato a combattere: morì nel 1943.
Si dice invece – e il film supporta questa versione – che Hitler fu infastidito dalle vittorie di Owens, si rifiutò di stringergli la mano e abbandonò lo stadio dopo la prima vittoria di Owens. Hitler in realtà non si congratulò con nessun altro atleta che non fosse tedesco.
Owens ricordò in varie interviste sui giornali dell’epoca che subito dopo la vittoria e prima della premiazione, Hitler lo salutò con la mano e lui rispose al saluto. È però vero che Hitler lasciò comunque lo stadio prima dell’inizio della cerimonia di premiazione. Owens disse però che qualche giorno dopo gli fece recapitare un suo ritratto firmato. Nelle Olimpiadi del 1936 la Germania vinse 89 medaglie di cui 33 d’oro, battendo gli Stati Uniti, che ne vinsero in tutto 56, e l’Italia, che ne vinse soltanto 22. In Race Hitler si vede, ma il suo ruolo è secondario. Il “rappresentante” del nazismo è Joseph Goebbels, ministro della Propaganda della Germania nazista e organizzatore di quelle Olimpiadi. In Race ha un ruolo piuttosto importante anche Leni Riefenstahl (Carice van Houten, nel film), la regista tedesca che diresse Olympia, il documentario su quelle Olimpiadi. È difficile dire come e quanto Riefenstahl fosse d’accordo con gli ideali nazisti; nel film il suo personaggio è piuttosto positivo e ben disposto nei confronti di Owens.
«Non fu Hitler a farmi un affronto. Fu Roosevelt»
Per diverso tempo dopo il suo ritorno a casa, Owens difese il modo con cui era stato trattato da Hitler e dalla Germania, soprattutto in confronto all’accoglienza che aveva ricevuto dai suoi connazionali una volta tornato negli Stati Uniti, dove la segregazione razziale era ancora in vigore (e lo sarebbe stata per altri trent’anni). Owens paragonò il fatto che Hitler gli avesse inviato un proprio ritratto autografato con il comportamento del presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt, che non lo invitò alla Casa Bianca e non gli fece nemmeno una telefonata di congratulazioni.
In Germania Owens aveva dormito negli alberghi insieme agli altri atleti e alle altre celebrità. Come si vede negli ultimi minuti di Race, quando Owens tornò negli Stati Uniti partecipò a una manifestazione all’albergo Waldorf Astoria e, nonostante lui fosse un importante atleta olimpico, fu costretto a entrare dall’ingresso posteriore e a utilizzare l’ascensore di servizio invece di quello riservato agli ospiti bianchi dell’albergo. Raccontò in un’intervista: «Dopo tutte queste storie su Hitler e il suo affronto, quando sono tornato nel mio paese non potevo ancora sedermi nella parte anteriore degli autobus ed ero costretto a salire dalla parte posteriore. Non potevo vivere dove volevo. Allora qual è la differenza?». Nel libro Triumph, l’autore Jeremy Schaap attribuisce a Owens la frase: «Non fu Hitler a farmi un affronto. Fu Roosevelt».
La vittoria alle Olimpiadi non procurò inizialmente molti benefici economici a Owens, che quando tornò negli Stati Uniti dovette adattarsi a fare parecchi lavori diversi per procurarsi da vivere, tra cui l’inserviente a una pompa di benzina. Gareggiava contro cavalli, cani e motociclette durante eventi a pagamento. Ritiratosi dall’atletica iniziò una carriera molto apprezzata di oratore e conferenziere, principalmente come motivatore per aziende commerciali – davanti a platee composte quasi sempre da bianchi – che lo fecero guadagnare molto.
Ignorato da Roosevelt e dal suo successore Harry Truman, il primo vero riconoscimento per i successi sportivi gli arrivò dal presidente Gerald Ford, che nel 1976 gli assegnò la Medaglia per la Libertà, il più alto riconoscimento civile degli Stati Uniti. Il 31 marzo 1980 Jesse Owens morì a causa di un tumore ai polmoni – fumò per 35 anni un pacchetto di sigarette al giorno – a Tucson, in Arizona.