Un tentativo di migliorare i contratti dei traduttori
È il primo accordo del genere tra editori e sindacati in Italia, anche se lascia fuori la questione più importante
In Italia non esiste un tipo di contratto unico che regoli i rapporti tra case editrici e traduttori di opere straniere: spesso sono poco tutelati, pagati poco e in ritardo. Della questione si è parlato parecchio dopo il fallimento di ISBN, nel 2015, ma non era un problema nuovo, come mostrano i casi di Zandonai, Voland e Castelvecchi. Per la prima volta in Italia c’è stato un accordo tra piccoli editori e i sindacati dei traduttori per migliorarne la condizione contrattuale. Si tratta di cinque proposte messe insieme dall’Osservatorio degli Editori Indipendenti (Odei), il Sindacato Lavoratori della Comunicazione (SLC-CGIL) e STradE, il Sindacato dei traduttori editoriali, che verranno adottate ufficialmente il 3 aprile 2016, a Milano, in occasione della seconda edizione di Book Pride, la fiera di libri promossa dall’Odei.
Le cinque linee guida
I contratti di traduzione devono rispettare la legge 633 del 1941 sul diritto d’autore: la prima linea guida prevede che per ogni aspetto dei contratti di traduzione non espressamente regolato da questa legge, editore e traduttore negozino in buona fede. La seconda riguarda i diritti sulle traduzioni e la loro cessione: i contratti non possono stabilire che i diritti della traduzione siano ceduti interamente all’editore, cosa già vietata dalla legge. Non possono nemmeno essere presenti clausole di “tacito rinnovo”, che prevedono che i diritti di traduzione, una volta scaduti, siano resi automaticamente disponibili alla casa editrice. Il contratto non può includere nemmeno la cessione di diritti per utilizzare la traduzione su tecnologie non ancora esistenti. La terza linea guida riguarda il lavoro di revisione: è una promessa informale a rispettare il lavoro del traduttore, informandolo delle modifiche apportate al testo dai redattori.
Il quarto punto stabilisce che gli editori non possono prendere decisioni “a insindacabile giudizio”, come rifiutare una traduzione e non pagarla dicendo che non è sufficientemente buona. La quinta linea guida impone di indicare sempre il nome del traduttore all’interno del libro, sulla copertina o sul frontespizio. Questi cinque punti rappresentano un “riferimento etico” per i diversi contratti che verranno stipulati. Lorenzo Flabbi, uno dei due fondatori di L’Orma Editore (che fa parte di Odei), ha spiegato al Post che sono nati per cercare di evitare le “cattive pratiche” che caratterizzano spesso i rapporti tra editori e traduttori.
Quanto vengono pagati i traduttori editoriali in Italia
Le linee guida non contengono però indicazioni sul punto più spinoso: le tariffe. In Italia non è previsto un compenso minimo per i lavori di traduzione, per cui solitamente editori e traduttori si accordano fissando una cifra “a cartella”: l’unità di misura della “cartella” corrisponde a 2.000 caratteri di testo, spazi inclusi. Per farsi un’idea: un romanzo lungo circa 450 pagine è composto da un po’ più di 600mila caratteri (o battute), quindi circa 300 cartelle.
STradE non ha mai stabilito un compenso minimo da richiedere agli editori per i propri iscritti. Un buon contratto di traduzione dall’inglese, ad esempio, prevede che per ogni cartella scritta dal traduttore (dunque per ogni 2.000 battute in italiano consegnate all’editore) il compenso sia di circa 15-17 euro lordi. Tradurre 100 pagine al mese significa avere l’equivalente di uno stipendio da 1.500 euro. Molti contratti però prevedono un compenso più basso, come 11-12 euro a cartella, alcuni anche solo 8. I traduttori più giovani ricevono spesso un compenso forfettario tra i mille e i tremila euro, a prescindere dalla lunghezza del libro: a volte significa essere pagati 2 o 3 euro a cartella. I compensi sono leggermente maggiori (si arriva a 18-20 euro) per i traduttori da lingue diverse dall’inglese, come il russo e l’arabo, perché sono meno numerosi.
Flabbi ha spiegato che nelle linee guida non si fa riferimento ai compensi per evitare “un adeguamento verso il basso”: ovvero che fissando un minimo poi gli editori avessero la tentazione di basarsi solamente su quello e non pagare mai più del minimo.