Il Belgio è uno stato fallito?
La diffusione di cellule terroristiche in territorio belga ha molte cause, ma secondo alcuni la più importante è che è una nazione che non ha mai funzionato troppo bene
Le indagini degli ultimi mesi hanno dimostrato che gli attentati compiuti a Parigi lo scorso novembre e quelli compiuti a Bruxelles martedì sono stati progettati e messi in pratica dalla stessa cellula terroristica che aveva la sua base principale e la sua centrale di reclutamento nel quartiere di Molenbeek, nella capitale belga. Il Belgio era già considerato prima degli attentati il paese europeo più vulnerabile al terrorismo: negli ultimi anni dal territorio belga era partito un numero di “foreign fighters” (i combattenti stranieri che vanno a combattere il jihad in Siria e Iraq) senza eguali in Europa, se rapportato con la popolazione nazionale.
Molte delle ragioni che portano alla creazione di gruppi radicali islamici sono ben conosciute: una consistente e poco integrata comunità musulmana, un alto livello di disoccupazione giovanile in quella stessa comunità, la facilità a procurarsi armi, la disponibilità di un sistema di comunicazioni e trasporti molto fitto e affidabile, le autorità anti-terrorismo inefficaci e mal equipaggiate. Il Belgio possiede tutte queste caratteristiche: e ne ha anche un’altra, che secondo molti ha funzionato da innesco iniziale. Come ha scritto Tim King, giornalista di Politico, in un articolo molto discusso e apprezzato dello scorso novembre, il Belgio è “uno stato fallito”.
“Stato fallito” è una definizione insolita per uno stato europeo. Di solito si sente in riferimento a paesi del Terzo mondo, come la Libia e la Somalia. Uno stato fallito è un paese dove il processo di creazione di un moderno stato-nazione è andato storto e in cui la società si riorganizza in altre forme: seguendo linee etniche, linguistiche e tribali, formando milizie o altri gruppi spesso in lotta violenta tra di loro. Il Belgio non ha assistito in tempi recenti alla violenza su larga scala che vediamo oggi in Libia o in Somalia, ma – come ha scritto in questi giorni il giornalista Martin Kettle sul Guardian – per gli standard europei è «uno stato debole, costruito intorno a un’idea nazionale piuttosto precaria». Può sembrare un discorso lontano dall’attualità di questi giorni, ma è proprio qui che, secondo molti, si trova la causa profonda di fenomeni come l’inefficacia dei servizi di intelligence belgi, uno degli elementi alla base degli attacchi di questi giorni.
Di fatto il Belgio è un paese diviso in due: a nord abitano circa due terzi della popolazione, i fiamminghi di lingua olandese. A sud vivono i valloni, che parlano francese e sono all’incirca un terzo della popolazione. Il resto dei belgi vive a Bruxelles, una regione ufficialmente bilingue ma di fatto una specie di isola francofona in territorio fiammingo, che aggiunge un ulteriore livello di complessità alla situazione del Belgio. Negli ultimi decenni il nord fiammingo si è industrializzato e ha sorpassato il sud francofono in quasi tutti i principali indici di sviluppo. Fiandre e Vallonia hanno più o meno lo stesso numero di impiegati pubblici, anche se i fiamminghi sono quasi il doppio dei francofoni. Nel paese ogni tema di rilevanza pubblica non può prescindere dalla questione linguistica che si sostanzia in una costante richiesta di maggiore autonomia da parte dei partiti separatisti fiamminghi. Queste richieste finiscono spesso per paralizzare la politica belga, come successe tra il 2010 e il 2011 quando il Belgio rimase per un anno e mezzo senza governo. Nei sondaggi sul futuro del loro paese, quasi sempre una significativa parte della popolazione risponde di credere che prima o poi il Belgio si dividerà in due.
Non stiamo parlando di divisioni recenti. In un reportage pubblicato nel 2007 sul giornale Independent, il giornalista John Lichfield scriveva come la differenza principale che aveva notato facendo zig-zag tra villaggi francofoni e fiamminghi fosse che su quasi ogni casa dei primi era appesa la bandiera nazionale nera, gialla e rossa. Nei secondi, invece, le persone preferivano evitare domande troppo dirette sul loro sentimento nazionale.
Le divisioni, comunque, risalgono alla nascita stessa del Belgio. Il Belgio è uno stato “artificiale”, costruito a tavolino dalle grandi potenze europee in modo non molto diverso da come sono stati creati gran parte degli stati del Medio Oriente e dell’Africa, ha scritto Kettle. Dopo un periodo di grande sviluppo e crescita economica nel Rinascimento, il Belgio divenne per secoli uno dei campi di battaglia favoriti delle monarchie europee, continuamente attraversato dagli eserciti di Francia, Spagna, Inghilterra e Austria, trattato spesso come poco più di una colonia da sfruttare. Dopo la caduta di Napoleone, le grandi potenze d’Europa riunite al Congresso di Vienna decisero di creare uno stato forte nel nord Europa, per fungere da cuscinetto contro l’espansionismo francese e mettere un freno a un eventuale e futuro nuovo Napoleone. Con i territori che oggi formano Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo, venne creato il Regno Unito d’Olanda, diviso a metà tra gli olandesi protestanti del nord, e francofoni e olandesi cattolici del sud.
All’epoca la situazione della regione che sarebbe diventata il Belgio era l’inverso di quella odierna. L’élite industriale del paese era francofona, mentre il nord era ancora agricolo e arretrato. Quando nel luglio del 1830 il re di Francia fu rovesciato da una rivolta, i fremiti rivoluzionari si diffusero rapidamente tra i borghesi belgi oltre confine. A Bruxelles scoppiò una rivolta che si estese rapidamente a tutto il paese e nel giro di un anno divenne chiaro a tutte le potenze europee che non era possibile tenere unito il nuovo stato senza usare grande violenza. Il paese fu diviso e le aree tradizionalmente cattoliche, indipendentemente dalla lingua degli abitanti, furono riunite in quello che da allora è divenuto il Belgio. Questa situazione è un caso quasi unico in Europa, dove nel corso dell’Ottocento, e in alcuni casi molto prima, gli stati-nazione si aggregarono intorno a una lingua comune o dove comunque le altre lingue erano parlate soltanto da una ridotta minoranza, spesso repressa con la forza.
Come ha scritto King nel suo articolo di dicembre, era quasi inevitabile che una nazione costruita su queste basi mostrasse rapidamente tutti i suoi problemi. Per secoli i belgi avevano identificato lo stato come l’occupante straniero e quindi avevano riversato la loro lealtà su una serie di altre organizzazioni e corpi intermedi, tra cui la Chiesa cattolica. La nuova élite liberale non fu in grado di spostare la fedeltà dei proprio cittadini nello “stato belga”, ma si limitò semplicemente a creare nuovi corpi intermedi. Alle forme di aggregazione e assistenza che forniva la chiesa si affiancarono quelle dei partiti politici. Lo stato belga divenne in breve il protettore di un gran numero di categorie e interessi particolari, invece che il fornitore neutrale di servizi a tutta la popolazione. I politici, scrive King, si impossessarono dell’accesso a finanziamenti, dei posti di lavoro e delle infrastrutture. La macchina pubblica divenne così il terreno di scontro tra gruppi e fazioni, divisi su base linguistica e di affiliazione politica.
Gli effetti di queste divisioni sono sorprendentemente attuali. Uno dei principali è che Molenbeek – il quartiere da cui provenivano diversi degli attentatori della cellula franco-belga dello Stato Islamico in Europa – non è mai stato riqualificato, nonostante siano oramai decenni che si parla di risolvere i problemi che presenta. Le divisioni politiche e campanilistiche impediscono le riforme più importanti che potrebbero portare a una maggiore efficienza dell’amministrazione. E questa paralisi colpisce anche le agenzie di sicurezza, spesso sospettose le une delle altre e restie a condividere le informazioni. Nella regione di Bruxelles, ad esempio, le numerose amministrazioni locali si contendono il controllo di mezza dozzina di forze di polizia locale diverse. La polizia federale, che ha il compito di perseguire i crimini più gravi in tutto il paese, è spesso accusata di inefficienza e di eccessiva politicizzazione.
Come scrive Kettle sul Guardian, questo non significa che i terroristi non siano in grado di colpire anche stati molto più forti del Belgio. I due principali attacchi del 2015 sono avvenuti a Parigi, la capitale dello stato per definizione più “forte” di tutta Europa. Ma il fatto che anche quegli attacchi siano collegati a Molenbeek e a quello che succede a Bruxelles, ricorda a tutti che le debolezze intrinseche del Belgio sono diventate una debolezza per l’intera Europa.