Perché proprio il Belgio
Una piccola nazione europea si trova da anni al centro delle indagini e delle notizie sul terrorismo internazionale, per una serie di fattori combinati e sovrapposti
Con gli attentati di oggi a Bruxelles, per la seconda volta in pochi mesi una piccola nazione europea – il Belgio – si è ritrovata al centro delle attenzioni del mondo e di chi si occupa di terrorismo internazionale. Lo scorso novembre, pochi giorni dopo gli attacchi di Parigi, emerse che gli attentatori erano cittadini belgi oppure francesi che avevano vissuto a lungo in Belgio; una settimana dopo la polizia aveva trovato e ucciso Abdelhamid Abaaoud, cittadino belga considerato l’ideatore dell’attacco; per diversi giorni le operazioni di polizia collegate agli attacchi di Parigi erano andate avanti soprattutto in Belgio e precisamente a Molenbeek, un quartiere di Bruxelles. Pochi giorni fa l’ultimo attentatore di Parigi ancora ricercato, Salah Abdeslam, è stato arrestato proprio a Molenbeek.
Le zone del mondo occidentale in cui si è registrato un aumento delle attività collegate all’estremismo islamico hanno alcune cose in comune: una consistente e poco integrata comunità musulmana, un alto livello di disoccupazione giovanile in quella stessa comunità, la facilità a procurarsi armi, la disponibilità di un sistema di comunicazioni e trasporti molto fitto e affidabile, le autorità anti-terrorismo inefficaci e mal equipaggiate, una grande instabilità politica. Il Belgio queste caratteristiche ce le ha tutte, e da molto tempo è noto il suo problema con il terrorismo islamico e il jihad.
Il Belgio è, per esempio, il paese che in proporzione fornisce più combattenti al jihad tra tutti gli stati europei: negli ultimi anni centinaia di cittadini belgi sono andati a combattere in Medioriente insieme a gruppi estremisti come lo Stato Islamico o al Qaida. Nel 2005 la prima donna europea a compiere un attentato suicida fu una donna belga di Charleroi, convertita all’Islam: attaccò un convoglio statunitense in Iraq. Nel 2008 fu scoperta e smantellata un’organizzazione – “Sharia4Belgium” – che reclutava giovani belgi musulmani per mandarli nei campi di addestramento di al Qaida. Diversi esperti ritengono che proprio “Sharia4Belgium” abbia avuto una grossa influenza nella diffusione dell’estremismo islamico in Belgio, ma in molti hanno osservato un generale aumento dell’aggressività e del conservatorismo tra i giovani musulmani immigrati di seconda generazione, fomentato anche dalla propaganda estremista e intollerante disponibile online, anche quando non produce azioni violente.
Dall’altra parte, però, non risulta che nessuno dei terroristi di Parigi fosse particolarmente povero. Un attivista locale ha detto al Guardian che gli estremisti e la loro propaganda «danno alla normale ribellione giovanile una dimensione islamica», e così facendo istigano i giovani musulmani a diventare dei «martiri» e fare qualcosa di grande con le loro vite. Le facili comunicazioni con i loro coetanei che sono già partiti verso la Siria rappresentano un ulteriore elemento allettante: al di là dell’eventuale condizione di disagio, secondo le persone che studiano il fenomeno esiste anche una radicalizzazione per “idealismo” o militanza politica, che coinvolge persone istruite e provenienti da famiglie senza problemi economici.
Le difficoltà nel contrastare il terrorismo e la violenza dipendono anche dalla complicata frammentazione amministrativa del Belgio in generale e di Bruxelles in particolare. Il Belgio è sostanzialmente diviso in due, tra una parte che parla francese e un’altra che parla fiammingo. Le polizia e i servizi segreti delle due comunità per anni hanno comunicato poco e male, e sono stati mal finanziati. La stessa regione di Bruxelles è molto frammentata: ha 19 sindaci e 6 dipartimenti di polizia, per esempio, che spesso non si passano le informazioni l’uno con l’altro. Un articolo di Politico molto letto e apprezzato, uscito dopo gli attentati di Parigi del 2015, ha definito il Belgio anche per questo “uno stato fallito”: disorganizzato e privo di una vera identità nazionale.
In tutti gli altri paesi europei, la lotta contro il terrorismo si fa centralizzando la gestione del potere, delle persone e del denaro a disposizione delle autorità. Per combattere il terrorismo, specialmente nell’era digitale, servono squadre di specialisti di tecnologia, sorveglianza e intelligence, e serve che le nazioni condividano le informazioni in loro possesso. Anche per via delle sue divisioni linguistiche, il Belgio è andato nella direzione opposta. Dopo ogni elezione politica ci sono infiniti negoziati per formare un governo – qualche anno fa il paese restò senza un governo per 532 giorni – e questi negoziati si concludono sempre con la devoluzione di nuovi poteri alla regioni.
Poi c’è Molenbeek, un grande quartiere di Bruxelles con 90.000 abitanti che si estende per poco meno di sei chilometri quadrati. In certe zone di Molenbeek l’80 per cento degli abitanti è di religione musulmana. Prima che Molenbeek diventasse famoso per le molte cellule terroristiche che lo hanno usato in questi anni come base e rifugio, a Bruxelles era famoso per il suo livello di criminalità: era il classico posto in cui è meglio non andare la sera, e in cui la polizia passa raramente. Molenbeek non è troppo lontano del centro di Bruxelles: per arrivarci dalla Grand Place – la piazza centrale di Bruxelles, considerata il centro del centro – ci vogliono solo sedici minuti a piedi. A Molenbeek ci sono 22 moschee, attorno alle quali si raccoglie la numerosa comunità musulmana locale.
A Molenbeek sono legati l’attentato al Museo Ebraico di Bruxelles del maggio 2014, la cellula jihadista di Verviers che stava organizzando attentati in Europa smantellata nel gennaio del 2015 e l’attentato fallito sul treno francese dell’agosto 2015 (il New York Times ha spiegato chiaramente i dettagli dei legami tra Molenbeek e ciascuno di questi episodi). Da questo quartiere erano anche partiti i due terroristi che – fingendosi due giornalisti – due giorni prima dell’11 settembre 2001 uccisero il militare e politico afghano Ahmed Shah Massoud, principale oppositore del regime dei talebani; e qui avevano vissuto due dei protagonisti degli attentati di Madrid del 2004. A Molenbeek è collegato anche l’attacco al supermercato kosher di Parigi successivo all’attentato contro la redazione di Charlie Hebdo, all’inizio di gennaio: Amedy Coulibaly, l’uomo che uccise quattro ostaggi nel supermercato e che era un simpatizzante dell’ISIS, aveva comprato le armi usate nell’attacco a Molenbeek. E a Molenbeek sono collegati gli attentati di Parigi dello scorso novembre, come sappiamo.
Negli scorsi mesi la polizia anti-terrorismo belga ha intensificato indagini, perquisizioni e arresti, con l’aiuto soprattutto della Francia. I giornali internazionali hanno raccontato voci – mai ufficialmente confermate, ma considerate credibili – sul nervosismo delle autorità francesi per l’inefficienza dei loro colleghi belgi, per la loro scarsa preparazione e organizzazione. Venerdì scorso le autorità belghe hanno arrestato Salah Abdeslam, l’ultimo ricercato per gli attentati di Parigi, rintracciato dopo il ritrovamento piuttosto casuale di un bicchiere da cui aveva bevuto. Subito dopo l’arresto di Abdeslam, il presidente francese Francois Hollande e il primo ministro belga Charles Michel hanno parlato insieme alla stampa, congratulandosi a vicenda per il successo dell’operazione.