Rettificare i nomi
Nel suo nuovo libro "Passeggeri notturni", Gianrico Carofiglio sostiene che la buona politica significa soprattutto dare il nome giusto alle cose
Gianrico Carofiglio – magistrato, ex senatore del Pd e scrittore di gialli e libri di successo – è convinto che dire le cose bene, in modo che si capiscano, sia un atto politico, il più fondamentale. Carofiglio si riferisce a tutti gli usi pubblici del linguaggio – e forse un po’ anche a quelli privati – quindi anche al modo in cui si scrivono gli articoli dei giornali, le sentenze dei tribunali o le leggi dello Stato. Al tema Carofiglio – che scrive in modo chiarissimo – aveva già dedicato un libro, Con parole precise, pubblicato Laterza, di cui qui avevamo parlato.
L’argomento ritorna anche in Passeggeri notturni, appena pubblicato da Einaudi Stile libero, un libro fatto di trenta testi di tre pagine l’uno, che parla dell’ingannevolezza delle confessioni giudiziarie, di matrimoni omosessuali, di psicologia degli avvocati, di abolizione del denaro contante, di ambiguità degli avverbi, di necessità dei fallimenti e appunto della lingua e del corretto uso delle parole. Il testo che pubblichiamo racconta come la mancanza di parole possa portare a un aumento del numero dei suicidi – è accaduto a Tahiti, da cui il titolo del racconto – e riprende un’antica proposta politica di Confucio sui doveri linguistici degli uomini di Stato.
Tahiti
Ipocognizione è vocabolo difficile, poco usato ma piuttosto importante. Indica la situazione di chi non possiede le parole – e dunque i concetti, i modelli di interpretazione della realtà – di cui ha bisogno per gestire la propria vita interiore e i rapporti con gli altri.
Il concetto di ipocognizione deriva da uno studio condotto a Tahiti negli anni Cinquanta da Robert Levy, antropologo e psicoterapeuta. Nel tentativo di individuare la ragione dell’altissimo numero di suicidi registrati a Tahiti, Levy scoprí che i tahitiani non avevano le parole per indicare il dolore, al di fuori di quello fisico. Non avevano le parole per indicare la sofferenza spirituale. Naturalmente la conoscevano e la provavano, ma non avevano per essa un concetto e un nome. Dunque non erano in grado di identificarla. Non erano in grado di nominare, e quindi di elaborare, la fragilità, la tristezza, l’angoscia. La conseguenza di questa incapacità, nei casi di sofferenze intense, e per loro incomprensibili, era spesso il drammatico cortocircuito che portava al suicidio.
Racconto spesso questo impressionante aneddoto scientifico perché mi sembra faccia comprendere, molto piú di un lungo discorso, quale sia l’importanza pratica – direi quasi materiale – delle parole. Queste infatti – le parole che usiamo, che sentiamo, che leggiamo – hanno un effetto sostanziale e profondo sulla nostra percezione prima ancora che sulla nostra rappresentazione della realtà.
Immaginiamo di avere fatto un’esperienza spiacevole – un litigio, un incidente stradale, un insuccesso professionale – e pensiamo ai vari modi in cui potremmo descrivere lo stato d’animo che ne è derivato. Se dicessimo di essere pazzi di rabbia sentiremmo tensione al collo e alle mascelle, stringeremmo i pugni, saremmo pronti a gesti scomposti. Se dicessimo di essere arrabbiati avvertiremmo tensione emotiva ma saremmo in grado di dominarci e di evitare azioni di cui potremmo in seguito pentirci. Se dicessimo semplicemente di essere seccati saremmo pronti a reagire in modo razionale all’infortunio, scegliendo le soluzioni piú adeguate. Soprattutto saremmo pronti a uscire presto dall’esperienza negativa per tornare a una situazione di benessere emotivo.
Le parole che utilizziamo possono avere un impatto straordinario non solo sulle nostre vite individuali, ma anche su quelle collettive. Le parole creano la realtà, fanno – e disfano – le cose; sono spesso atti di cui bisogna prevedere e fronteggiare le conseguenze, in molti ambiti privati e pubblici.
La buona politica è anche – forse soprattutto – dare il nome giusto alle cose.
Lo aveva già capito, piú o meno duemilacinquecento anni fa, un signore di nome Confucio. Si racconta che un giorno un giovane discepolo gli fece questa domanda: «Maestro, se vi fosse affidato un regno da governare secondo i vostri principi, che fareste per prima cosa?» Confucio rispose: «Per prima cosa rettificherei i nomi». A questa risposta il discepolo rimase molto perplesso: «Rettificare i nomi? Con tante cose gravi e urgenti che toccano a un governante voi vorreste sprecare il vostro tempo con una sciocchezza del genere? È uno scherzo?» Confucio dovette spiegare: «Se i nomi non sono corretti, cioè se non corrispondono alla realtà, il linguaggio è privo di oggetto. Se il linguaggio è privo di oggetto, agire diventa complicato, tutte le faccende umane vanno a rotoli e gestirle diventa impossibile e senza senso. Per questo il primo compito di un vero uomo di Stato è rettificare i nomi».
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