Cosa sono i misteriosi “cerchi delle fate”
I cerchi nell'erba che appaiono da anni in Namibia senza che gli scienziati trovino una spiegazione sono stati scoperti anche in Australia, e forse si è capito come si formano
Lunedì 14 marzo un gruppo di ricercatori ha pubblicato un articolo sulla rivista scientifica americana Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) nel quale ha annunciato di aver trovato in un’area di circa mille chilometri quadrati vicino alla città di Newman, nell’Australia occidentale, formazioni naturali conosciute come “cerchi delle fate”. Si parla di “cerchi delle fate” quando un terreno coperto di erba o arbusti presenta aree più o meno circolari prive di vegetazione, ripetute e vicine tra loro: è un fenomeno naturale del quale non si conoscono con esattezza le cause, e che è stato definito “uno dei più grandi enigmi della natura”. Fino ad ora però l’unico esempio di cerchi delle fate era stato trovato in Namibia, in Africa: quella di ieri è quindi una scoperta importante, che secondo gli scienziati potrebbe aiutare a determinare con certezza come e perché si formano.
I cerchi delle fate in Namibia, fotografati nel 2009 (Stephan Getzin/picture-alliance/dpa/AP Images)
In Africa i cerchi delle fate si trovano nel deserto del Namib, che dall’Angola arriva fino al Sudafrica, occupando tutta la fascia costiera della Namibia. Sono milioni, e si trovano nella zona che collega le distese aride erbose con quelle propriamente desertiche. I cerchi hanno un diametro che va dai 2 ai 20 metri, e la vegetazione che li separa ha un’altezza all’incirca pari a quello delle ginocchia di una persona. I cerchi più piccoli si formano e scompaiono in un arco di tempo di circa 24 anni, mentre i più grossi possono avere cicli vitali fino ai 75 anni. Le popolazioni locali africane tramandano leggende secondo cui i cerchi delle fate sono le impronte delle divinità e degli spiriti, oppure le bolle del respiro di un drago che vive sottoterra. Gli scienziati hanno invece iniziato a studiare i cerchi delle fate negli anni Settanta, ma da allora nessuno è riuscito a formulare una teoria convincente sul perché si formino, sul perché siano circolari e sul perché siano distanziati con regolarità.
Walter Tschinkel, un biologo americano della Florida State University, iniziò a studiare i cerchi delle fate quando li vide per la prima volta durante un viaggio in Namibia nel 2005. Tschinkel ha raccontato che appena li vide disse alla guida locale che era evidente che fossero causati dalle termiti, insetti che vivono in grosse comunità in quelle tipiche strutture verticali di terra molto comuni in Africa. Secondo Tschinkel era probabile che le termiti uccidessero la vegetazione da sottoterra all’interno di quei cerchi, oppure che producessero gas velenosi che impedivano all’erba di crescere.
Norbert Juergens, un biologo dell’Università di Amburgo, ha formulato una delle teorie più articolate tra quelle che coinvolgono le termiti: secondo Juergens gli insetti mangiano da sottoterra le radici della vegetazione, per fare sì che l’acqua piovana venga invece “immagazzinata” tra i granelli di sabbia del suolo. Juergens ha sostenuto che le termiti seguirebbero delle specie di percorsi circolari nel mangiare le radici – da cui la forma a cerchio – e che il fatto che ci siano molti cerchi a poca distanza tra loro dipende dalla competizione tra diverse colonie di insetti. Quando però Tschinkel tornò in Namibia nel 2007 per analizzare più approfonditamente i cerchi, non trovò traccia di termiti, dopo tre giorni di scavi.
Gli scienziati hanno sviluppato altre teorie: c’è chi ha ipotizzato che i cerchi delle fate siano il risultato di una contaminazione causata da materiali radioattivi, o che dipendano dall’avvelenamento del suolo provocato da alcune piante. Altri hanno sostenuto che siano gli struzzi a crearli, smuovendo la terra. Don Cowan, un microbiologo dell’Università di Pretoria, in Sudafrica, ha spiegato alla BBC che in generale ogni scienziato che si è occupato dei cerchi delle fate ha provato a spiegarli facendo riferimento al proprio settore: gli entomologi dicono che sono le termiti, i botanici hanno suggerito l’ipotesi dell’avvelenamento provocato da altre piante, i chimici hanno cercato di provare che tutto dipende dagli effetti di alcuni gas che si generano sottoterra e uccidono la vegetazione. E lo stesso Cowan sostiene che i cerchi nascano per via dell’azione di alcuni microorganismi, forse dei funghi, che infetterebbero le radici delle piante uccidendole, per poi espandersi radialmente uccidendo i semi nel terreno e impedendo all’erba di crescere. Nessuna di queste teorie è però considerata davvero convincente dagli scienziati.
Più recentemente, però, Michael Cramer, un biologo dell’Università di Città del Capo, ha formulato una spiegazione più solida delle altre. Secondo Cramer, che presentò la sua scoperta nel 2013 dopo una ricerca con l’ecologa Nichole Barger, i cerchi delle fate sono il risultato di una particolare organizzazione delle piante per rispondere a una carenza di acqua e di prodotti nutritivi nel suolo. Secondo questa teoria, le piante più resistenti sviluppano radici più profonde che assorbono più acqua della vegetazione circostante: le loro radici, sviluppandosi più in profondità delle altre, ammorbidiscono il terreno permettendo ad altre di crescere nelle immediate vicinanze. In questo modo, però, queste piante “rubano” l’acqua e il nutrimento alle piante più lontane, facendole morire. Al posto di queste piante non nasce più niente, perché il terreno è reso troppo compatto e caldo dalla mancanza di piante. Queste aree circolari vengono quindi usate come riserve d’acqua dalle piante che le circondano: l’acqua che cade al loro interno, non venendo assorbita da nessuna pianta, defluisce verso i bordi, nutrendo quelle che circondano il cerchio. Secondo Cramer, questo è il motivo per cui i cerchi delle fate si trovano solo nelle zone della Namibia con poca piovosità, e si espandono negli anni di particolare siccità e si restringono in quelli in cui piove di più.
(Stephan Getzin/picture-alliance/dpa/AP Images)
Stephan Getzin, un ecologo di Lipsia che studia i cerchi delle fate dal 1999, ha sostenuto a lungo la teoria dell’auto-organizzazione della vegetazione. Inizialmente Getzin aveva creduto che a formare i cerchi fossero le termiti, ma si convinse che la spiegazione era un’altra osservando il fenomeno dalle foto aeree e satellitari: scoprì che i cerchi erano disposti regolarmente, seguendo una sorta di pattern. Getzin sviluppò una teoria compatibile con quella di Cramer: vista la scarsità di acqua, le piante si organizzano a formare dei cerchi di terreno vuoti, distanziandosi tra loro per ottimizzare le risorse. Nel 2014 pubblicò una ricerca a sostegno dell’ipotesi, e tre giorni dopo ricevette una chiamata da una dipendente di una miniera di Newman, in Australia, che gli disse che formazioni simili ai cerchi delle fate erano presenti anche in quella regione. Pochi mesi dopo andò di persona per studiarle, convincendosi che la teoria dell’auto-organizzazione era valida.
Getzin è l’autore principale dell’articolo pubblicato lunedì 14 marzo, e crede che i cerchi delle fate australiani e quelli della Namibia siano il risultato di un processo quasi identico, con la differenza che nel primo caso le piante competono per l’acqua più in superficie, nel secondo sottoterra. Le ricerche di Getzin, oltre a dare ulteriore solidità all’ipotesi dell’auto-organizzazione delle piante, hanno indebolito quella delle termiti: in Australia sono state trovate solo in un piccolo numero di cerchi. Ed Yong, giornalista scientifico dell’Atlantic, ha scritto che per confermare definitivamente una delle teorie sulla formazione dei cerchi delle fate gli scienziati dovranno dimostrare con degli esperimenti di poterne controllare la nascita e l’espansione: cambiando la quantità dell’acqua a disposizione delle piante o aggiungendo e eliminando le termiti, ad esempio. Ma è probabile che nel frattempo, con l’aumentare della disponibilità di immagini satellitari da tutto il mondo, vengano scoperti altri luoghi del mondo dove sono presenti i cerchi delle fate, mettendo a disposizione degli scienziati più dati su cui lavorare.