Come Facebook ha inghiottito il giornalismo
Una spiegazione di cosa sta succedendo ai prodotti dell'informazione, costretti a consegnare l'autonomia del loro rapporto con i lettori
di Emily Bell
Il panorama dei media, il dibattito pubblico e il settore del giornalismo stanno attraversando una trasformazione drammatica di cui quasi non ci rendiamo conto e che di sicuro non viene analizzata e discussa pubblicamente come invece sarebbe necessario. Negli ultimi cinque anni il mondo dell’informazione è cambiato forse più che nei cinque secoli passati. La tecnologia fa passi enormi – la realtà virtuale, la pubblicazione di video in diretta, le nuove forme di intelligenza artificiale, la messaggistica istantanea, le app di chat – e stiamo assistendo a grandi trasformazioni sul fronte del potere e dei finanziamenti, che stanno mettendo il futuro dell’editoria nelle mani di poche persone che oggi controllano il destino di molti. I social media non hanno fagocitato solo il giornalismo: hanno fagocitato ogni cosa, dalle campagne politiche al sistema bancario, alle nostre storie personali, al settore dell’intrattenimento, della vendita al dettaglio, fino al governo e alla sicurezza. Il telefono che teniamo in tasca rappresenta la nostra finestra sul mondo. Dal mio punto di vista, questa trasformazione è messaggera di opportunità entusiasmanti nel campo dell’istruzione, dell’informazione e della connettività, ma porta con sé anche una serie di rischi esistenziali. Il giornalismo è una piccola attività secondaria per il core business delle piattaforme sociali, ma è di interesse centrale per i cittadini. Internet e i social media permettono al giornalismo di fare grandi cose, ma allo stesso tempo contribuiscono a rendere poco sostenibile economicamente il giornalismo stesso.
Due cose importanti sono già successe senza che facessimo abbastanza attenzione. Innanzitutto, gli editori nel settore dell’informazione hanno perso il controllo sulla sua distribuzione. Le aziende che sviluppano social media e piattaforme tecnologiche hanno realizzato quello che gli editori non avrebbero potuto costruire neanche se avessero voluto, prendendone di fatto il posto. Le notizie oggi sono filtrate da algoritmi e piattaforme poco trasparenti e non prevedibili. Il settore dell’informazione sta abbracciando questa tendenza e prodotti nativi digitali come BuzzFeed, Vox e Fusion hanno costruito la loro forza partendo dal presupposto di lavorare nel nuovo sistema, e non contro di esso. Le piattaforme e le aziende di social media più importanti, come Google, Apple, Facebook, Amazon, ma anche Twitter, Snapchat e le aziende di messaggistica istantanea emergenti hanno acquisito un potere enorme nel controllare chi-mostra-cosa-a-chi, e nel monetizzare la pubblicazione. In questo senso, oggi il potere è concentrato tanto quanto mai in passato. I network prediligono le economie di scala e i grandi numeri, e così la nostra cura minuziosa del pluralismo svanisce di colpo, mentre le dinamiche del mercato e le leggi antitrust su cui si fa affidamento per risolvere anomalie come questa stanno fallendo nel loro intento.
Responsabile di gran parte di questo fenomeno è la rivoluzione della tecnologia mobile, che ha fatto aumentare in modo straordinario il tempo che trascorriamo online, la quantità di cose che facciamo online e l’attenzione che dedichiamo ai social network. La struttura e le capacità dei nostri telefoni favoriscono le app, che promuovono comportamenti diversi. Una recente ricerca di Google attraverso il suo sistema operativo Android mostra che usiamo solo quattro o cinque app al giorno delle 25 che in media abbiamo sul telefono, e che passiamo la maggior parte del tempo sulla app di un social network. Al momento Facebook è più diffuso di ogni altro. La maggior parte degli adulti americani sono utenti di Facebook, e la maggioranza degli utenti si informa in qualche modo su Facebook: secondo i dati del centro studi Pew Research Center questo significa che circa il 40 per cento degli adulti americani considera Facebook una fonte di notizie.
Quindi, per ricapitolare: le persone usano sempre di più i loro smartphone per fare qualsiasi cosa, e usano soprattutto app, in particolare quelle social e di messaggistica come Facebook, WhatsApp, Snapchat e Twitter. La concorrenza per imporsi in questo mercato si è intensificata molto. Il vantaggio competitivo di queste aziende sta nel riuscire a mantenere gli utenti collegati all’app: più a lungo gli utenti usano la tua app, più sono le informazioni che si ottengono sul loro conto, che possono poi essere sfruttate per vendere spazi pubblicitari, aumentando così le entrate. La competizione per conquistare l’attenzione degli utenti è agguerrita. I “quattro cavalieri dell’apocalisse” – Google, Facebook, Apple e Amazon (cinque, se si conta anche Microsoft) – sono impegnati in una continua e accesa guerra per stabilire quali tecnologie, piattaforme, e addirittura quali ideologie avranno la meglio.
L’anno scorso Snapchat ha presentato l’app Discover dedicando dei canali a pubblicazioni come BuzzFeed, il Wall Street Journal, Cosmo e il Daily Mail. Facebook ha lanciato Instant Articles e ha annunciato di recente che ad aprile il servizio sarà aperto a tutti. Apple e Google si sono accodate presto, lanciando rispettivamente Apple News e Accelerated Mobile Pages. Per non rischiare di rimanere esclusa Twitter ha introdotto Moments, che raccoglie i contenuti più discussi sulla piattaforma per fornire un resoconto completo dei fatti del momento. Nel corso dell’ultimo anno giornalisti ed editori hanno beneficiato inaspettatamente di questa competizione. Il fatto che aziende tecnologiche con grandi risorse stiano progettando sistemi per la distribuzione di notizie è molto positivo: ma mentre si apre una nuova porta, un’altra si sta chiudendo. Nello stesso momento in cui gli editori venivano spinti a pubblicare direttamente sulle app e sui nuovi sistemi, il che permetterebbe loro di far crescere rapidamente il numero dei lettori su dispositivi mobili, Apple annunciava che avrebbe permesso di scaricare dal suo App Store dei software di ad-blocking che permettono di bloccare gli annunci pubblicitari. In altre parole, se come editore la vostra alternativa a pubblicare attraverso una di queste nuove piattaforme era guadagnare dalla pubblicità sui dispositivi mobili, chiunque abbia un iPhone ora può bloccare quelle pubblicità e il loro fastidioso sistema di registrazione dei dati. Mentre gli articoli che compaiono su piattaforme come Discover di Snapchat o Instant Articles di Facebook sono in gran parte – non del tutto – immuni agli ad-blocker. Di fatto, la già esigua quota di pubblicità digitale che gli editori possono gestire autonomamente su dispositivi mobili viene potenzialmente eliminata. Naturalmente si potrebbe aggiungere che gli editori se la sono cercata riempiendo le loro pagine con annunci invasivi che nessuno voleva.
Gli editori commerciali hanno tre alternative. La prima è aumentare la quantità di contenuti pubblicati direttamente su app come quella di Facebook e sul suo servizio Instant Articles, dove il blocco degli annunci non è impossibile, ma è più difficile che sul browser. Mi ha raccontato un editore: «Pensando ai ricavi che possono arrivare dal mobile, anche se dessimo tutto direttamente a Facebook sarebbe comunque un guadagno». Tuttavia i rischi derivanti dalla dipendenza da un solo distributore sono molto alti.
La seconda possibilità è sviluppare business diversi e altre fonti di entrate lontano dalle piattaforme suddette, accettando il fatto che per gli editori accettare di poter raggiungere un pubblico più ampio attraverso queste reti non solo non è d’aiuto, ma peggiora la qualità del giornalismo: e quindi indirizzandosi sul criterio dei coinvolgimento del proprio pubblico piuttosto che sulla quantità del traffico. I servizi di registrazione e abbonamento sono le opzioni più comuni in questo contesto. Ma, a complicare le cose, richiedono un brand dall’identità forte verso cui i lettori si sentano affini e contenuti competitivi. In un tempo in cui i contenuti sono distribuiti in misura massiccia questo è molto più difficile per il mondo dell’informazione rispetto a chi fa prodotti tangibili. Anche nei pochi casi in cui funzionano, gli abbonamenti non riescono comunque a compensare le mancate entrate pubblicitarie.
La terza alternativa è produrre contenuti pubblicitari che non sembrino tali, che non possono essere rilevati dai software per il blocco degli annunci. Una volta erano definiti “pubbliredazionali” o “sponsorizzazioni”, mentre oggi sono conosciuti come native advertising: negli Stati Uniti rappresentano ormai quasi il 25 per cento della pubblicità display digitale. Siti online come BuzzFeed, Vox e ibridi come Vice hanno rivoluzionato il modello editoriale trasformandosi in sostanza in agenzie pubblicitarie (mentre quelle tradizionali rischiano di fallire). Trattano direttamente con gli inserzionisti, producono i video virali e le GIF che poi si diffondono a macchia d’olio sulle nostre pagine Facebook, per poi destinarle a tutte le persone che in precedenza avevano messo un like o avevano condiviso altri contenuti di quello stesso editore.
La conclusione logica a cui sono giunti diversi editori è stata investire in una propria app. Ma come si è visto, per funzionare anche le app devono seguire gli standard di distribuzione propri di altri servizi. E le risorse per investire nella propria app e aggiornarla sono richieste in un momento storico in cui il settore pubblicitario è in difficoltà soprattutto sulla carta stampata, ma non cresce nemmeno su internet. Come raggiungere il difficile equilibrio tra dove andare e come andarci è probabilmente la decisione più complicata che gli editori tradizionali sono costretti a prendere in termini di investimenti.
Alcuni editori raccontano che con Instant Articles stanno riuscendo a ottenere un traffico dalle tre alle quattro volte superiore al previsto. Per gli editori la tentazione di puntare tutto su queste reti e iniziare a creare contenuti e storie che funzionino sui social sta diventando più forte. Immagino che sempre più società abbandoneranno del tutto risorse di produzione, tecnologia e persino i settori che si occupano di pubblicità per delegare tutto a piattaforme terze nel tentativo di sopravvivere. Ma è una strategia molto rischiosa: in questo modo gli editori perdono il controllo del rapporto con i loro utenti e del percorso che le loro storie fanno per arrivare a destinazione. Ogni giorno miliardi di utenti e centinaia di migliaia di articoli, foto e video sono pubblicati online, e le piattaforme social devono ricorrere ad algoritmi per tentare di capire quali contenuti sono importanti, recenti e popolari, e stabilire chi-deve-vedere-cosa. E a noi non resta che fidarci: in realtà, sappiamo poco o niente di come ogni rete classifica le notizie. Se Facebook, per esempio, decidesse che i video funzionano meglio degli articoli, e vanno promossi di più, noi non potremmo scoprirlo a meno che Facebook non scelga di dircelo o che non lo capiamo da soli. È un settore non ancora regolato, e i metodi di lavoro di questi sistemi non sono trasparenti.
Il fatto che una classe di persone tecnicamente capaci, con coscienza sociale, successo finanziario e grande energia come Mark Zuckerberg stia appropriandosi delle funzioni e del potere economico dai vecchi guardiani compassati, arroccati politicamente, e a volte corrotti a cui eravamo abituati in passato, porta grandi vantaggi. Ma dobbiamo essere consapevoli della profondità di questo cambiamento culturale, economico e politico. Stiamo cedendo il controllo di parti importanti della nostra vita pubblica e privata a una manciata di persone che non sono state elette per questo e non rispondono del loro operato.
Abbiamo bisogno di norme che garantiscano che tutti i cittadini abbiano pari accesso alle reti di opportunità e servizi di cui hanno bisogno. Dobbiamo anche poter essere sicuri che tutti i discorsi e le espressioni pubbliche siano trattate in modo trasparente, se non è possibile trattarle in modo uguale. Sono precondizioni essenziali per una democrazia che funzioni. Affinché questa accada bisogna almeno essere d’accordo sul fatto che i responsabili in questi settori stanno cambiando. Chi ha fondato queste piattaforme non è partito con l’idea di sostituirsi alla stampa libera, ma anzi è preoccupato all’idea che questo possa diventare il risultato del loro successo tecnologico. Oggi a queste società viene contestato di aver privilegiato con cura i settori più redditizi del processo editoriale e di aver trascurato il business più costoso della creazione di giornalismo di qualità. Se esperimenti nascenti come Instant Articles porteranno a una maggiore integrazione con il giornalismo, potremo assistere a un cambiamento significativo dei costi di produzione, soprattutto in termini di tecnologia e vendita di spazi pubblicitari.
Il nuovo processo di mediazione dell’informazione – che una volta si pensava sarebbe diventata totalmente democratica grazie all’evoluzione del web aperto – probabilmente peggiorerà i meccanismi di finanziamento del giornalismo, prima che riesca a migliorarli. Se si considerano gli scenari futuri della pubblicità e gli aggressivi obiettivi di crescita che Apple, Facebook, Google e le altre società devono soddisfare per appagare Wall Street, è probabile che – a meno che le piattaforme social non decidano di destinare molti più soldi alla fonte – produrre notizie diventi un’operazione senza fini di lucro, piuttosto che un motore del capitalismo.
Per essere sostenibili, le società di news e di giornalismo dovranno ora modificare radicalmente i loro investimenti. Molto probabilmente la prossima infornata di società di news fonderà le proprie attività sulla distribuzione di storie, talenti e prodotti su diversi dispositivi e piattaforme. Mentre questa transizione è in corso, la pubblicazione di contenuti giornalistici direttamente su Facebook e altre piattaforme diventerà la regola, invece che l’eccezione. Anche l’attività di aggiornamento di un sito web potrebbe venire abbandonata in favore di un’iperdistribuzione. La distinzione tra piattaforme ed editore sarà definitivamente superata.
Per quanto si pensino società tecnologiche, i grandi gruppi citati prendono decisioni fondamentali anche per molti altri campi come l’accesso alle piattaforme, la fisionomia del giornalismo e del dibattito, l’inclusione o la censura di determinati contenuti o di diversi editori. Il destino degli editori tradizionali è una questione molto meno importante rispetto al tipo di società informata che vogliamo creare e a quale sia il modo per costruirla.
Questo articolo, pubblicato sul sito della Columbia Journalism Review, è una versione leggermente rivista di un intervento tenuto da Emily Bell a Cambridge, dal titolo “La fine delle notizie come le conosciamo: come Facebook ha inghiottito il giornalismo”.