Forse non tutti sanno che…
Storie, voci, date e persone legate al «periodico che vanta innumerevoli tentativi di imitazione», uscito per la prima volta nel gennaio del 1932: la Settimana Enigmistica
di Giacomo Papi – @giacomopapi
La Settimana Enigmistica è una delle più antiche riviste italiane: Il primo numero arrivò in edicola il 23 gennaio 1932, quasi 85 anni fa, al prezzo di 50 centesimi di lira. La tiratura era di seimila copie, la testata praticamente identica a quella di oggi, la grafica appena più moderna: i quadretti neri del cruciverba in prima pagina formavano la faccia dell’attrice messicana Lupe Vélez (1908-1944), una sottigliezza grafica ripresa – come correttamente citato sotto lo schema – dal giornale di enigmistica austriaco Das Rätsel, a cui si era ispirato Giorgio Sisini, il fondatore. Questa impostazione grafica durò appena 19 numeri, fino al 28 maggio – attrice: Lillian Gish –, poi dal 4 giugno – attore: Maurice Chevalier – arrivò la foto in bianco e nero un po’ strana e cimiteriale che ancora oggi compare sulla copertina (e che la redazione, come ha enigmaticamente spiegato al Post, prende da «agenzie che ci mandano le foto»).
Un’altra idea ripresa pari pari da Das Rätsel e mantenuta da allora fu l’alternanza in copertina tra un uomo e una donna. L’1 orizzontale del primo numero annunciava l’equidistanza del giornale dai pruriti bellici del fascismo: 4 lettere, «Eroiche in guerra nefande in pace» (attenzione, spoiler: → Spie).
Il primo numero della “Settimana enigmistica”, 23 gennaio 1932 (tratta dal blog Pensiamoci)
Dal 1932 i numeri della Settimana Enigmistica sono progressivi, cioè non ricominciano ogni anno, ma si accumulano settimana dopo settimana, come quelli dei giochi, dei rebus e delle parole crociate: tutto quello che c’è all’interno del giornale – tranne le barzellette – è numerato in un inventario infinito. Uno degli ultimi numeri usciti – quello del 3 marzo 2016 – è il 4380, i giochi all’interno sono contati a partire dalle ultime due cifre: quindi, il primo cruciverba è l’8001, l’ultimo rebus il numero 80147, il che significa che ogni numero contiene circa 150 giochi. Qualche nuova rubrica è nata, ovviamente, qualcun’altra è morta, come «il tenero Giacomo», Der kleine Herr Jakob, che «rimandava all’ultima pagina» e che se ne è andato insieme al suo autore Hans Jürgen Press, nel 2002. Il linguaggio delle definizioni – nel primo numero si chiamavano «spiegazioni» – si è cautamente adeguato ai tempi, senza però che il cambiamento fosse mai davvero percepito.
L’immutabilità non è stata turbata neppure dal leggerissimo restyling del 1995 che ha cautamente introdotto il colore all’interno, mentre quello della testata in copertina comparve da subito. Nel corso di tutta la sua storia ormai quasi secolare – racconta il libro L’orizzonte verticale. Invenzione e storia del cruciverba di Stefano Bartezzaghi, che è il secondo figlio di Piero, la firma più importante del giornale, e il fratello di Alessandro, attuale condirettore – La Settimana Enigmistica ha ritardato soltanto due numeri, per motivi piuttosto seri: il 607 fu pubblicato il 4 settembre 1943, invece che il 21 agosto, e avvisava in prima pagina: «Le selvagge incursioni nemiche del 13 e del 16 agosto, che hanno devastato la nostra redazione e provocato danni gravissimi nella tipografia e nell’ufficio distribuzione, ci hanno impedito, ad onta di tutti i nostri sforzi, di pubblicare questo numero con la consueta regolarità»; il 694, che uscì il 14 luglio 1945, invece che il 28 aprile, chiariva con molto understatement: «Gli storici avvenimenti delle ultime settimane hanno impedito di pubblicare questo numero con la consueta regolarità». Da allora è sempre stata puntuale.
La natura della Settimana enigmistica è immutabile, al riparo dal tempo che corre. Anche per questo è così rilassante. Lo slogan al piede del decimo numero – attore: Willy Forst – diceva: «Questo giornale vi offre il più economico e dilettevole passatempo» (il più celebre «La rivista che vanta innumerevoli tentativi di imitazione!» sarebbe arrivato negli anni Quaranta: è tutt’oggi sui numeri pari, mentre sui dispari c’è: «La rivista di enigmistica prima per fondazione e per diffusione»). È un giornale conservatore, anche se non ha mai espresso un’opinione politica. Il rispetto delle forme e delle gerarchie riecheggia nelle dichiarazione discreta ma perentoria che ancora oggi sta a metà della colonna di destra dell’ultima pagina: «Periodico fondato e diretto per 41 anni dal Cavaliere del Lavoro Gr. Uff. Dott. Ing. Giorgio Sisini Conte di Sant’Andrea» (i 41 anni di direzione sono calcolati dal 1931, anno nella quale la Settimana Enigmistica venne stampata ma ancora non arrivò in edicola). Perché tutto rimanga immutato, però, è necessario che il mondo sia chiuso fuori. La redazione è da tempo immemorabile al 10 di piazza Cinque Giornate a Milano – alla fondazione stava in via Nöe 43 – in un grande edificio conosciuto come Palazzo Vittoria. Sul citofono non c’è scritto niente, e i due edicolanti della piazza, pure interrogati, sono colombiani e del giornale sanno solo che gli arriva per essere venduto insieme ai molti altri.
Se chiami in redazione una segretaria cortesissima ti passa il dottor Fortunato Oliviero (F.Oliviero, che firma a volte i cruciverba) che cortesissimamente ti spiega che la politica del giornale è di non concedere interviste a nessuno e non permettere visite di estranei, meno che mai di rivelare qualcosa su vendite, tiratura e fatturato. Neppure su quanti ci lavorano (ma dovrebbero essere una trentina). F. Oliviero sembra irremovibile, impermeabile a ogni insistenza, ma poi qualche parola cortesissimamemente la dice, e le sue sono le prime dichiarazioni pubbliche del giornale da decenni: «Le rivelo un segreto, se venisse rimarrebbe deluso, è un posto normalissimo». Chi ha avuto il privilegio di essere ammesso in redazione racconta che gli uffici sono su due piani, uno con redattori e creativi, l’altro con i disegnatori, e la circostanza è parzialmente confermata dal dottor Oliviero. Fino a qualche anno fa, in un terzo appartamento risiedeva anche un ramo della famiglia di Giorgio Sisini, fondatore, proprietario e storico direttore, ma da qualche anno – rivela Oliviero a denti stretti – i suoi discendenti si sono trasferiti altrove.
Ci sono pochi computer. Conferma Oliviero: «I computer vanno bene per rispondere alle mail e per le cose gestionali, ma questo è ancora un lavoro che si fa con la matita e la gomma». In redazione c’è un grande silenzio e ognuno svolge il proprio lavoro in solitudine. Almeno fino a qualche anno fa la posizione in organigramma si rispecchiava in una rigida definizione delle dimensioni delle scrivanie, della tipologia delle poltroncine, della presenza o assenza delle pedanine sotto i tavoli per appoggiare i piedi e delle piante ornamentali in vaso. Un ambiente più simile a un ufficio assicurativo, che alla redazione di un quotidiano. Se chiedi a Oliviero se ci sono mai state ristrutturazioni, risponde no, tutt’al più c’è qualche tinteggiatura. Conferma anche che i numeri vengono chiusi in redazione con alcuni mesi in anticipo, ma si rifiuta di dire quanti. Le foto del personaggio in copertina non vengono scelte in base agli eventi: attori o attrici non finiscono in copertina per avere vinto un Oscar o perché hanno un film uscita, ma così, con l’unico criterio del rispetto per la regola aurea dell’alternanza di genere. «Abbiamo alcune agenzie che ci mandano le foto» – a colori o già virate in bianco e nero? e chi è che fotografa in quel modo oggi? – «e noi poi scegliamo». A volte i personaggi che scegliete non sono molto conosciuti… «Ce lo scrivono anche i lettori», dice Oliviero, «ma noi spieghiamo loro che magari all’estero sono delle star».
Chi è stato nella redazione anni fa, ricorda sacchi e sacchi di lettere dei lettori. «Ne riceviamo ancora, ma per posta ne arrivano poche, ormai», dice Oliviero, «invece ricevo decine e decine di email al giorno». E cosa vi chiedono? «Propongono giochi o sciarade, noi non siamo giornalisti e abbiamo tutti incominciato mandando enigmi, giochi, vignette alla redazione, fino a diventare collaboratori e in alcuni casi redattori. Sa, il nostro è da sempre un giornale aperto al contributo dei lettori». Purtroppo di rubriche pagate, è rimasta solo «Domande bizzarre» (15 euro). Contestano, anche? «Abbiamo lettori molto precisi, anche se per noi la cura è importantissima. Ogni gioco viene visto da almeno dieci persone. Abbiamo una cura maniacale sui refusi e sugli errori che in un anno si contano sulle dita di una mano». Mi fa un esempio di contestazione? «Una delle più comuni è la capitale dell’Olanda. È Amsterdam, ma non si sa perché molti lettori sono convinti sia L’Aja, dove invece c’è la residenza della famiglia reale. Ricordo in particolare una signora che non si convinse, neppure quando glielo dimostrai carte alla mano. Era così determinata che si rivolse perfino all’Ambasciata d’Olanda. Soltanto a quel punto mi scrisse di nuovo per ammettere che avevo ragione». La verità alla fine trionfa sempre. Quali sono i numeri che vendono di più? «Non c’è una regola, ma le vendite aumentano d’estate, sa com’è, sotto l’ombrellone…». L’arrivo di Internet vi ha danneggiato? «Non nascondo che abbia avuto un impatto», dice Oliviero, «ma sicuramente meno che su altri giornali».
Il mistero più fitto è proprio questo: le vendite. La Settimana Enigmistica, infatti, non ha certificazione Ads, Agenzia Diffusione Stampa, la società che si occupa di calcolare distribuzione e tirature dei giornali. L’ultimo avvistamento – sostiene un informato articolo di Azienda edicola, un bimestrale per edicolanti – risale al maggio 2004 quando il Sole24ore parlò di 1.289.000 copie a settimana, una cifra molto alta anche per i tempi. L’articolo sostiene anche che sia l’unico giornale italiano che la Sodip, il più grande distributore indipendente, distribuisce in tutte le edicole, circa 30 mila. Una stima plausibile calcola una vendita dalle 600 mila alle 800 mila copie a settimana, che sono moltissime. Nonostante la sua impermeabilità al tempo, da un punto di vista strettamente editoriale, La Settimana enigmistica è sempre stata attenta e aggiornata sulle questione tecniche dell’editoria: il suo sito Aenigmatica esiste da quasi vent’anni, da prima cioè che i grandi editori italiani si accorgessero di Internet, ma non ha molte visite (1.130 al giorno secondo Whoismark). E non sembra un successo neppure la app. La forza del giornale – avere un pubblico molto legato alla carta – impedisce evidentemente grande sviluppo sul web e quindi, per rinnovarlo, bisogna rivolgersi ancora alla televisione, su cui il giornale fa pubblicità almeno dal 2010.
Giampaolo Dossena, il più grande conoscitore di giochi italiano, diceva che il successo della Settimana enigmistica era dovuto soprattutto alla densità del nero dei quadretti delle parole crociate, che nessun concorrente riusciva a avvicinare. Una leggenda – confermata da chi si è avvicinato al giornale – è quella secondo cui una delle date più significative nella storia della Settimana enigmistica fu quando si trovò un inchiostro capace di dare lo stesso nero con minore quantità, facendo risparmiare moltissimo. Almeno dagli anni Quaranta la strategia di Giorgio Sisini fu la completa autosufficienza editoriale. Acquistò una tipografia, una cartiera e stabilimenti per la produzione di inchiostro per non dipendere da nessuno: è una delle ragioni principali del mistero, dell’avere battuto la concorrenza e dei guadagni altissimi del giornale, che oggi grazie alla proprietà del Blocco enigmistico e Mondo Sudoku, controlla intorno al 70 per cento del mercato dell’enigmistica e ha un unico vero concorrente, per quanto lontano: la Domenica Quiz.
Secondo Il catalogo dei viventi di Giorgio Dell’Arti, La Settimana enigmistica dà 2 euro di guadagno per ogni 10 fatturati. Un video su YouTube – che ha come fonte il quotidiano economico Milano Finanza – attribuisce a Francesco Baggi Sisini – uno degli eredi e direttore del giornale dal 1988 – investimenti azionari per 64 milioni di euro e partecipazioni in Vittoria Assicurazioni, di cui è Direttore indipendente, Mi Industry Capital, Intek Group e Tamburi Investment Partners S.p.A (a cui Bloomberg aggiunge Cogedim SAS e Yam Invest N.V). Ma i guadagni maggiori, scrive Italia Oggi, arrivano ancora dal giornale: la Bresi – la società editrice della Settimana enigmistica di cui Baggi Sisini è amministratore unico – ha chiuso il 2013 con un utile di 10,2 milioni di euro, da aggiungersi a 9,2 di profitti accantonati e a 27,5 di liquidità, con un ricavo di 53,7 milioni. Il tutto considerando che la Settimana enigmistica non ha debiti con le banche ed è uno dei rarissimi giornali che non è finanziato con la pubblicità.
Di Francesco Baggi Sisini – a parte le cariche dichiarate nel 2010 – si sanno ancora meno cose che del suo giornale. È nato nel 1949, è vicepresidente del Museo Diocesano di Milano e della Fondazione Sant’Ambrogio per la Cultura Cristiana che gestisce il museo, da ragazzo è stato compagno di classe di Luigi Manconi al liceo classico, musicale e coreutico Domenico Alberto Azuni di Sassari (ma sfortunatamente Manconi non ricorda altro). Baggi Sisini è il nipote di Giorgio Sisini. Prese la direzione del giornale nel 1988, che dal 1972 – anno della morte del fondatore – era stata assunta da Raoul de Giusti, uno dei collaboratori più stretti dell’ingegnere. Da qualche anno Baggi Sisini è affiancato dal condirettore Alessandro Bartezzaghi, primogenito di Piero, il più grande cruciverbista della storia del settimanale. Tre direttori e mezzo in 85 anni.
Giorgio Sisini era nato nel 1901 a Sassari in una famiglia di proprietari terrieri. Il padre Francesco, anche lui ingegnere, era stato tra i fondatori del Rotary Club della città. Il necrologio apparso sul Corriere della sera il 23 giugno 1972 lo descrive come un «bell’uomo, alto, bruno, con baffi e sopracciglia foltissimi, sembrava un attore da film di avventure, una specie di texano del Mediterraneo». Si era laureato in ingegneria chimica a Pavia e aveva viaggiato in Europa. Intorno al 1930, mentre si trovava a Vienna, gli capitò tra le mani il settimanale di parole crociate Das Rätsel che pubblicava dal 1925 ed ebbe l’idea di rifarlo in Italia. Le parole crociate – o incrociate, l’esatta dicitura è ancora oggetto di dibattito – erano state inventate da Arthur Wynne, un giornalista di Liverpool emigrato in America, ed erano apparse per la prima volta il 21 dicembre 1913 sul supplemento Fun del New York World. «Tutto quello che ho fatto», avrebbe detto Wynne «è stato prendere un’idea vecchia come il linguaggio e renderla moderna introducendo le caselle nere». Il gioco aveva avuto successo, ma perché esplodesse la moda passò un decennio. Nel 1924 due giovani editori – Richard Simon e Lincoln Schuster – spronati da una zia ebbero l’idea di fare un libro di sole parole crociate che uscì il 10 aprile. Il successo del Cross Word Puzzle Book pubblicato con la sigla Plaza publishing fu talmente grande da fare nascere uno dei più grandi editori del mondo, Simon&Schuster, appunto.
Fu un boom epocale. Sui treni dei pendolari si faceva a gara a risolvere i cruciverba, che intanto diventavano sempre più precisi, codificavano un linguaggio e definizioni più enigmatiche o spiritose. Francis Scott Fitzgerald scrisse: «Dal 1927 divenne evidente la diffusione di una nevrosi, e la popolarità dei cruciverba ne era un vago sintomo, come il battere nervoso di un piede». Come sempre – riaccadde con i telefoni cellulari – ci fu chi previde sciagure. Scrive Bartezzaghi nel bellissimo L’orizzonte verticale: «Al cruciverba capitò lo stesso fenomeno che si sarebbe ripetuto per la maggior parte delle innovazioni mediatiche e delle mode di massa successive (basti pensare alla televisione): l’aumento di popolarità di un medium causa, oltre all’accelerazione del suo perfezionamento tecnico e all’apertura di sempre nuovi e più estesi canali di distribuzione, un dibattito che normalmente coinvolge soprattutto gli osservatori non implicati direttamente dal medium e che il più delle volte finisce per vertere sulla nocività del medium stesso». Nel dicembre 1924 il Times di Londra previde che la nuova moda americana avrebbe ucciso la conversazione e distrutto famiglie. «W. B. Barker, presidente della British Optical Association, mise in guardia contro le emicranie da stress oculare (…) dovute alle minime dimensioni tipografiche delle definizioni (…) raccomandando moderazione».
Nel giro di un decennio la nuova moda arrivò e attecchì in Europa, in Inghilterra, Francia, Austria. Il primo cruciverba italiano apparve l’8 febbraio del 1925, sulle pagine della Domenica del Corriere con il titolo L’indovinello delle parole incrociate. Achille Campanile scrisse: «Forse dipende dalla disoccupazione. Chi non trova un impiego ha pur bisogno di far lavorare il cervello». Nel 1932, come detto, nacque la Settimana enigmistica, «creatura che esce perfetta e immutabile dalla mente di Giorgio Sisini», avrebbe scritto Giampaolo Dossena. Fu un successo immediato e immediati furono i tentativi di imitazione. Alcuni – come «la Gazzetta enigmistica» – omaggiarono Mussolini e l’alleanza con Hitler. La settimana enigmistica no, manteneva già le distanze dalla storia. Eppure durante la guerra – quando gli approvvigionamenti scarseggiavano – il regime gli fece sempre arrivare la carta perché era l’unico passatempo dei soldati in trincea in Libia. Nel 1911 il 40 per cento degli italiani era analfabeta, percentuale che nel primo censimento del dopoguerra – 1951 – sarebbe stata del 14. Insieme ai quotidiani, ai fumetti, ai fotoromanzi e alla televisione – in particolare per i quiz di Mike Bongiorno – La settimana enigmistica rappresentò, cioè, uno dei grandi veicoli non solo dell’alfabetizzazione italiana, ma anche dell’acculturazione del Paese, dandogli una forma e fissando le nozioni di base.
Il 23 gennaio 1932 è una data palindroma – 23-1-32 – scorre cioè identica nei due sensi. Ci si può divertire a interpretare questa caratteristica come un presagio della sua immobilità. Ancora Stefano Bartezzaghi ricorda che sul numero 35 del 10 settembre 1932 c’è un gioco firmato Bruno Makain, «firma ancora presente sulle pagine della Settimana Enigmistica del 2007». All’interno, il giornale cambiava in modo invisibile, adeguandosi ai tempi, ma l’involucro rimase sempre inalterabile. La Susi, quella del Quesito che esordì nel 1952 e non si vede da un po’, con i suoi pantaloni Capri e la maglia parisienne a righe, è una spigliata ragazza degli anni Cinquanta. I cambiamenti sociali e tecnologici entrano anche nelle vignette, che potrebbero essere studiate come un archivio dei luoghi comuni più comuni di ogni decennio. Oppure nei rebus – citazione per Giancarlo Brighenti, il caporedattore e il più famoso autore di rebus del giornale, e per Brighella, sua moglie che li disegnava – dove spesso compaiono nomi famosi del periodo: SPEtTacolo con LucianA LittIZZETTO (Rebus 44132), o RETE SEgNATA da mARCO VAN bASTEn.
Ma il maggior responsabile dell’apertura della Settimana enigmistica alla modernità è stato sicuramente Pietro Bartezzaghi detto Piero, che per decenni è stato l’autore dell’ultimo cruciverba, il più difficile. Bartezzaghi incominciò a collaborare nel 1949, a 16 anni, e a lui Susini affidò il compito di modernizzare – con discrezione – il linguaggio dell’enigmistica. Nel dopoguerra le parole crociate erano diventate un passatempo di massa – le faceva Togliatti di nascosto ai congressi del PCI e c’è chi si ricorda intere domeniche passate da bambino a cancellare gli schemi già risolti in modo da riutilizzarli. Attraverso le definizioni di Bartezzaghi, nella Settimana enigmistica si infilarono parole straniere, marchi (Lucky Strike), sottilissime note politiche (In Italia non c’è più → re) e cose che accadevano in quel momento in Italia (Il sogno dei milanesi → metropolitana, N. 983, 27 gennaio 1951). Negli anni i suoi cruciverba a schema libero diventarono proverbiali, tanto che nel 1960 accettò di lasciare il suo impiego sicuro alla Montecatini per lavorare a tempo pieno alla Settimana enigmistica. La parola Bartezzaghi diventò sinonimo di impresa difficile, ma che si poteva affrontare. Nel 1989 il calciatore Eraldo Pecci commentò così il ritorno in Serie A del Bologna: «L’anno scorso abbiamo fatto benissimo le parole crociate facilitate e quelle un po’ più difficili. Quest’anno ci tocca fare il Bartezzaghi». Il 9 ottobre del 1989, a soli 55 anni, Piero Bartezzaghi morì, ma i suoi schemi uscirono fino all’agosto 1990, senza che sul giornale apparisse una riga. Dal numero dopo la sua firma – P. Bartezzaghi – fu sostituita da quella del figlio – A. Bartezzaghi.