Che cosa pensa Obama della Libia
Che è un "cazzo di casino" e che l'intervento militare del 2011 è stato un fallimento nonostante la sua amministrazione avesse fatto tutto giusto, ha detto all'Atlantic
Giovedì il sito della rivista statunitense Atlantic ha pubblicato un lungo articolo del noto giornalista Jeffrey Goldberg intitolato “La Dottrina di Obama”. L’articolo di Goldberg, che è un po’ racconto e un po’ intervista, mette insieme molte cose sulla politica estera di Barack Obama nel corso dei suoi due mandati presidenziali e prova a spiegare alcune delle decisioni più contestate della sua amministrazione. Si parla molto di Medio Oriente, come è facile immaginare, ma uno dei passaggi più significativi riguarda l’intervento militare americano in Libia nel 2011, quello che contribuì alla caduta del regime dell’ex presidente libico Muammar Gheddafi. In sintesi Obama ha detto a Goldberg: nonostante facemmo tutto giusto, la Libia oggi è un casino. Ci sono due governi – tre se si considera quello di unità nazionale che però ancora non funziona – centinaia di milizie armate e la base più importante dello Stato Islamico al di fuori dell’Iraq e della Siria.
I pensieri e i racconti di Obama sulla Libia sono interessanti per diverse ragioni: spiegano le divisioni interne alla sua amministrazione sugli interventi armati in Medio Oriente (e anche le differenze tra Obama e Hillary Clinton); raccontano un pezzo del complicato rapporto tra Stati Uniti ed Europa, soprattutto quando ci sono di mezzo questioni militari; e insegnano, se così si può dire, che anche quando si-fa-tutto-giusto il successo di una guerra non è garantito. Il racconto di Goldberg parte proprio dalle settimane precedenti l’inizio dei bombardamenti in Libia, nel marzo 2011. Bengasi, nel nord-ovest del paese, era diventato il centro della ribellione e le forze fedeli a Gheddafi si stavano preparando per attaccare la città. Gheddafi disse, riferendosi alla popolazione di Bengasi: «Li uccideremo tutti come topi».
Ma fu il fallimentare intervento della sua amministrazione in Libia nel 2011 a rendere irreversibile la visione fatalista di Obama. L’intervento avrebbe dovuto impedire all’ex dittatore libico Muammar Gheddafi di massacrare i cittadini di Bengasi, come aveva minacciato di fare. Obama non voleva farsi coinvolgere nella guerra: tra gli altri Joe Biden e Robert Gates, il segretario per la Difesa durante il primo mandato di Obama, gli avevano consigliato di tenersene alla larga. Ma una fazione molto forte che si era creata tra i suoi responsabili per la sicurezza nazionale – formata da Hillary Clinton (segretario di Stato), Susan Rice (ambasciatrice degli Stati Uniti all’ONU), Samantha Power, Ben Rhodes e Antony Blinken (il consigliere per la sicurezza nazionale di Biden) – fece molta pressione per chiedere la protezione di Bengasi, e alla fine ebbe la meglio. (Biden, che era molto critico della visione di Clinton in materia di politica estera, disse in privato: «A Hillary interessa soltanto essere come Golda Meir» [ex primo ministro d’Israele nota tra le altre cose per il suo carattere duro e risoluto, ndr]). Gli Stati Uniti bombardarono la Libia e il popolo di Bengasi fu salvato da quello che forse sarebbe stato un massacro, mentre Gheddafi fu catturato e giustiziato.
Parlando dell’intervento, Obama ha detto che «non funzionò», e ha sostenuto che la Libia è ancora oggi un disastro, nonostante gli Stati Uniti avessero pianificato scrupolosamente l’operazione militare.
Come hanno ricostruito successivamente diverse giornalisti e analisti, Obama era contrario all’intervento in Libia. Si fece convincere da alcuni suoi consiglieri – tra cui Hillary Clinton, allora segretario di Stato – e dalle pressioni degli alleati europei e arabi. Ci fu in particolare un incontro decisivo che convinse l’amministrazione Obama a intervenire: fu quello che si tenne a Parigi il 14 marzo 2011 tra Hillary Clinton e Mahmoud Jibril, l’allora leader dell’opposizione libica. Un assistente di Clinton disse poi, riferendosi alle convincenti risposte di Jibril: «Ci dissero tutto quello che volevamo sentire. E tutto quello a cui uno vuole credere». Obama era convinto al “51-49”, raccontò l’allora segretario della Difesa Robert Gates: fu la nuova convinzione di Clinton che gli fece superare i dubbi e decidere per l’intervento.
Per quale motivo allora Obama decise di seguire il consiglio dei suoi collaboratori più interventisti, vista la sua apparente riluttanza a un impegno militare in paesi in cui la sicurezza nazionale americana non è direttamente in pericolo?
«In Libia non esisteva più un ordine sociale», ha detto Obama per spiegare il suo pensiero di allora. «C’erano grandi proteste contro Gheddafi e divisioni tribali all’interno del paese. Bengasi era la roccaforte dell’opposizione al regime. Gheddafi stava mandando il suo esercito verso la città, e aveva promesso di uccidere il popolo di Bengasi “come topi”».
«La prima opzione era non fare niente e c’erano alcune persone nella mia amministrazione che dicevano che per quanto la situazione in Libia fosse tragica non era un nostro problema. Per come la vedevo io, sarebbe diventato un nostro problema se in Libia si fosse scatenato il caos e fosse cominciata una guerra civile. Tuttavia la Libia non era un interesse prioritario degli Stati Uniti tale da giustificare un attacco unilaterale contro il regime di Gheddafi. C’erano diversi paesi europei e paesi del Golfo che disprezzavano Gheddafi, o che erano preoccupati per la situazione umanitaria in Libia, che chiedevano un intervento. Ma quello che è diventato comune negli ultimi decenni è che le persone ci chiedono di intervenire, prima però di dimostrarsi per nulla disposte a fare qualsiasi sacrificio».
«Free riders?(scrocconi)» ho chiesto io.
«Free riders» ha risposto Obama.
In questo passaggio Obama descrive a Goldberg uno dei classici calcoli che un governo fa quando sta decidendo se e come intervenire militarmente in un altro paese: se siamo più di uno favorevole all’intervento, chi si prende la responsabilità di dire “andiamo”? Chi si mette alla guida della coalizione, cioè colui che prende più meriti in caso di successo ma paga un costo politico più alto in caso di fallimento? Nella guerra in Libia del 2011 c’erano altri stati disposti a intervenire – Francia e Regno Unito, tra i più insistenti – e per Obama era una buona notizia. Obama fu eletto presidente dopo una campagna elettorale in cui aveva promesso di finire le due lunghissime guerre iniziate dall’amministrazione precedente di George W. Bush, in Iraq e in Afghanistan. Per Obama non sarebbe stato possibile giustificare un intervento guidato dagli Stati Uniti in Libia, un paese che come lui stesso ha detto non era di interesse prioritario degli americani.
Obama ha parlato anche di “free riders”, un termine che in economia indica quegli individui che beneficiano di risorse, beni o servizi senza pagare per riceverli: si è riferito a coloro che nel dibattito politico americano sostengono l’intervento militare – che sia per presunti scopi umanitari o per motivi legati alla sicurezza nazionale – per ottenere consensi, senza però essere poi disposti a fare dei sacrifici per raggiungere l’obiettivo. Potrebbe anche essersi riferito ad alcuni alleati degli Stati Uniti, come sembra suggerire in un passaggio successivo (ci arriviamo).
«A quel punto dissi che gli Stati Uniti sarebbero dovuti intervenire all’interno di una coalizione internazionale. Ma del momento che la Libia non era un nostro interesse prioritario, ci serviva un mandato dell’ONU. I paesi europei e quelli del Golfo dovevano avere una parte attiva nella coalizione. Avremmo messo in campo le nostre capacità militari uniche, ma ci aspettavamo che anche gli altri paesi facessero la loro parte.
Lavorammo con i nostri collaboratori della Difesa per fare in modo di potere avere una strategia che non comportasse un intervento di terra e un impegno a lungo termine in Libia. Il piano andò secondo le aspettative: ottenemmo un mandato dell’ONU, formammo una coalizione, e l’intervento ci costò un miliardo di dollari, una cifra molto bassa per un’operazione militare. Evitammo un grande numero di morti e feriti civili e quella che quasi sicuramente sarebbe stata una guerra civile lunga e sanguinosa. E nonostante tutto questo, la Libia è ancora un disastro».
Obama riassume in poche frasi cosa significa oggi intervenire in una guerra facendo-tutto-giusto. Da diversi anni nel dibattito pubblico delle democrazie occidentali non si valuta più solo se una guerra sia giusta o meno (cioè se sia combattuta per motivi che ciascuno ritiene validi): si è anche cominciato a giudicare il modo in cui la guerra viene iniziata. Se c’è il mandato dell’ONU è una cosa buona, se non c’è il mandato dell’ONU è un intervento arrogante e imperialista della potenza di turno (spesso ci si dimentica però che l’ONU può autorizzare l’uso della forza solo attraverso il suo Consiglio di Sicurezza, nel quale ci sono cinque membri permanenti che hanno il potere di veto: Stati Uniti e Russia non sono d’accordo su moltissime cose, che c’entrano più con i rispettivi interessi nazionali che con il presunto carattere imperialista di una guerra). Nel caso libico il mandato dell’ONU c’era: c’era una stima di spesa molto bassa e anche una strategia che non comportava l’uso delle truppe di terra, che avrebbe ricordato troppo le guerre americane in Iraq e in Afghanistan.
Per certi versi un ragionamento simile si può fare per quello che sta succedendo oggi in Libia. Almeno tre paesi europei – Francia, Regno Unito e Italia – hanno già in territorio libico delle forze speciali incaricate di raccogliere informazioni sullo Stato Islamico e mappare le reti di contatti dei leader del gruppo. Nonostante si discuta da mesi dell’urgenza di fare-qualcosa per fermare l’espansione dello Stato Islamico in Libia – un paese da cui tra le altre cose passa buona parte del flusso migratorio verso l’Europa – per ora è rimasto tutto fermo: i governi occidentali, tra cui quello italiano, vogliono che un eventuale intervento internazionale sia chiesto dal nuovo governo di unità nazionale libico, che però non ha ancora cominciato a funzionare. Che un governo legittimo chieda un intervento militare esterno viene considerata una cosa buona e con costi politici minori anche in caso di fallimento (“ce l’hanno chiesto loro!”).
“Disastro” è il termine diplomatico: in privato Obama definisce la situazione in Libia «un cazzo di casino», in parte perché la Libia poi è diventata una base dello Stato Islamico, che qui è già stato colpito dai bombardamenti americani. Le ragioni per cui la Libia è diventata per Obama un “cazzo di casino” non hanno a che vedere tanto con l’incompetenza americana, quanto con la passività degli alleati degli Stati Uniti e con l’inscalfibile potere delle tribù libiche.
«Quando ci ripenso e mi chiedo cosa sia andato storto», ha detto Obama, «credo ci sia motivo per essere critici: credevo che l’Europa, data la vicinanza con la Libia, sarebbe stata più coinvolta nella gestione della situazione dopo il conflitto». Obama ha sottolineato come il presidente francese Nicolas Sarkozy terminò l’incarico l’anno successivo, e che il primo ministro britannico David Cameron smise presto di interessarsi alla Libia, «distratto da una serie di altre faccende». Sulla Francia Obama ha detto che «Sarkozy voleva sbandierare la presenza francese negli attacchi aerei: ma eravamo stati noi a eliminare le difese aeree libiche e predisporre l’intera infrastruttura» per l’intervento. Obama assecondò di buon grado il desiderio di mettersi in mostra dei francesi, perché permetteva agli Stati Uniti di «avere un coinvolgimento da parte della Francia che comportava minor costi e rischi per noi».
In altre parole per gli Stati Uniti dare alla Francia parte del merito dell’operazione in cambio di minori rischi e costi più bassi era un buon compromesso, «se non fosse che la cosa fu terribile dal punto di vista di molte persone che si occupavano di politica estera all’interno della classe dirigente americana: se gli Stati Uniti dovevano intervenire ovviamente dovevamo essere in prima linea e non condividere le luci dei riflettori con nessun altro».
Obama attribuisce la colpa della situazione in Libia anche alle dinamiche interne al paese: «Le divisioni tribali in Libia erano più profonde di quanto i nostri analisti si aspettassero, e la nostra capacità di mettere in piedi il tipo di struttura necessaria per poter interagire, fornire addestramento e risorse fu compromessa molto rapidamente». Per Obama la Libia rappresentò la dimostrazione che la sua decisione di rimanere fuori dal Medio Oriente era giusta: «Non dovremmo assolutamente impegnarci per cercare di gestire il Medio Oriente o il Nord Africa», ha detto Obama di recente a un suo ex collega senatore, «Sarebbe un chiaro errore».
Nel suo ultimo passaggio sulla Libia, Obama dice di essersi aspettato un impegno diverso dai paesi europei nella fase successiva alla fine della guerra, e parla in particolare della Francia accusandola implicitamente di essere uno dei “free riders” citati sopra. Ci sono state sicuramente altre cose che sono andate storte: una delle più rilevanti è quella che Obama definisce “l’inscalfibile potere delle tribù libiche”. Già nei giorni successivi all’uccisione di Gheddafi, alcuni funzionari americani capirono che le cose si stavano mettendo male. Diversi leader libici della rivolta con cui gli occidentali avevano parlato fino a quel momento furono uccisi o marginalizzati: lo stesso Mahmoud Jibril, quello che convinse Clinton a intervenire in Libia nell’incontro a Parigi, fu nominato primo ministro ad interim ma di fatto cominciò a fare il pendolare dalla Libia al Qatar. Gli islamisti iniziarono a muoversi in maniera sempre più aggressiva per conquistare il potere, finanziati anche da alcuni paesi della coalizione anti-Gheddafi, come il Qatar; le milizie armate che avevano combattuto sul fronte ribelli si rifiutarono di deporre le armi. Nessuno nell’amministrazione di Obama aveva previsto il disastro che sarebbe poi successo in Libia: se Jibril e i suoi collaboratori lo sospettavano – scrisse allora Jeffrey D. Feltman, importante funzionario esperto di Medio Oriente del dipartimento di Stato – non lo vollero dire agli americani.