Storia di un ragazzo arrestato al Cairo
Non è Giulio Regeni, ma la storia gli somiglia molto: un altro italiano più fortunato di lui ha raccontato la sua esperienza a Vice
Vice News ha pubblicato il racconto di un trentenne italiano che lo scorso luglio è stato arrestato al Cairo, in Egitto, detenuto con un pretesto in condizioni terribili e liberato solo grazie al lavoro dell’ambasciata italiana e la generosità di alcuni compagni di prigionia. La sua storia – pubblicata in forma anonima, dice Vice, per evitare ritorsioni – somiglia a quella del ricercatore italiano Giulio Regeni, tranne che per l’epilogo: Regeni è stato trovato morto con evidenti segni di torture dopo giorni in cui nessuno aveva sue notizie, e le inchieste sul ruolo delle autorità egiziane nel suo arresto e nella sua detenzione sono state fin qui molto complicate.
È cominciato tutto il 6 luglio 2015, tempo di Ramadan.
Sto camminando verso casa. È da poco finito l’iftar, la cena che scandisce la fine del digiuno. Le strade sono semideserte. A un tratto, vengo avvicinato da due agenti in borghese: “Documenti!”
In passato mi è già capitato di essere fermato in prossimità dei posti di blocco, ma mai da due poliziotti senza uniforme né distintivo. Di fronte alle intimidazioni, prendo la patente di guida dalla mia borsa — è pericoloso girare per il Cairo con il passaporto, e la patente mi ha sempre tirato fuori dagli impicci.
Stavolta però non basta, vogliono il passaporto. Cerco di convincerli a lasciarmi andare, con la promessa di presentarmi in commissariato il giorno successivo. I due agenti, però, sono determinati a portarmi in questura.
Tento di incrociare lo sguardo con quello dei pochi passanti. Inutile. Non so cosa fare. Urlo, ma nessuno cerca di aiutarmi. Mi rifiuto di seguirli, e a quel punto arrivano altri due uomini — che mi afferrano e mi scaraventano di peso su un minibus scalcinato.
Mentre il pulmino sfreccia, chiedo di poter chiamare l’ambasciata. Per tutta risposta, mi strappano la borsa di dosso e mi ammanettano. Arriviamo a Piazza Tahrir, davanti al mastodontico palazzo amministrativo del Mogamma, famoso per le sue trafile burocratiche e simbolo dell’onnisciente deep state, alla guida del paese da decenni.
Mentre mi domando il perché di questa sosta, e intanto continuo a urlare, vengo trascinato giù dal pulmino, dentro l’edificio. Mi sbattono con forza dentro l’ascensore.