Cosa vuol dire essere la madre di uno degli assassini della strage di Columbine
Sue Klebold racconta cosa è diventata la sua vita dopo la strage alla Columbine High School del 1999
di Karen Heller – Washington Post
Il terrore e lo sconcerto sono insopportabili. Il dolore di perdere un figlio, la vergogna per ciò che ha fatto, la paura dell’odio del mondo. L’agonia non conosce tregua.
Immaginate la cosa peggiore che possa accadere a un genitore: Sue Klebold ha vissuto molto di peggio. Negli Stati Uniti il cognome Klebold è diventato sinonimo della strage del 1999 tanto quanto la Columbine High School e il quartiere Littleton di Denver in Colorado, quando suo figlio Dylan e il suo amico Eric Harris uccisero 12 studenti e un insegnante e ferirono altre 24 persone, mettendo in pratica un piano che avevano progettato di nascosto da tutti per un anno. Mentre le altre madri speravano che i loro figli non venissero uccisi quel giorno di aprile di 17 anni fa, Sue Klebold ricorda che «la misericordia più grande per cui potevo pregare non era la sicurezza di mio figlio, ma la sua morte». Poco dopo mezzogiorno i due ragazzi si suicidarono nella biblioteca della scuola. Il giorno dopo Klebold scrisse nel suo diario le parole citate all’inizio dell’articolo.
Sue Klebold ha pubblicato di recente il libro A Mother’s Reckoning: Living in the Aftermath of Tragedy (che in Italia uscirà il 19 aprile per Sperling & Kupfer con il titolo Mio figlio), che raccoglie anche quel diario e i 39 successivi scritti da Klebold, e dove viene raccontata la sua vita dopo la morte del figlio maggiore. Klebold dice di aver sempre saputo che avrebbe scritto il libro: «la decisione difficile è stata pubblicarlo». Tutti i proventi del libro saranno devoluti a organizzazioni per la salute mentale e la prevenzione del suicidio, che rappresentano la nuova comunità di Sue Klebold. Il libro è un racconto di puro terrore, disperazione e mistero: non perché Dylan fosse un mostro, ma proprio perché era come molti adolescenti, riservato e allo stesso tempo affettuoso, capace apparentemente di mascherare le sue tendenze suicide e la sua forte depressione dai suoi genitori, amici e insegnanti. Non corrispondeva al modello del ragazzo escluso, solitario e violento. Il massacro è avvenuto tre giorni dopo che Dylan era andato al ballo della scuola. Poco prima aveva visitato la University of Arizona, dove avrebbe dovuto iscriversi dopo il diploma. O così almeno credevano i suoi genitori.
Sua madre ha trovato dei modi nuovi per gestire una situazione che pochi genitori hanno dovuto affrontare. «Alla fine fai in modo che la tua testa ti faccia accettare l’inaccettabile», ha raccontato la 66enne Sue Klebold in una camera d’albergo nel quartiere di Midtown Manhattan a New York, mentre reggeva una grande tazza di caffè da cui beveva ogni tanto. Klebold è alta, magra e aggraziata, mantiene il contatto visivo mentre parla, sorride spesso e porta scarpe comode. È cortese, estroversa, rispettosa e, per sua stessa ammissione, «una persona profondamente onesta, a volte troppo». Sue Klebold aveva bisogno di sapere la verità su suo figlio, anche se non avrebbe mai potuto conoscerla tutta. Ma per quale motivo ha voluto tornare sull’incubo dopo così tanti anni? «Non credo di poterlo controllare: se sono al supermercato, se vedo i figli di altre persone, penso sempre ai morti, a quei ragazzi uccisi, e all’insegnante», ha detto con voce calma, «per me è sempre molto difficile sentire nominare i morti e le loro famiglie. Ho una reazione così forte perché provo un senso di orrore, vergogna e angoscia per quello che ha fatto Dylan». Sue Klebold non ha mai provato rabbia verso Dylan, tranne quando ha visto quelle che chiama “le registrazioni del seminterrato”, i video pieni di odio che i due studenti registrarono nella camera di Harris prima della strage. «So solo che sto andando in un posto migliore», dice Dylan con voce tranquilla in uno dei video, «la vita non mi piaceva molto».
I suoi genitori erano all’oscuro di tutto. Quello non era il figlio che conoscevano. Sue Klebold nel suo libro scrive che «subito dopo la tragedia non piangemmo solo la morte di Dylan ma anche quella della sua vera identità, e la nostra». In una copertina dedicata a Harris e Klebold, la rivista Time pubblicò una foto che mostra un Dylan sorridente – una delle preferite di sua madre – con il titolo “I mostri della porta accanto“. Klebold pensava di conoscere suo figlio e di essergli vicino, ma scoprì che i suoi ultimi due anni furono pieni di rabbia e depressione. «Una della peculiarità degli omicidi-suicidi è che i responsabili non sono mai considerati delle vittime», ha detto Klebold, «io credo che Dylan fosse vittima di qualsiasi cosa avesse in testa».
Il libro ripercorre l’orrore del periodo successivo alla strage, giorni così scioccanti e pieni di rivelazioni che la prima metà del libro copre a malapena un arco di sei mesi. I Klebold amavano la loro casa, ma furono costretti ad abbandonarla per diversi giorni mentre una squadra dell’unità speciale della polizia americana la perquisiva in cerca di prove. Una volta tornati, la casa era diventata una specie di prigione: per evitare che i giornalisti sbirciassero i Klebold dovettero coprire le grandi finestre con della carta di giornale, ostruendo la vista delle montagne. Prima ancora di chiamare le pompe funebri, i Klebold assunsero un avvocato che li avvertì: «Ci sarà una tempesta d’odio contro la vostra famiglia». Ci sono voluti quattro anni per risolvere le 36 cause intentate contro i Klebold. I parenti della famiglia ricevettero minacce di morte e anche i piccoli gesti di generosità erano visti con sospetto: quando degli sconosciuti mandavano per esempio cibo all’ufficio di Tom Klebold in segno di conforto, il cibo veniva rifiutato per paura che fosse avvelenato. Dylan non fu seppellito per il rischio di vandalismo, e il suo corpo fu cremato.
La cosa strana è che Dylan era cresciuto in una casa senza armi. Sue Klebold e suo marito erano «fermamente contrari alle armi». Presero ispirazione dalla letteratura per i nomi dei figli: Tom, un agente immobiliare, e la moglie Sue, che iniziò poi a lavorare come consulente per gli studenti in un’università pubblica, chiamarono i loro figli come due poeti: Byron il più grande, come Lord Byron, e Dylan da Dylan Thomas. Il soprannome di Dylan era “luce del sole”, per i suoi capelli dorati e perché «tutto gli riusciva semplice». A Sue l’amicizia di suo figlio Dylan con Harris non piaceva. Quando erano al terzo anno i due furono scoperti a rubare attrezzatura elettronica e dovettero frequentare un programma di assistenza per evitare accuse penali. Sue Klebold credette che Dylan stesse tornando a rigare dritto: aveva concluso il programma in anticipo per buona condotta e non aveva creato problemi durante il quarto anno. Fino al 20 aprile.
Anche se le famiglie dei due ragazzi non erano amiche, a Sue Klebold invece gli Harris piacevano. «Voglio proteggere la loro privacy», ha detto Klebold. «Nel corso degli anni ci siamo sentiti». Un mese dopo la strage Sue Klebold scrisse una lettera di condoglianze a tutte le famiglie dei morti: ci volle un intero mese per scrivere a tutti. Ricevette due risposte, una dalla sorella di uno dei morti, che diceva di non ritenere responsabile la famiglia di Klebold, e l’altra, undici mesi dopo, dal padre di un ragazzo ucciso, che si dimostrò comprensivo e offrì il suo aiuto. Anni dopo, dopo la risoluzione delle cause legali, i Klebold incontrarono i genitori di tre dei ragazzi morti. Nel suo libro Sue Klebold ha raccontato uno degli incontri: «Abbiamo pianto, condiviso foto e parlato dei nostri figli. Quando ci siamo salutati, ha detto che non ci riteneva responsabili». Ma non tutti la pensarono così. Una delle molte speranze di Sue Klebold per il suo libro è che «in casi come questi le persone non saltino subito alla conclusione che i responsabili fossero cattivi, o che non siano stati cresciuti nel modo giusto».
Sue Klebold pensò di cambiare cognome e di trasferirsi da un’altra parte. «Capii molto in fretta che è una cosa da cui non si può scappare», e che andandosene avrebbe perso il gruppo di amici che la sosteneva. Pensò a suicidarsi. Una volta Tom le disse che avrebbe voluto che Dylan avesse ucciso anche loro, un pensiero che «tornava spesso». Quando a Sue fu diagnosticato un tumore al seno, due anni dopo la strage, le sembrò quasi uno scherzo.
Le azioni di Dylan hanno determinato la vita e la missione di Sue: incontrare le famiglie delle persone che si erano suicidate o avevano ucciso qualcuno, e occuparsi di salute mentale. «La maggior parte delle persone che hanno vissuto un episodio del genere in famiglia, odiano ciò che quella persona ha fatto e ne sono umiliati», ha detto Sue. «Queste persone vogliono solo vivere la loro vita in modo riservato. Quasi tutte le persone con cui ho parlato si sentono così. La mia scelta è un’anomalia».
Nella maggior parte delle persone rientrano anche l’altro figlio di Sue, Byron, che oggi ha 37 anni, e suo marito Tom, da cui ha divorziato nel 2014. «Sembrava fossimo su due livelli diversi», ha raccontato Sue, «non avevamo niente in comune, oltre alla tragedia che avevamo condiviso. Ma non la vivevamo più allo stesso modo, avevamo elaborato la cosa in modo diverso». La pubblicazione del libro mette Tom e Byron «a disagio», ha raccontato Sue, «ma non hanno mai provato a fermarmi, il che è fantastico per me. Li amo per questo». «Sue è stata chiarissima sull’obiettivo del libro. Qualsiasi cosa possa fare per impedire a qualcuno di fare una cosa del genere, per aiutare i genitori in qualsiasi modo, farà sì che la tragedia sia servita a qualcosa», ha detto Roger Scholl, il suo editor della casa editrice Crown. «È il vostro incubo peggiore. Rendersi conto di non sapere cosa pensano i vostri figli adolescenti, e che potreste non sapere se sono nei guai». È questo il messaggio del libro: l’ammissione del suo rifiuto della verità, la ricerca di indizi e conoscenza. All’inizio «quando perdi una persona amata ti senti una vittima: è una cosa che ti è capitata, e ti senti inerme e confusa». Poi «ci si sente come una sopravvissuta» e «i sopravvissuti si mettono in contatto tra loro, creano gruppi di sostegno, si uniscono e condividono le loro sensazioni. E poi, dopo un po’ di tempo, diventano sostenitori di una causa. Vogliamo solo fare la differenza, migliorare le cose».
Sue Klebold sa che le sue rivelazioni potrebbero essere dolorose: «Ho paura che pubblicando il libro farò rivivere il trauma alle persone», ha detto Sue, mentre le sue lunghe dita si stringevano intorno alla tazza ancora piena. «Ho preso in considerazione anche l’alternativa di non fare niente». Ma non era possibile: «Non avrei seguito la mia missione nella vita: condividere quello che so», ha detto Sue, «conoscere la mia storia potrebbe aiutare chi è in difficoltà». Ora la sua storia è di dominio pubblico: un po’ di luce su un inferno privato.
© 2016 – Washington Post