Come ha fatto Trump a diventare Trump
La storia della sua carriera da imprenditore: ha costruito un impero ma non si è “fatto da solo”, e ha alle spalle una lunga serie di fallimenti
di Ana Swanson – Washington Post
Durante la campagna elettorale per le primarie americane si è detto molto sulla carriera imprenditoriale di Donald Trump: si è parlato delle sue dichiarazioni molto teatrali, del suo successo, e anche dei duri attacchi contro di lui fatti da Marco Rubio durante il dibattito Repubblicano di giovedì 25 febbraio. Alcune domande però rimangono: Trump è davvero un gigante dell’economia americana, un modello di successo imprenditoriale e un uomo che si è fatto da solo? O è una star da reality show che si è divertita per tutta la carriera a giocare con le imprese costruite con soldi ereditati mentre continuava a rincorrere la fama? Sembra che la verità stia nel mezzo. Le sue decisioni imprenditoriali dimostrano che Trump è un mix di spacconeria, fallimenti e successo reale.
Trump si è cimentato in ogni settore: da quello immobiliare alle bistecche, passando per casinò e reginette di bellezza, ed è stato dirigente di oltre 500 aziende. Eppure Trump ha costruito sul suo successo una storia di esagerazioni. «Gioco con le fantasie delle persone», scrisse nel suo libro del 1989 Trump: l’Arte di Fare Affari: «La chiamo iperbole reale. Una forma innocente di esagerazione e un modo molto efficace di farsi promozione». Visto le molti “iperboli reali” sul conto di Trump, che rendono difficile capire a cosa credere, abbiamo messo insieme le cinque cose più importanti da sapere sulla carriera imprenditoriale di Trump.
1) Trump ha talento nel settore immobiliare, ma non sempre ha avuto successo in altri settori
La fortunata carriera di Trump in campo immobiliare dura da oltre 45 anni. Trump ha costruito edifici simbolo come le Trump Tower sulla fifth avenue di Manhattan e a Chicago, e il Mar-a-Lago, un club privato a Palm Beach in Florida. La Trump Organization è proprietaria di diversi palazzi, hotel e campi da golf in tutto il mondo. Eppure le sue imprese immobiliari non hanno lo strapotere che Trump vorrebbe farci credere. Nonostante abbia la fama di essere un magnate nel settore a New York, Trump non rientra nella lista dei primi dieci imprenditori immobiliari della città.
Se da una parte le sue attività di compravendita di hotel e campi da golf nel mondo sembrino avere successo (le aziende di Trump non sono quotate in borsa, e quindi non ci sono molte informazioni disponibili), le sue operazioni con i casinò, le compagnie aeree, il football professionistico e altri settori sono finite male. I casinò di Trump, che hanno generato i fallimenti che i suoi avversari politici usano per attaccarlo, sono probabilmente il suo fiasco più noto. Nonostante Trump dipinga questi fallimenti controllati come un buon affare che gli ha permesso di uscire dal settore in crisi di Atlantic City con tempismo strategico, la procedura fallimentare del 1991 gli è quasi costata gran parte della sua fortuna personale. Come scrissero Drew Harwell e Jacob Bogage per il Washington Post, Trump fu costretto a investire soldi suoi nelle aziende in difficoltà, a vendere il suo yacht e la sua compagnia aerea, a cedere gran parte delle sue quote di partecipazione e a rinunciare a posizioni importanti, arrivando persino a porre un limite alla sua spesa personale.
Quando oggi parla di questi fallimenti, Trump sostiene che ci abbiano rimesso solo grandi aziende che facevano operazioni spericolate e squali della finanza. Trump dice di aver fondato centinaia di aziende e di essere ricorso alla procedura fallimentare solo quattro volte, sottolineando come la maggior parte degli imprenditori che hanno investito in Atlantic City abbiano perso soldi. «Quasi ogni hotel ad Atlantic City è fallito o fallirà», ha detto Trump durante il terzo dibattito Repubblicano. Secondo Michael D’Antonio, che ha scritto di recente una biografia di Trump, il suo è un giudizio parziale. «Molte persone che non erano ricche hanno perso soldi a causa di quei fallimenti», ha detto D’Antonio: «Chiunque abbia investito in un fondo obbligazionario o abbia acquistato titoli collegati ai suoi casinò ha perso soldi». Secondo il New York Times, le banche di Wall Street sono restie a lavorare con Trump a causa dei suoi precedenti fallimenti e il suo carattere litigioso. La Commissione elettorale federale degli Stati Uniti – l’agenzia indipendente americana che regola i finanziamenti alle campagne elettorali – ha rivelato che 15 aziende associate a Trump hanno un debito complessivo con le banche di oltre 270 milioni di dollari. Trump risponde a queste critiche dicendo che non si appoggia a Wall Street perché non ha bisogno di soldi: è abbastanza ricco da potersi finanziare da solo.
Anche l’incursione di Trump nel mondo del football professionistico negli anni Ottanta è una storia lunga e controversa. Nel 1984 Trump acquistò i New Jersey Generals, una squadra del campionato di football nascente chiamato United States Football League (USFL), che ebbe vita breve e le cui partite si giocavano in primavera dopo il Super Bowl. Secondo la ricostruzione del giornalista del New York Times Joe Nocera, l’obiettivo di Trump era far sì che la United States Football League fosse assorbita dalla National Football League (NFL, il principale campionato di football americano), come era successo con l’American Football League nel 1996. Trump fu tra i principali sostenitori dello spostamento delle partite del campionato dalla primavera all’autunno, in modo che si giocassero in contemporanea con quelle della NFL. Invece di fondersi con la NFL, la USFL fu semplicemente un fiasco.
«Credo che Trump sia molto bravo in campo immobiliare, ma non in altri settori», ha detto D’Antonio: «ha provato a gestire una compagnia aerea e ha fallito. Ha provato con i casinò e ha fallito quattro volte. Non ha dato prova di essere un mago nel gestire un’attività complessa». Trump ha ammesso che le sue operazioni tendono a stufarlo facilmente: «Le stesse attività che mi entusiasmo a inseguire spesso mi stufano una volta acquisite», ha scritto Trump in uno dei suoi libri. «Per me la cosa importante è la ricerca, non la proprietà».
2) Trump non si è fatto da solo
Stando a uno dei principali attacchi di Marco Rubio durante il dibattito della settimana scorsa, se Trump non avesse ereditato 200 milioni di dollari da suo padre ora starebbe «vendendo orologi» per le strade di Manhattan. La cifra citata da Rubio è sbagliata – 200 milioni è la fortuna stimata del padre di Trump negli anni Settanta, e non la sua eredità – ma Trump ha sicuramente approfittato della ricchezza e dei contatti del padre, Fred Trump.
Negli anni Settanta Fred Trump era una delle persone più ricche negli Stati Uniti. Creò un impero immobiliare costruendo appartamenti per il ceto medio nei quartieri di Brooklyn, Queens e Staten Island a New York dopo la Seconda guerra mondiale. Dopo essersi laureato nel 1968 alla Wharton School della University of Pennsylvania, Donald Trump entrò nell’azienda del padre per poi rilevarla nel 1971. Incrementò il successo del padre sfruttando capitale ottenuto con leve finanziarie, per investire in imprese ad alto rischio che si rivelarono scelte azzeccate: l’hotel Grand Hyatt sulla 42esima strada est, la Trump Tower in fifth avenue e Trump Plaza sulla 61esima e la third avenue.
Ma la cosa di cui Trump beneficiò di più fu soprattutto la credibilità del padre per ottenere credito. Ha detto D’Antonio: «Quando decise di fondare le sue aziende Trump poteva contare sul credito del padre, che ammontava a decine di milioni di dollari». Tuttavia ci sono ancora dei dubbi sulla ricchezza accumulata da Trump. Nell’ultimo dibattito Trump ha detto di aver trasformato un prestito di un milione di dollari da parte del padre in dieci miliardi. Secondo il fact-checking del Washington Post, nessuna delle due cifre è precisa. Il prestito di un milione di dollari non comprende i vantaggi che Trump ha ottenuto grazie ai contatti della sua famiglia ed entrando nell’impresa immobiliare del padre dopo la laurea; e nemmeno l’eredità stimata di 40 milioni di dollari ricevuta nel 1974. A Trump vengono contestati anche i dieci miliardi di dollari, la cifra che sostiene rappresenti il suo attuale patrimonio netto. Secondo Bloomberg News il patrimonio netto di Trump ammonterebbe solo a 2,9 miliardi di dollari, mentre per Forbes sarebbe di 4,1 miliardi. Dal momento che le aziende di Trump non sono quotate la cifra esatta non è nota. Come ha scritto il giornalista del Washington Post Max Ehrenfreund, anche se Trump dispone di miliardi di dollari ci sono dubbi che questa ricchezza rifletta il suo acume imprenditoriale. Nel 1978 Business Week stimò il patrimonio netto di Trump in 100 milioni di dollari. Se Trump avesse semplicemente messo quei soldi in un fondo indicizzato dell’indice Standard & Poor 500 – che molti americani usano per far fruttare i loro risparmi in vista della pensione – oggi sarebbero sei miliardi di dollari.
3) Tutto quello che Trump tocca diventa… Trump
Trump è una specie di re Mida: molte delle aziende con cui entra in contatto finiscono per prendere il suo cognome, spesso scritto a caratteri cubitali dorati. Secondo un documento presentato alla Commissione elettorale federale americana, delle 515 aziende di cui Trump fa parte 269 portano il suo cognome. Tuttavia non tutti gli edifici che si fregiano del nome di Trump sono di sua proprietà: in molti casi Trump ha soltanto concesso ad altri imprenditori immobiliari una licenza per sfruttare il suo nome. Secondo D’Antonio questa strategia di promozione del “marchio” e franchising è più tipica di un atleta professionista che di un imprenditore. «Donald è stato bravissimo a trasformarsi in un marchio ambulante, e ha iniziato molto presto a farlo», ha detto D’Antonio. L’inclinazione di Trump a sfruttare il suo nome si è dimostrata una strategia di marketing azzeccata, ma sembra soddisfare anche un più profondo desiderio di fama e successo.
Oltre agli hotel e i casinò, il marchio Trump comprende anche bistecche (create per il catalogo di Sharper Image, una catena americana che vende articoli per la casa e prodotti hi-tech: queste bistecche vengono servite ancora nei ristoranti degli hotel di Trump), un gioco da tavolo, una rivista e una compagnia aerea che non esistono più, e la linea di camicie e cravatte Donald J. Trump Signature Collection. Trump ha messo il suo nome su un’acqua naturale, bevande energetiche israeliane, un’acqua di colonia, un vino della Virginia, vodka e mobili, «in pratica qualsiasi cosa possa essere venduta come un prodotto di alta qualità, ad alto costo e di alta classe», scrive D’Antonio.
Fa parte della famiglia del marchio Trump anche la controversa Trump University, che è stata al centro di dure critiche da parte dei suoi rivali politici. Come ha scritto la giornalista del Washington Post Emma Brown, la Trump University non era un’università ma una serie di seminari motivazionali e consigli sul settore immobiliare tenuti in sale d’albergo a partire dal 2004. Gli studenti della Trump University pagarono diverse migliaia di dollari per un corso di tre giorni, e fino a 35mila dollari per dei pacchetti di consulenze e seminari più ampi. Diverse persone credettero che alcuni dei seminari sarebbero stati tenuti da Trump stesso, ma la cosa più vicina che ottennero fu un cartonato di Trump con cui farsi una foto. Trump ha risposto alle critiche sulla Trump University durante il dibattito di giovedì scorso definendo «insensate» le cause legali intentate contro di lui. «Avrei potuto sistemare la faccenda diverse volte, potrei farlo ora per pochissimi soldi. Le persone che hanno seguito il corso hanno tutte… la maggior parte di loro… molte hanno firmato una valutazione in cui dicevano che il corso era stato fantastico, straordinario, bellissimo».
4) Trump ha degli scheletri nell’armadio
Nonostante non sia mai stato accusato di atti illegali, Trump ha lavorato molto con aziende controllate dalla mafia per quanto riguarda proprietà a New York e Atlantic City, tra cui la Trump Tower e Trump Plaza. Secondo alcune persone, questo era l’unico modo di costruire immobili nella New York degli anni Settanta e Ottanta, quando la mafia controllava diversi settori dell’industria edile della città come il cemento, i sindacati e lo smaltimento. Ma il coinvolgimento di Trump è senza precedenti: «Nella storia non ci sono mai stati altri candidati con rapporti così radicati e documentati con enti controllati dalla mafia», ha scritto Robert O’Hara del Washington Post. Trump ha detto di non essere stato al corrente del fatto che queste aziende avessero legami con la mafia, aggiungendo che «erano eccezionali nel portare il lavoro a termine».
Come sottolineato dai suoi avversari Repubblicani, le aziende di Trump potrebbero aver reclutato lavoratori irregolari e lavoratori ospiti, accuse scomode per un candidato presidente che sostiene un programma anti-immigrazione. Alcuni operai edili che stanno lavorando al nuovo hotel di Trump a Washington hanno raccontato al Washington Post che alcuni degli operai del cantiere sono irregolari, e il New York Times ha scritto che il club Mar-a-Lago di Palm Beach ha respinto le candidature di centinaia di americani per assumere invece lavoratori ospiti rumeni. Al dibattito di giovedì Rubio ha raccontato di come Trump avesse anche affrontato una lunga causa per l’impiego di lavoratori irregolari per la costruzione della Trump Tower sulla fifth avenue di Manhattan. Secondo le accuse, il palazzo sarebbe stato costruito da operai polacchi pagati cinque dollari l’ora o meno, se non addirittura da operai senza stipendio. La causa si trascinò per decenni, poi un giudice stabilì che Trump sapeva che degli operai polacchi stavano lavorando in nero ed erano sottopagati. Trump fece ricorso e la causa fu chiusa nel 1999.
Ci sono altri episodi strani legati a Trump. L’avvocato che rappresentò gli operai polacchi disse di aver ricevuto un telefonata da un uomo chiamato John Barron, che lo minacciò di fargli causa se avesse continuato a creargli problemi, come ha raccontato Michael Daly sul Daily Beast. Trump negò di aver fatto la chiamata, nonostante avesse usato lo pseudonimo John Barron per tutta la sua carriera: Trump aveva suggerito di chiamare così il protagonista di un programma televisivo chiamato The Tower, che non fu mai prodotto ed era basato liberamente sulla sua vita. Trump e l’attuale moglie Melania Knauss hanno poi chiamato il loro figlio Barron. Quando Rubio ha sollevato la questione degli operai polacchi durante l’ultimo dibattito, Trump si è difeso dicendo di aver assunto decine di migliaia di persone nella sua vita, e che all’epoca «le leggi erano totalmente diverse, e anche il mondo era diverso».
5) La grandezza di Trump sta nell’aver fatto di sé stesso un marchio
Negli anni Ottanta Donald Trump navigava in difficoltà economiche ma era deciso a coinvolgere la grande catena di alberghi Holiday Inn in un progetto per un nuovo casinò ad Atlantic City. I lavori erano in ritardo, ma i dirigenti di Holiday Inn stavano arrivando a visitare il cantiere e Trump voleva impressionarli: perciò ordinò ad alcuni operai di scavare pile di terra e trasportarle in giro per il cantiere il più energicamente possibile. Trump ha raccontato nel suo libro L’Arte di Fare Affari di come i dirigenti di Holiday Inn rimasero colpiti e decisero di investire nel progetto.
Il più grande talento di Trump non è stata la costruzione di aziende ma la creazione di una figura pubblica sopra le righe. Secondo D’Antonio Trump si è dedicato allo sviluppo di un marchio forte soprattutto perché il suo ego «aveva bisogno di attenzione», e ha capito come rendere quest’attenzione redditizia. Il marchio Trump ha beneficiato enormemente della sua partecipazione alla versione americana di The Apprentice, un reality show televisivo in cui Trump fa la parte di quello che dice le cose come stanno e senza fronzoli, «un uomo in grado di prendere decisioni e che punta sui principi, in un paese che si è ridotto a premiare chi si limita a partecipare», come ha scritto Mark Fisher del Washington Post. In un suo libro recente, Trump ha scritto di non aver partecipato al programma per soldi ma per la «presenza del marchio». Per tutta la sua carriera Trump ha dimostrato di avere un talento nel convertire la sua totale mancanza di moderazione in profitti. Ora, dice D’Antonio, Trump sta cercando di convertirla in voti.
© 2016 – Washington Post