Dove va Roma
Oggi il PD sceglie con le primarie il suo candidato a sindaco nella città – e che città – dove ha vissuto le maggiori agitazioni politiche nel 2015
di Francesco Costa – @francescocosta
C’è stato un momento, non molti anni fa, in cui Roma era Milano e Milano era Roma. Nel senso che Roma era la città accogliente, vivace, vivibile, funzionante, di moda; mentre Milano era la città in declino, impaurita, corrotta. Si leggeva su Repubblica nel 2002: «La città, finita la sua grande stagione industriale, sembra vivere in una sorta di eterna ordinaria amministrazione, in cui un giorno si insegue il problema delle periferie, il giorno dopo quello del traffico nel centro storico, e il giorno dopo ancora quello dei cartelli stradali. Ma si continua a rifiutare lo sforzo per definire la città, per definire il suo futuro. E quindi per fare gli investimenti necessari. E quindi, nonostante l’orgoglio e il talento dei suoi abitanti, Milano continua a essere la capitale di niente. La capitale di se stessa, cioè di un insieme di persone che non riescono a dare una definizione del luogo in cui vivono». Se oggi sostituite “Roma” a “Milano”, funziona lo stesso.
Questo ribaltamento ha molte ragioni, dal logoramento della qualità dell’amministrazione che si verifica spesso quando una sola parte politica si trova a governare una città per molti anni – il centrosinistra ha espresso il sindaco di Roma dal 1993 al 2015, con una sola pausa – alla disastrosa gestione della città proprio durante quella pausa, l’amministrazione di Gianni Alemanno e del centrodestra dal 2008 al 2013.
Oggi il comune di Roma ha una situazione economica particolarmente complicata – un debito da 14 miliardi di euro, quanto quello di una piccola nazione – che si è unita alle storiche e naturali difficoltà di amministrazione di una città estesa il doppio di Milano, Napoli, Torino e Palermo messe insieme. La sua decadenza negli ultimi anni è diventata praticamente parte del paesaggio: sono fioriti visitatissimi siti internet dedicati al cosiddetto “degrado” – il più letto, famoso e controverso è Romafaschifo – e gli episodi di disorganizzazione e malgoverno hanno riempito con straordinaria frequenza le pagine dei giornali, diventando a loro volta una specie di genere letterario. Da “affittopoli” a “parentopoli”, dalle assenze di massa dei vigili urbani la notte di Capodanno a Mafia Capitale, dalla sporcizia delle strade agli innumerevoli scioperi dei mezzi pubblici, Roma è diventata il simbolo di tutto quello che può andare storto in una città.
L’ultimo sindaco di Roma, Ignazio Marino, aveva scommesso le sue fortune politiche proprio sul suo essere meno romano degli altri: un ex chirurgo, peraltro nato a Genova e con proficue esperienze di studio e lavoro all’estero, è stato descritto per mesi dalla stampa come un alieno, un “marziano”, cosa che avrebbe dovuto permettergli di risolvere i problemi della città con un’efficacia che gli altri non avrebbero avuto. Non è andata così, e anzi la sua amministrazione si è conclusa in un modo traumatico che ancora divide la città e il centrosinistra che lo aveva sostenuto: alcuni giurano che Marino sia stato “fatto fuori” dal suo stesso partito proprio perché aveva provato a mettere le mani con radicalità nei molti problemi irrisolti di Roma, altri pensano che Marino sia finito incolpevolmente masticato dalle campagne di stampa organizzate contro di lui dall’opposizione (per esempio l’assurda storia delle multe), altri ancora sostengono che Marino si sia “fatto fuori” da solo per l’improvvisazione di molte sue azioni e l’inadeguatezza ad affrontare con le sole buone intenzioni i problemi di una città come Roma.
Ignazio Marino durante la campagna elettorale del 2013. (Roberto Monaldo/LaPresse)
Chi vive in città e frequenta un minimo la sua politica racconta di un clima particolarmente cupo e incattivito, dove i problemi sono aggravati dall’assenza di una vera classe dirigente cittadina. Il centrodestra, che pure a Roma ha un certo radicamento e che dopo la tormentata fine della giunta Marino dovrebbe essere in teoria il vincitore naturale delle elezioni amministrative della prossima primavera, non ha ancora trovato un candidato a sindaco: ed è indicativo che il nome di Guido Bertolaso – la cui candidatura era stata annunciata come ufficiale qualche settimana fa – sia stato scartato dalla Lega Nord, che un tempo non avrebbe avuto alcuna voce in capitolo sulle cose politiche romane. Il Movimento 5 Stelle per sua natura in una situazione del genere dovrebbe prosperare, ma in questi anni non ha saputo davvero costruire una visibile leadership cittadina: e i suoi candidati a sindaco e a consiglieri comunali devono firmare un contratto che li impegna a consultare Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio prima di prendere qualsiasi importante decisione amministrativa, salvo non voler pagare una grossa penale – non proprio il massimo della trasparenza.
Il centrosinistra, nel frattempo, formalmente non esiste più o quasi. I partiti di sinistra che sono stati storici alleati del PD e dei partiti suoi predecessori nelle giunte romane degli anni Novanta e Duemila, infatti, sono parzialmente riuniti sotto l’ombrello di Sinistra Italiana – che comprende Sinistra Ecologia Libertà – e hanno presentato un loro candidato autonomo, Stefano Fassina. I sostenitori di Ignazio Marino – riuniti in un attivissimo gruppo Facebook che ha oltre 13.000 iscritti – sono ancora infuriati col PD e non escludono di presentare una loro candidatura autonoma alle amministrative: candidatura che potrebbe essere proprio quella di Ignazio Marino, che viene descritto da chi gli è vicino come molto indeciso.
Per quanto possa apparire paradossale, quindi, in un contesto del genere nessuno esclude davvero che le prossime elezioni amministrative possano essere vinte di nuovo dal PD: e domenica 6 marzo il PD sceglierà il suo candidato sindaco con le primarie, e senza che ci sia un grande favorito. I candidati sono sei.
Chiara Ferraro
È una candidatura simbolica e di testimonianza, ammessa in deroga dal PD nonostante il mancato raggiungimento delle firme necessarie, eppure ha fatto discutere molto. Chiara Ferraro è una ragazza di 25 anni, iscritta a un istituto di Agraria, già candidata alle ultime elezioni comunali. Per quanto la candidatura sia formalmente intestata a lei, e le sue pagine online parlino di sé in prima persona, Ferraro ha una forma molto severa di autismo: non parla, salvo balbettare una canzone ogni tanto, e soffre di gravi crisi epilettiche. Le interviste a Chiara Ferraro che si trovano online sono di fatto interviste a suo padre, Maurizio Ferraro, che ha anche partecipato ai confronti televisivi tra i candidati.
L’obiettivo della campagna di Ferraro è “rendere autistic friendly la nostra città” e “accendere un faro sulla riforma dei servizi”, e dentro il centrosinistra molti considerano la sua candidatura un piccolo fatto pulito e positivo, nel cinismo generale e nelle macerie – non solo politiche ma anche personali – lasciati dai disastri politici degli ultimi anni. Altri invece hanno criticato la decisione del padre di Ferraro: Gianluca Nicoletti, noto giornalista e conduttore radiofonico che ha un figlio autistico e ha scritto molto della sua malattia, ha definito l’operazione «totalmente ridicola».
Stefano Pedica
Ha 58 anni e una carriera politica romana di lunghissimo corso. Negli anni Ottanta faceva parte della DC, poi passò al Centro Cristiano Democratico, poi andò nell’UDR, partito fondato da Francesco Cossiga dopo la fine del suo mandato da presidente della Repubblica (Pedica era molto legato a Cossiga, che ha definito «un faro ed un esempio di trasparenza e legalità»), poi si spostò prima in “Democrazia Europea” con Andreotti, poi con l’UDEUR di Mastella, poi con il “Patto Segni Scognamiglio”, poi con la Democrazia Cristiana di Gianfranco Rotondi, poi con l’Italia dei Valori, con cui nel 2006 fu eletto deputato (in Lombardia, però: magie del Porcellum). Rieletto in Parlamento nel 2008 – stavolta al Senato – Pedica nell’Italia dei Valori fondò la corrente dei cosiddetti “Teoleg”, che si definiva “l’Italia dei Valori… cristiani”. Nel 2010 si candidò alla presidenza del Lazio con il sostegno dei Comunisti Italiani e di Rifondazione Comunista (mancavano solo loro) ma poi decise di sostenere Emma Bonino; due anni dopo lasciò l’Italia dei Valori ed entrò nel Partito Democratico.
Per quanto possa sembrare ironico, la sua candidatura a sindaco è impostata su temi e toni molto anti-casta: per esempio dice che bisogna andare a votare alle primarie «per cambiare il PD romano che ha pensato solo alle poltrone e al potere».
Gianfranco Mascia
Attivista di lunghissimo corso, 54 anni, se non conoscete lui di sicuro vi siete imbattuti in una delle decine di iniziative che ha organizzato: dai comitati per il boicottaggio delle imprese di Silvio Berlusconi – che gli costarono nel 1994 una terribile aggressione – ai Girotondi, dalle manifestazioni del Popolo Viola al “No B. Day”, Mascia ha attraversato e conosciuto praticamente ogni “movimento dal basso” del centrosinistra degli ultimi vent’anni. Ha fatto nel 2005 la prima intervista a Ivan Scalfarotto, che all’epoca era uno sconosciuto bancario residente a Londra, per esempio, ed è stato “Spidertruman”, nickname col quale nel 2011 ottenne grandi attenzioni mediatiche descrivendosi come un “precario della casta” pronto a svelare segreti e complotti.
Oggi punta molto sull’ecologia, la sua candidatura è sostenuta dai Verdi e va in giro a fare campagna elettorale portandosi dietro un grande orsacchiotto: Mascia-e-orso, avete capito (se non avete capito, fatevelo spiegare da chi ha figli). Il suo argomento, però, non è proprio fuori dalla realtà: «Sembra strano che Mascia parli con un orso? Beh se altri hanno parlato con Buzzi e Carminati, allora meglio Mascia che parla con Orso».
Domenico Rossi
Ha 64 anni ed è un generale dell’esercito, in licenza da quando nel 2013 è stato eletto deputato con Scelta Civica. Prima di allora era stato, tra le altre cose, sottocapo di stato maggiore dell’esercito; dopo è stato sottosegretario alla Difesa nel governo Renzi, candidato non eletto con NCD alle elezioni europee del 2014. Oggi fa parte del Centro Democratico di Bruno Tabacci (esiste ancora), che lo sostiene alle primarie di Roma.
Roberto Giachetti
È il “candidato del partito”, almeno formalmente, dato che è considerato il candidato di Matteo Renzi. Non è però esattamente un renziano, Giachetti: la sua carriera politica è iniziata negli anni Ottanta nel Partito Radicale, di cui ha conservato certi strumenti di battaglia politica (ha fatto 123 giorni di sciopero della fame per chiedere la riforma della legge elettorale) ed è proseguita poi negli anni Novanta nella giunta romana di Francesco Rutelli, di cui è stato capo della segreteria e capo di gabinetto. È stato eletto alla Camera per la prima volta nel 2001, guadagnandosi nel tempo una profonda conoscenza dei regolamenti parlamentari che lo ha portato a diventare prima segretario d’aula, nel 2008, e poi vicepresidente della Camera, nel 2013. Nel 2014, in dissenso dal PD e da Renzi, ha votato a favore della responsabilità civile dei magistrati; quando si parlava di inserire le preferenze nella nuova legge elettorale, si è schierato contro la posizione di Renzi, che aveva deciso di appoggiarne l’introduzione. Di lui Renzi dice che «conosce Roma meglio di chiunque altro».
La sua candidatura è arrivata dopo settimane di incertezze e tentennamenti, e i suoi avversari a Roma – pur riconoscendogli grande onestà intellettuale ed estraneità ai guai di questi anni – sospettano che ancora adesso non sia del tutto convinto. Ha avuto da subito il sostegno di Nicola Zingaretti, influente presidente della regione, che si è mescolato però a quello di un gruppo molto eterogeneo di dirigenti politici: detto che a Roma i renziani sono storicamente deboli – al congresso del 2013 Renzi in città fu battuto da Cuperlo – la candidatura di Giachetti è sostenuta anche da Umberto Marroni, famoso esponente dei dalemiani in città, dai popolari, dai cosiddetti “giovani turchi” che fanno riferimento a Matteo Orfini. Un miscuglio difficile da sbrogliare e che non promette bene, al di là delle qualità personali di Giachetti, anche perché il PD romano è sbriciolato – quasi 30 circoli sono stati chiusi perché diventati meri comitati personali – e andrà a congresso l’anno prossimo.
Roberto Morassut
Ha 52 anni e ha fatto tutto l’iter del politico e amministratore locale cittadino: militante da ragazzo nella federazione giovanile del PCI, poi membro della segreteria cittadina del PdS, poi segretario regionale del PdS e infine, dal 2008 al 2009, segretario regionale del PD. Nel frattempo è stato consigliere comunale dal 1997, capogruppo dei DS, assessore all’urbanistica della giunta Veltroni nell’anno in cui fa varato il primo nuovo piano regolatore dal 1965, deputato dal 2008. La sua campagna elettorale per le primarie è particolarmente ricca di hashtag – #rm2016, #camminare e #bastaslogan (che però è uno slogan, no?) – e si propone di recuperare quanto più è possibile di buono dell’esperienza Marino, sul quale ha un giudizio migliore e più indulgente rispetto alla maggioranza dei sostenitori di Giachetti.
Benché considerato a lungo un “veltroniano” – e benché oggi i “veltroniani” stiano quasi tutti con Giachetti – la candidatura di Morassut è la dimostrazione che la politica romana non si può leggere solo replicando le correnti politiche nazionali: Morassut ha il sostegno di parte della minoranza del PD – per esempio Marco Miccoli, ex segretario cittadino, e un pezzo di “bersaniani” – ma anche dei renziani più vicini a Ignazio Marino, messi particolarmente in crisi dalla traumatica fine della giunta. Una di queste persone è Estella Marino, apprezzata assessore all’Ambiente della giunta Marino (non sono parenti); un’altra è Cristiana Alicata, ingegnere e attivista popolare in città, renzianissima e nominata da Renzi pochi mesi fa nel consiglio di amministrazione di ANAS, che ha spiegato oggi il suo voto per Morassut e non per Giachetti.
Roberto Morassut a colloquio per più di un’ora con Zoro e Marco Damilano, nel 2009.
E Roma, in tutto questo?
Se fin qui non avete letto particolari idee o differenze sui programmi e i progetti per la città, nonostante i grossi problemi di Roma, è anche perché la campagna elettorale li ha trascurati rispetto al resto, salvo gli slogan del caso, giocandosi soprattutto sul tentativo di costruire una nuova credibilità del centrosinistra e sugli equilibri politici della coalizione (l’ultima agitazione viene dallo spauracchio del minacciato sostegno di Denis Verdini a Roberto Giachetti). Un’altra ragione di questa cautela si deve alla percezione sempre più diffusa che oggi senza un intervento del governo nazionale Roma sia praticamente ingovernabile: che sia un decreto che allunghi i termini di pagamento del debito della città, oppure una riforma che assegni più potere alle suddivisioni amministrative, i municipi, oppure l’immissione dall’esterno di nuovi funzionari e dirigenti del comune, più abili e affidabili degli attuali.
Questo tema è attuale soprattutto nel centrosinistra, la cui classe dirigente attraversa una fase particolare: la generazione che ha governato Roma con un certo successo a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila è andata quasi tutta in Parlamento e non ha lasciato moltissimo dietro di sé. Per 15 anni Roma ha prodotto una classe dirigente locale in grado di diventare una classe dirigente nazionale, fa notare più di qualcuno nel PD: ora servirebbe il contrario.