Ma alla fine, chi ha vinto in Iran?
I moderati e i riformisti, certo, e soprattutto a Teheran: ma gli ultraconservatori – i grandi sconfitti – continueranno a essere la fazione più potente ancora per parecchio tempo
Negli ultimi giorni sono arrivati dati più precisi sui risultati delle elezioni che si sono tenute in Iran venerdì 26 febbraio e che hanno rinnovato sia i 290 seggi del Parlamento (il Majlis), che gli 88 membri dell’Assemblea degli esperti, uno degli organi più importanti del sistema istituzionale iraniano. Stando alle informazioni diffuse dalle agenzie di stampa locali, non è difficile dire già da ora chi ha vinto e chi ha perso: hanno vinto i moderati del presidente Hassan Rouhani, sostenuti anche dai riformisti; hanno perso gli ultraconservatori – i cosiddetti “principalisti” – che fanno capo alla Guida suprema, l’autorità politica e religiosa più importante del paese.
La politica iraniana non si può leggere però solo attraverso i risultati elettorali, perché in Iran le cose funzionano in maniera diversa da come funzionano qui da noi: e non solo perché l’Iran è un regime autoritario che prevede una competizione elettorale “monca” (prima delle elezioni molti candidati riformisti sono stati esclusi dalle liste elettorali dal Consiglio dei guardiani, un organo molto potente e molto conservatore). Per esempio in Iran non ci sono i partiti politici come li conosciamo noi: i moderati, i riformisti, gli ultraconservatori e i conservatori pragmatici sono “correnti” a cui ci si riferisce e che di fatto racchiudono idee simili su precise questioni ritenute urgenti in quel momento. La decisione di schierarsi da una parte o dall’altra, allo stesso modo, non è particolarmente esclusiva: alle ultime elezioni diversi candidati erano sostenuti sia dai moderati/riformisti che dai conservatori. Per tutte queste ragioni non è facile interpretare fin da ora i risultati elettorali in Iran: si può partire però da alcuni punti fermi e capire cosa ne dicono gli esperti.
Punto primo: i risultati
La notizia che più è stata ripresa dalla stampa internazionale è stato l’inaspettato risultato elettorale a Teheran, dove il fronte dei moderati/riformisti ha stravinto sia nelle elezioni del Parlamento, ottenendo tutti e 30 i seggi in palio, sia in quelle dell’Assemblea degli esperti, ottenendo 15 dei 16 seggi destinati al distretto elettorale della capitale. Ancora più importante è stata l’esclusione dalla nuova Assemblea degli esperti di due importanti figure del fronte ultraconservatore (l’ex speaker Mohammad Yadzi e Mohammad Taqi Mesbah-Yadzi), e l’elezione come terzo e primo candidato più votato del presidente Rouhani e del suo più importante alleato, il riformista Akbar Hashemi Rafsanjani.
I risultati di Teheran non sono però rappresentativi dell’intera realtà nazionale. Teheran è la città più progressista e aperta dell’Iran, dove nell’ultimo decennio si sono concentrati i movimenti anti-regime e dove i riformisti raccolgono più consensi: per esempio i principalisti – i conservatori più radicali e legati alla Guida suprema – hanno ottenuto successi significativi in alcune zone del sud e dell’est del paese. Il risultato complessivo per il Parlamento è all’incirca questo (“all’incirca” perché non essendoci partiti politici formalizzati il conteggio dei voti cambia a seconda di chi lo fa e sulla base di fonti diverse): su scala nazionale i moderati/riformisti hanno ottenuto poco più di 80 seggi, i conservatori poco meno di 80. Poi ci sono una sessantina di indipendenti – e non è chiaro da che parte si schiereranno – e altrettanti seggi non ancora assegnati (quelli dove nessun candidato ha raggiunto il 25 per cento e sarà necessario un secondo turno). Anche per quanto riguarda l’Assemblea degli esperti la situazione è piuttosto incerta: le tre correnti principali – principalisti, conservatori pragmatici e moderati/riformisti – si sono divisi i seggi, ma non è chiarissimo in che misura (anche qui alcuni candidati erano sostenuti da più di una lista).
Nell’incertezza che emerge da questi risultati, una cosa è chiara: i moderati/riformisti hanno aumentato di parecchio i loro consensi rispetto alla precedente legislatura, a scapito degli ultraconservatori. Molti esperti sostengono che gli elettori iraniani abbiano premiato le politiche del presidente Rouhani, in particolar modo l’accordo sul nucleare e la conseguente rimozione delle sanzioni internazionali imposte all’Iran dal 2006. La vittoria dei moderati/riformatori significa due cose: che il nuovo Parlamento sarà più disposto a collaborare con Rouhani, soprattutto sulle riforme riguardanti la liberalizzazione dell’economia e sulla progressiva apertura dell’Iran verso l’esterno; e che la prossima Assemblea degli esperti sarà meno condizionata dai principalisti e potrebbe far valere il suo peso nell’eventuale elezione della nuova Guida suprema, visto che l’attuale leader iraniano – Ali Khamenei – ha 76 anni e ha seri problemi di salute.
Ora ci sarà un Iran diverso?
Reuters ha scritto che quasi tutti gli analisti che si occupano di Iran sono d’accordo nel ritenere che sia troppo presto per pensare a un cambiamento radicale della società iraniana. Le analisi si basano soprattutto su quanto successo in passato. L’ultima volta che i riformisti riuscirono a imporsi nel Parlamento iraniano fu nel 2000, durante il mandato presidenziale del riformista Mohammad Khatami (l’unico presidente riformista finora nella storia della Repubblica Islamica). In quegli anni il Consiglio dei guardiani – l’organo che tra le altre cose è incaricato di selezionare i candidati a ogni elezione iraniana – usò il suo potere di veto su parecchie leggi che erano state approvate dal Parlamento, sostenendo che fossero contrarie ai principi islamici. Il Consiglio dei guardiani, ha scritto Reuters, «soppresse gli spazi di libertà che Khatami aveva aperto»: chiuse i giornali e rese difficile la vita ai riformisti, per esempio negando loro l’accesso ai media statali.
Nonostante la vittoria del fronte moderato e riformista, difficilmente gli equilibri in Iran cambieranno significativamente nel breve periodo: Khamenei e le Guardie della rivoluzione – il potente corpo militare istituito dopo la rivoluzione del 1979 – controllano tutti gli snodi del sistema iraniano: i media, l’esercito, i servizi di intelligence, la polizia morale, i leader della preghiera del venerdì e le risorse finanziarie nazionali. Le ultime elezioni hanno mostrato comunque segnali incoraggianti per il fronte dei moderati e riformisti e diversi analisti credono che ci siano margini per pensare che i riformisti potranno ottenere più potere nel prossimo futuro. Una delle questioni più importanti sarà capire quanta influenza riusciranno a esercitare nell’Assemblea degli esperti, un organo che non solo è incaricato di eleggere la nuova Guida suprema, ma è anche in grado di influenzare le sue politiche durante il suo mandato.
Sull’economia sì, c’è margine
La progressiva liberalizzazione dell’economia sembra un obiettivo più raggiungibile rispetto a quello di cambiare radicalmente la società iraniana. Poco tempo fa David Garner, esperto giornalista del Financial Times, aveva fatto un’ipotesi su come sarebbero potute andare le cose nel caso in cui in Iran avessero preso più potere i moderati/riformisti. Garner parlava della possibilità che l’Iran potesse intraprendere la via presa dalla Cina comunista: aprire la propria economia ma senza fare concessioni politiche. La suggestione di Garner è stata ripresa da altri giornalisti e al momento – a detta di molti – sembra quella più probabile nel medio periodo. Né i moderati né i riformisti sembrano oggi avere l’intenzione (o l’influenza) per mettere in discussione il sistema istituzionale iraniano, cioè l’esistenza della Repubblica Islamica in quanto tale: buona parte della campagna elettorale si è concentrata sulle riforme economiche di cui l’Iran ha assoluto bisogno. Lo stesso Rouhani deve molta della sua popolarità al fatto di avere ottenuto l’eliminazione delle sanzioni internazionali, considerate la causa principale della debolezza economica che ha colpito l’Iran negli ultimi dieci anni.