In difesa di Spotlight
Che non ne ha gran bisogno, è il "Miglior film": ma la critica del Washington Post ne ha per i suoi detrattori
di Ann Hornaday - Washington Post
Spotlight, il film di Tom McCarthy che racconta l’inchiesta del 2001-2002 del Boston Globe sugli abusi sessuali contro dei bambini compiuti all’interno della Chiesa Cattolica, era entrato tra i favoriti all’Oscar appena era stato presentato ai festival di Venezia, Toronto e Telluride l’anno passato.
Il film – con Michael Keaton, Mark Ruffalo, Rachel Adams e Liev Schreiber nelle parti dei giornalisti responsabili della serie di articoli che vinse il Pulitzer – aveva tutti i tratti da “Miglior film”: un cast di grandi attori, un’estetica classica legata ai grandi thriller degli anni Settanta, e un tema sociale importante.
Ma come tutti i favoriti Spotlight ha cominciato a cedere terreno nell’ultimo tratto della gara, quando i rivali come The Revenant e La grande scommessa hanno iniziato a raccogliere successi e premi tra le giurie di critici e professionisti.
Domenica sera, nel momento in cui The Revenant aveva già ottenuto tre Oscar – compreso il primo per Leonardo DiCaprio, quello per la regia per Inarritu (il secondo in due anni) e quello per la fotografia per Emmanuel Lubezki (il terzo in tre anni) – è sembrato che Spotlight si fosse bruciato troppo presto. Invece, dopo il premio per la sceneggiatura originale, ha finito per essere scelto anche come miglior film, come alcuni commentatori non avevano mai smesso di prevedere.
Rivediamo quindi un elenco di argomenti che erano circolati contro le possibilità di vittoria di Spotlight in queste settimane, e le ragioni per cui erano sbagliati.
“Non è grande cinema”
Dai la sceneggiatura di Spotlight a otto registi diversi, mi ha detto un loro collega di recente, e faranno tutti esattamente lo stesso film. “È un film per la tv”, ha sentenziato, sprezzantemente. È vero che Spotlight ha uno stile visivo umile, ma confonderlo con un’assenza di ambizione estetica è un errore. Lavorando con l’art director Stephen H. Carter e con il direttore della fotografia Masanobu Takayanagi, McCarthy ha creato un linguaggio visivo che possiamo chiamare “povero con maestria”, ricostruendo la redazione del Globe in tutto lo splendore del suo disordine beige, realizzando una grande verosimiglianza e un senso di grandi dimensioni.
In una grande tradizione perfezionata da classici come L’appartamento e Tutti gli uomini del presidente, McCarthy ha fatto fare un passo indietro alla telecamera piuttosto che andare a cercare primi piani da tv, guidando gli spettatori negli spazi abitati dai protagonisti del film, sottolineando i loro confronti con gli estesi e impuniti poteri delle istituzioni. Il risultato è un film altrettanto vibrante e coinvolgente dell’istrionico The Revenant o dei manierismi e trovate di La grande scommessa; di certo Spotlight è proprio più dinamico in quanto è così pacato e sicuro di sé.
“È noioso”
Circola un luogo comune, nell’industria del cinema, per cui un film deve afferrare lo spettatore alla gola nei primi cinque minuti, e poi stringere fino allo svelamento esplosivo. Spotlight sbugiarda questa retorica del “più-è-meglio-è”: di certo inizia piano, ma questo dà il tono al film, alla sua atmosfera e alla sua credibilità, e dà al pubblico il tempo cruciale per comprendere la storia e cosa c’è in ballo.
McCarthy e il suo cosceneggiatore, Josh Singer, hanno impiegato mesi a indagare meticolosamente sull’inchiesta del Globe, con una quota di esattezza che ha contagiato l’intera produzione, portando gli occhi e le orecchie degli spettatori verso dettagli che li immergono in un dramma che ha l’affilata tensione di un thriller, ma senza ricorrere a eroismi da cappa e spada o a effetti straordinari. Non c’è un grammo di grasso intorno all’osso, né una sola forzatura inopportuna. Altro che noioso, Spotlight è teso, robusto e inarrestabile.
“Non ci sono grandi momenti”
L’attrice Rosalind Russell una volta disse: “Sapete cosa fa sì che un film funzioni? Momenti. Date al pubblico una mezza dozzina di momenti che possa ricordare, e tutti usciranno dal cinema contenti”. Il genio sovversivo di Spotlight è che non contiene nessuna “scena madre” in senso tradizionale. C’è una scena in cui il personaggio di Mark Ruffalo se la prende con i suoi capi per la loro decisione di aspettare a pubblicare la storia; ma è uno scoppio emotivo che è una breve eccezione a una regola a cui Spotlight obbedisce fedelmente, eliminando di continuo sentimentalismi gratuiti e ovvietà a favore di momenti di sobrietà, allusioni trattenute e indicazioni accennate.
Due esempi: quando la devota nonna della giornalista Sacha Pfeiffer chiede un bicchiere d’acqua mentre legge l’articolo del Globe, e quando Ruffalo guarda l’avvocato interpretato da Stanley Tucci che raggiunge un’altra giovane vittima di abusi sessuali. Non sono “grandi momenti”, certo: sono grandissimi.
“E quand’è che il tipo salta nel burrone e poi mangia il fegato di un bisonte?”
Una sottocategoria dell’obiezione precedente è la Teoria del Grand’Uomo del cinema, per cui i film sono solo il palcoscenico per gli sguardi di un grande divo e per interpretazioni da Oscar (ehi, per DiCaprio ha funzionato!). Spotlight inverte anche qui la regola, e dà al pubblico il raro spettacolo di attori famosi che nascondono il loro ego, cedono il centro della scena e lavorano sinceramente insieme come un’unica cosa per raccontare la storia di un impegno di squadra, piuttosto che di eroismi individuali.
Sotto questo aspetto Spotlight riesce persino a superare il suo più evidente predecessore, Tutti gli uomini del presidente, raccontando il lavoro giornalistico come la noiosa routine quotidiana che è, ma senza due grandi divi a trascinare il film con il loro carisma, o ipnotici momenti in oscuri parcheggi sotterranei. In più, il film mostra con onestà gli stessi fallimenti del Globe nel mancare di indagare sullo scandalo negli anni precedenti. Piuttosto che perpetuare la mitologia del reporter senza macchia, Spotlight de-glamorizza la professione e le restituisce un semplice senso di missione collettiva e integrità.
“Interessa solo ai giornalisti”
Non c’è dubbio che Spotlight abbia un posto speciale nei cuori di chi ha a che fare con la professione giornalistica. Nessun veterano della macchina da scrivere mancherà di apprezzare la cura sfinente con cui McCarthy e Singer hanno onorato un impegno nel quale i vecchi ritagli recuperano una patina da sacro Graal. Ma Spotlight va oltre e diventa ben più di una storia di giornalismo. Grazie al senso esatto delle proporzioni di McCarthy, e alla sua empatia, quello che in altre mani avrebbe potuto diventare un melodramma polemico o strumentale si risolve in un secco ritratto di tradimento, tenacia e lutto.
I film sono esperienze visive, come anche acustiche e intellettuali. Ma al massimo della loro potenza, sono profondamente emotivi. Spotlight mette in luce una storia importante con personaggi forti e una narrazione capace, ma mai sulla pelle delle dolorose sofferenze umane che racconta.
©2016, The Washington Post