Guida al Super Tuesday
È uno dei giorni più importanti delle primarie americane: si vota in tredici stati e per molti candidati potrebbe essere un momento decisivo
Oggi, in tredici stati degli Stati Uniti si tengono le primarie per le elezioni presidenziali del prossimo novembre, in quello che è chiamato tradizionalmente “Super Tuesday”: il giorno delle primarie in cui si vota in più stati contemporaneamente. Il “Super Tuesday” è uno dei giorni più importanti di tutta la campagna per le presidenziali statunitensi: per i Democratici nelle elezioni di oggi verranno assegnati in tutto 865 su circa 4000 delegati per la convention che deciderà il candidato presidente, mentre per i Repubblicani ne verranno assegnati 640 su 2472. Qualche candidato, dopo il voto di oggi potrebbe di fatto assicurarsi la nomination finale, oppure potrebbe rimanere definitivamente escluso dai giochi. Se questo non succederà, è molto probabile che gli equilibri – soprattutto tra i molti candidati repubblicani – cambieranno parecchio. Tra i democratici sono ancora in corsa Hillary Clinton e Bernie Sanders, mentre tra i repubblicani i candidati principali sono Donald Trump, Marco Rubio e Ted Cruz.
Dove, quando e come
Non in tutti i 13 stati del “Super Tuesday” voteranno sia democratici che repubblicani, e non in tutti gli stati ci saranno delle primarie come quelle che conosciamo in Italia: solo in dieci di questi tredici stati si vota sia per le primarie democratiche sia per quelle repubblicane, mentre in quattro non si terranno propriamente le primarie, ma i cosiddetti caucus, delle specie di assemblee in cui la decisione sul vincitore arriva al termine di una discussione.
I Democratici votano in Alabama (53 delegati, primarie), Arkansas (32 delegati, primarie), Colorado (66 delegati, caucus), Georgia (102 delegati, primarie), Massachusetts (91 delegati, primarie), Minnesota (77 delegati, caucus), Oklahoma(38 delegati, primarie), Tennessee (67 delegati, primarie), Texas (222 delegati, primarie), Vermont (16 delegati, primarie) e Virginia (95 delegati, primarie). Oltre a questi 11 stati, votano anche nelle Samoa americane, un minuscolo arcipelago nel Pacifico più vicino all’Australia che agli Stati Uniti, dove si tengono dei caucus che assegnano 6 delegati: la cosa strana è che le Samoa americane non parteciperanno a novembre alle elezioni presidenziali. I Repubblicani invece votano in Alabama (47 delegati, primarie), Alaska (25 delegati, caucus), Arkansas (37 delegati, primarie), Colorado (37 delegati, caucus), Georgia(76 delegati, primarie), Massachusetts (39 delegati, primarie), Minnesota (38 delegati, caucus), Oklahoma (40 delegati, primarie),Tennessee (58 delegati, primarie), Texas (155 delegati, primarie), Vermont (16 delegati, primarie), Virginia (46 delegati, primarie) e Wyoming (26 delegati, caucus).
Si comincia a votare, nei primi stati in cui aprono i seggi, quando in Italia sarà l’una di pomeriggio, mentre gli ultimi caucus termineranno quando in Italia sarà già la mattina di mercoledì. I primi seggi a chiudere, quelli di Alabama, Georgia, Vermont e Virginia, chiuderanno quando in Italia sarà l’una di notte, mentre l’ultimo stato in cui ci saranno le primarie a chiudere i seggi sarà il Colorado, alle tre italiane. La maggior parte degli stati comunque smetterà di votare tra l’una e le due (ora italiana), momento dal quale i vari siti di news cominceranno a dare gli exit poll e le prime previsioni. Ci si aspetta che i primi risultati definitivi arrivino quando in Italia saranno le 4 del mattino, mentre bisognerà aspettare alla mattina di mercoledì per i risultati dei caucus. In tutti gli stati coinvolti nel Super Tuesday è previsto che i delegati democratici vengano assegnati su base proporzionale, quindi è tradizionalmente difficile per i candidati guadagnare molto vantaggio o allo stesso modo recuperare un grande svantaggio, mentre per i repubblicani l’assegnazione dei delegati avviene con un criterio tendenzialmente proporzionale.
Breve storia del Super Tuesday
La prima volta che si parlò di Super Tuesday negli Stati Uniti fu nel 1980, quando tre stati americani tennero le primarie nello stesso giorno. Il Super Tuesday per come lo conosciamo oggi però nacque nel 1988, quando i Democratici degli Stati del Sud decisero di organizzare le primarie nello stesso giorno in nove stati: volevano aumentare la propria influenza regionale nella scelta del candidato, e dare alla campagna elettorale per le primarie presidenziali un orientamento più nazionale, diminuendo l’importanza data dai candidati ai temi locali dei singoli stati. I Democratici del Sud volevano orientare la scelta della nomination nazionale verso un candidato più moderato e vicino ai loro interessi, ma ottennero il risultato opposto: gli elettori si divisero tra Al Gore e Jesse Jackson, senza che nessuno dei due riuscisse a prevalere nettamente, e la vittoria finale andò a Michael Dukakis, che al Super Tuesday aveva vinto in Florida e Texas e che andò bene successivamente negli stati del Nord. Dukakis, che non era il candidato preferito dei Democratici del Sud, perse le elezioni presidenziali contro George H. W. Bush. Anche i Repubblicani “aderirono” al Super Tuesday già nel 1988.
Dal 1988 a oggi, il Super Tuesday ha sostanzialmente deciso la nomination finale per le elezioni presidenziali in diverse occasioni: per i Democratici è successo sempre tranne che nel 1988 e nel 2008, e per i Repubblicani è successo ogni volta tranne che nelle ultime due elezioni, nel 2008 e nel 2012. Nel 2004 sei degli stati che solitamente votano nel Super Tuesday anticiparono di un mese le proprie primarie, per aumentare la propria influenza sulla scelta della nomination finale: si tennero perciò due Super Tuesday (il primo fu chiamato anche “Mini-Tuesday”). Nel 2008 successe una cosa simile, ma finirono con il votare nello stesso giorno all’inizio di febbraio 24 stati, in un evento che fu definito “Giga Tuesday”, il giorno in cui votarono più stati contemporaneamente nella storia delle elezioni americane. John McCain non emerse come chiaro vincitore per i Repubblicani, ma vinse comunque e si affermò come favorito a ottenere la nomination. Per i Democratici invece Barack Obama vinse in 13 stati, prendendo in totale un numero assoluto di voti inferiore a Hillary Clinton e solamente 13 delegati in più. Nel 2012 invece Barack Obama ci arrivò praticamente da candidato unico, e Mitt Romney per i Repubblicani aveva ottenuto grandi vittorie nelle settimane precedenti e consolidò ulteriormente il proprio vantaggio.
I Democratici
Per i Democratici, sei stati del Sud – Alabama, Arkansas, Georgia, Oklahoma, Tennessee, Texas – assegnano in tutto la maggior parte dei candidati, 514 su 865. Sono stati che nella storia recente sono stati roccaforti dei Repubblicani, ed etcnicamente variegati: in Georgia ad esempio oltre il 30 per cento della popolazione è afroamericana, mentre in Texas quasi il 40 per cento degli abitanti ha origini latinoamericane. Il Colorado è uno stato che ha subito un grande aumento della popolazione ispanica, che oggi ha raggiunto il 30 per cento, e dopo anni di dominio repubblicano nel 2008 e nel 2012 ha votato per Obama alle elezioni presidenziali. Anche la Virginia era uno stato tradizionalmente repubblicano, ma ha attraversato una recente urbanizzazione che ha spostato il voto dello stato verso un orientamento più moderato. Uno dei suoi senatori, Mark Warner, è uno dei potenziali vicepresidenti di Hillary Clinton. Virginia e Vermont sono invece stati bianchi e di sinistra, e il secondo è anche lo stato per il quale è senatore Sanders. Il Minnesota è simile per composizione, ma più incline a favorire i candidati populisti.
Bernie Sanders vota in un seggio di Burlington, in Vermont, nel giorno del Super Tuesday. (AP Photo/Jacquelyn Martin)
Il Super Tuesday è l’occasione per Hillary Clinton per “chiudere” la campagna elettorale per le primarie, affermandosi come chiara favorita. Clinton era inizialmente considerata la netta favorita alla vittoria delle primarie democratiche, ma i risultati nei primi stati in cui si è votato sono stati sorprendentemente buoni per Sanders, che ha addirittura vinto in New Hampshire e si è mantenuto a un distacco minimo da Clinton in Iowa. Erano tuttavia stati poco rappresentativi della composizione politica a livello nazionale – e in un senso favorevole a Sanders – e Clinton ha vinto in South Carolina e in Nevada, con un distacco da Sanders rispettivamente del 47 per cento e del 5 per cento. Quella del South Carolina è stata una vittoria schiacciante di Clinton, che ha aumentato di molto le sue possibilità di andare bene al Super Tuesday.
Nei sondaggi ha un vantaggio superiore o pari al venti per cento in sette stati: Georgia, Texas, Virginia, Colorado, Tennessee, Alabama, Arkansas e Minnesota (in molti casi sono comunque sondaggi approssimativi o poco recenti, e quindi poco affidabili). Sanders è messo meglio in Massachusetts, dove è più o meno dato alla pari con Clinton, e in Vermont, stato di cui è senatore e dove ha un vantaggio enorme. Ci si aspetta che Clinton vada bene nei sei stati del sud, dove la popolazione afroamericana – che già fu importante per la vittoria al Super Tuesday di suo marito, Bill Clinton – è numerosa. Bernie Sanders si gioca tutto negli altri stati: Colorado, Minnesota, Massachusetts, Vermont, Oklahoma e Virginia. Il banco di prova di Clinton secondo alcuni osservatori è la Virginia, dove deve vincere e non di poco, anche per i suoi stretti legami con il governatore Terry McAuliffe. Per Sanders invece lo stato decisivo potrebbe essere il Minnesota, dove una sua vittoria potrebbe aiutarlo a rimanere a galla. Domani mattina, a seconda del margine di vittoria di Clinton in certi stati e soprattutto di quanti saranno quelli in cui Sanders riuscirà a vincere, ci saranno due possibili risultati: o Clinton apparirà come la netta favorita alla vittoria finale, oppure Sanders potrebbe ridurre il suo svantaggio e rimanere in corsa.
I Repubblicani
Tra i Repubblicani, il Super Tuesday è anche conosciuto come “SEC Primary”, l’acronimo che indica la Southeastern Conference dei tornei sportivi universitari, che racchiude molti degli stati che vanno a votare al Super-Tuesday. Questi cinque stati – Alabama, Arkansas, Georgia, Texas e Tennessee – decideranno la maggioranza dei delegati dei Repubblicani. Sono stati dove i Repubblicani sono fortissimi, dove sono molto influenti i gruppi religiosi conservatori e sui quali il senatore Ted Cruz ha puntato tutto (in più lui viene dal Texas). Ci sono due stati dove votano i Repubblicani e non i Democratici, il Wyoming e l’Alaska, entrambi pochissimo popolati e tradizionalmente repubblicani. In tutto i candidati repubblicani rimasti in gara sono cinque: Donald Trump, Ted Cruz, Marco Rubio, Ben Carson e John Kasich. Fino ad ora quello che si è assicurato più delegati, nonché favorito alla vittoria finale della nomination, è Trump, con 82; Cruz ne ha 17 e Rubio 16. Stasera se ne assegnano 640.
L’allestimento di un seggio a Conway, in Arkansas. (MICHAEL B. THOMAS/AFP/Getty Images)
Trump è in vantaggio nei sondaggi in Virginia (+15 per cento), in Georgia (+15,7 per cento), in Massachusetts (+27 per cento), in Alabama (+18 per cento), mentre il margine è più stretto in Minnesota e Oklahoma. Gli osservatori dicono che Cruz si gioca tutto con il Texas, che assegna 155 delegati e nel quale Cruz, che è in vantaggio nei sondaggi anche se di poco, potrebbe addirittura portarseli a casa tutti. Una vittoria risicata potrebbe essere un duro colpo per la sua campagna elettorale, mentre una sconfitta potrebbe concluderla del tutto. Cruz è – sempre di poco – in vantaggio anche in Arkansas e in Tennessee, mentre per Colorado, Alaska, Vermont e Wyoming ci sono solo sondaggi molto vecchi. Per i Repubblicani sarà molto importante anche il voto del 15 marzo, quando si voterà in Florida, Illinois, Missouri, North Carolina e Ohio e con il sistema maggioritario: chi vince si porta a casa tutti i delegati dello stato (tranne che in North Carolina). In tutto ne verranno assegnati 286. Per Cruz è forte tra i religiosi più conservatori, su cui ha puntato molto, e per questo il voto di oggi e del 15 marzo sono fondamentali: dopo queste due date, gli stati con alte percentuali di cristiani evangelici e in generale conservatori a votare saranno pochi. Si gioca tutto ora.
Quella tra i Repubblicani è diventata sostanzialmente una lotta a tre, tra Trump, Cruz e Rubio. Trump e Cruz sono nettamente più estremisti, conservatori e populisti di Rubio, la cui candidatura quindi è in pratica è vista – anche dall’establishment repubblicano – come l’unica alternativa moderata ai primi due. Ci si aspettava che prima del Super Tuesday Rubio cercasse di indebolire Cruz per presentarsi come unico anti-Trump, ma all’ultimo dibattito ha invece attaccato duramente – e efficacemente – Trump. Il giorno dopo, l’ex candidato alle presidenziali moderato Chris Christie, a sorpresa, ha dato il suo endorsement a Trump. Ha spiegato Francesco Costa nella sua newsletter settimanale sulle elezioni americane:
Quanto sposta l’endorsement di Christie? In termini diretti, poco: Christie si è ritirato dalle primarie proprio perché non aveva un gran sostegno. In termini indiretti, però, sposta molto. Innanzitutto è un fortissimo segnale di solidità della candidatura Trump per gli elettori Repubblicani tradizionali e per l’establishment del partito: una volta che Christie ha rotto il ghiaccio, altri probabilmente seguiranno il suo esempio. Inoltre toglie ossigeno a Marco Rubio e Ted Cruz, che speravano che da qui al primo marzo si continuasse a discutere di quanto l’ultimo dibattito televisivo avesse dimostrato la vulnerabilità della candidatura di Trump. E sia Rubio che Cruz e Kasich sono vicini al momento decisivo delle loro campagne elettorali.
Per Rubio potrebbe essere importante vincere in Minnesota, dove ha il sostegno dell’ex governatore Tim Pawlenty e si potrebbe capire se la sua nuova spinta combattiva sta funzionando: si vota con i caucus, quindi il rinnovato entusiasmo dei suoi sostenitori potrebbero rivelarsi decisivo. Potrebbe poi andare bene nelle aree più popolate, ottenendo comunque molti delegati senza vincere nei vari stati. Scrive Francesco Costa: «L’obiettivo fondamentale per lui è arrivare sopra il 20 per cento nel maggior numero di stati possibile, per avere accesso alla distribuzione dei delegati, e magari superare Cruz in qualche stato, meglio ancora se al sud». In Alabama, Georgia, Tennessee, Texas e Vermont infatti se un candidato non raggiunge il 20 per cento non ha accesso all’assegnazione dei delegati, e i suoi vengono dati al candidato che ha preso più voti. E in tutti e cinque questi stati i sondaggi dicono che uno tra Rubio e Cruz rischia di non raggiungere questa soglia.
Un vero punto di svolta per la campagna di Rubio sarà però il 15 marzo la Florida, il suo stato natale. Secondo il New York Times quella tra Rubio e Cruz è sostanzialmente una corsa per il secondo posto dietro Trump, e se uno dei due dovesse imporsi nettamente sull’altro potrebbe chiedere che l’altro si ritiri per concentrare le energie per impedire a Trump di ottenere la nomination. Per Trump invece una vittoria netta e trasversale potrebbe essere il passo decisivo verso la vittoria finale. Scrive il New York Times: «Sapete come si chiama solitamente un candidato alla presidenza che vince una lunga striscia di stati che variano dagli stati liberal come Vermont e Massachusetts a quelli conservatori come Oklahoma e Alabama, compreso uno che funziona come indicatore per i moderati come la Virginia? Il candidato con la nomination.» Se Carson e Kasich invece dovessero andare molto male rispetto alle loro previsioni, potrebbero decidere di interrompere la propria campagna.