Cosa farà Starbucks in Italia
La grande catena di caffetterie americana aprirà il suo primo negozio nel 2017 e per avere successo dovrà adattare la sua strategia (per esempio introducendo banconi da bar come quelli italiani)
di Jena McGregor – Washington Post
La grande catena di caffetterie Starbucks ha 24mila negozi sparsi in 70 paesi nel mondo. I suoi clienti possono comprare un “frappucino” – la bevanda fredda simbolo della catena, a metà tra un cappuccino e un frappè – nel Brunei come in Brasile e Dubai, oltre che in una ventina di paesi europei. Per molto tempo però l’enorme mercato di Starbucks non è arrivato all’Italia, la patria del bar e dell’espresso. La situazione è destinata a cambiare nel 2017, quando – come annunciato domenica sera – Starbucks aprirà a Milano la sua prima caffetteria italiana, che sarà seguita da altri negozi in Italia. È raro che l’espansione di una grande multinazionale in nuovi paesi diventi una notizia, ma in questo caso le cose sono diverse: tanto per cominciare Starbucks venderà il suo caffè nel paese probabilmente più associato nel mondo agli amanti del caffè. È una grande occasione per affermare la sua importanza, ma anche un grosso rischio. «Se il paese che ha di fatto inventato la cultura dei bar dovesse respingerli, per Starbucks sarebbe un duro colpo», ha detto Laura Ries, una consulente per il brand che lavora ad Atlanta, in Georgia.
La mossa offre a Starbucks anche l’opportunità di rafforzare la narrazione che da tempo fa intorno al marchio, secondo cui l’idea di Starbucks sarebbe venuta oltre trent’anni fa al CEO Howard Schultz durante un viaggio in Italia. Sarebbe un’ottima opportunità per qualsiasi azienda, ma per Starbucks – che racconta da tempo di aver trasformato un prodotto semplice in un'”esperienza” più raffinata, per la quale i clienti sono disposti a pagare più soldi – l’arrivo in Italia è particolarmente delicato. «Quello che Howard ha capito molto tempo fa è che non conta il “cosa”, ma il “quindi”», ha detto David Srere, co-CEO di Siegel+Gale, una società che si occupa di strategie commerciali. Starbucks ha sottolineato con enfasi entrambi i punti nel suo annuncio. Nel titolo del suo comunicato stampa si legge che l’azienda arriva in Italia con «umiltà e rispetto» verso il paese. Schultz ha detto di avere intenzione di sviluppare una miscela di caffè specifica per il mercato italiano, e di voler aggiungere nei negozi italiani un bancone come quelli dei tradizionali bar. In Italia Starbucks avrà come licenziatario per la gestione dei suoi negozi il gruppo Percassi, un nome «molto rispettato in Italia», ha detto Srere.
Secondo gli esperti di gestione del brand l’approccio umile e “locale” di Strarbucks è quello giusto. «Devi mostrare un po’ di rispetto: con l’Italia e il caffè non si scherza», ha detto Ries. Le aziende devono essere «autentiche: non ci si può comportare come la solita grande azienda americana che arriva con le pistole e conquista la città». Starbucks ha sfruttato la notizia dell’apertura italiana per raccontare l’importanza dell’Italia per le origini del marchio, pubblicando una foto recente di Schultz davanti al Duomo di Milano e una sgranata, sempre in Italia ma nel 1983, in cui è molto più giovane e ha i capelli scuri .
Nel mondo dell’America aziendale, la storia di Starbucks è uno dei racconti più famosi sulle origini di una società: all’inizio degli anni Ottanta Schultz lavorava come responsabile delle vendite per un’azienda svedese che vendeva eleganti articoli per la casa, quando si accorse che una piccola catena di caffetterie della regione nel nord-ovest degli Stati Uniti, la Starbucks Coffee, Tea and Spice Company, acquistava da loro le macchine per il caffè americano. Schultz visitò l’azienda, rimase colpito dalla qualità del caffè e risuscì a convincere la piccola azienda ad assumerlo come direttore per il marketing. Secondo la retorica di Starbucks, Schultz andò in Italia per partecipare a una fiera e si innamorò della “cultura del bar” italiana. Schultz ha dedicato un intero capitolo del suo libro di Pour Your Heart into It (“Mettici il cuore”) all’argomento: parla con trasporto quasi religioso del «forte aroma sensuale» dell’espresso bevuto in Italia, e del «grandioso teatro» che sono i bar italiani. «Avvertii la necessità inespressa di romanticismo e senso di comunità», ha scritto Schultz nel suo libro, «gli italiani avevano trasformato il caffè in una sinfonia, ed era un’esperienza piacevole. Starbucks suonava nella stessa sala concerti, ma senza un sezione d’archi».
Tornato negli Stati Uniti, Schultz convinse i suoi soci di Starbucks ad aprire un bar dove vendere caffè espresso. L’azienda gli permise di aprire un nuovo negozio, che però considerava solo una distrazione. Nel corso degli anni, Schultz tornò in Italia, per poi lasciare Starbucks e aprire una catena di caffetteria a Seattle che chiamò Il Giornale, dal nome del quotidiano con sede a Milano. Gli ex soci di Starbucks investirono nella start-up, ma Schultz finì per acquisire Strabucks da loro, costruendo l’azienda che conosciamo oggi.
Anche se può sembrare semplice folklore aziendale, secondo Srere rispolverare la storia è una strategia di marketing azzeccata, soprattutto per un’azienda americana che si prende il rischio di provare a vendere l’espresso agli italiani. «Stando alla narrazione di Schultz, in sostanza, Starbucks è tornata a casa», ha detto Srere. «Quando cerchi di espandere la tua azienda in un paese in cui non sei mai stato hai una sola possibilità: se sbagli, sei fuori».
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