L’Italia è stata condannata per il rapimento di Abu Omar
Dalla Corte europea dei diritti dell'uomo: il governo se vuole può fare ricorso
L’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per il rapimento e la detenzione illegale di Osama Hassan Mustafa Nasr, conosciuto come Abu Omar, l’imam egiziano rapito il 17 febbraio del 2003 a Milano da alcuni agenti della CIA. Dopo il rapimento, Omar fu trasportato in Egitto dove fu detenuto, interrogato e sottoposto a torture. Secondo la Corte, scrive l’ANSA, «le autorità italiane erano a conoscenza che Abu Omar era stato vittima di un’operazione di “extraordinary rendition” (cioè un rapimento e detenzione illegale compiuti dagli Stati Uniti con la collaborazione di un altro paese, ndr) cominciata con il suo rapimento in Italia e continuata con il suo trasferimento all’estero».
L’Italia ha violato in totale cinque articoli della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU): quelli che prevedono la proibizione di tortura o trattamenti inumani e degradanti (articolo 3), il diritto alla libertà e alla sicurezza (articolo 5), il diritto al rispetto della vita privata e familiare (articolo 8), il diritto a un equo processo (articolo 6), il diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale (articolo 13). In particolare, l’Italia avrebbe applicato il legittimo principio del segreto di Stato in modo improprio: in modo cioè da assicurare che i responsabili per il rapimento, la detenzione illegale e i maltrattamenti ad Abu Omar «non dovessero rispondere delle loro azioni». I giudici hanno quindi stabilito che l’Italia dovrà pagare 70 mila euro a Abu Omar e 15 mila a sua moglie per danni morali, oltre a 30 mila euro per le spese legali sostenute dai ricorrenti. La sentenza diventerà definitiva fra tre mesi se lo Stato italiano non chiederà e otterrà un riesame dalla Corte di Strasburgo.
La storia di Abu Omar, dall’inizio
Il 17 febbraio 2003 Abu Omar, che era sospettato di avere legami col terrorismo, stava andando nella moschea di Milano di cui era imam (leader spirituale) per la preghiera di mezzogiorno. Abu Omar era (ed è tuttora) un cittadino egiziano, ma aveva residenza in Italia, dove si trovava con lo status di rifugiato. Quella mattina, mentre camminava per la strada, venne avvicinato da un uomo, sceso da un’auto FIAT rossa, che parlava italiano e si qualificò come poliziotto, mostrando un tesserino. Gli chiese di mostrare i documenti e poi di sdraiarsi a terra. Poi, improvvisamente, Abu Omar venne bloccato, bendato, sollevato di peso da due uomini che arrivarono alle sue spalle e trascinato in un furgone che aspettava lì vicino. Nessuno doveva assistere alla scena, probabilmente, ma una donna che frequentava la moschea e che abitava nella via del rapimento, al terzo piano, vide tutto dal balcone.
Abu Omar venne portato con il furgone alla base militare NATO di Aviano, in provincia di Pordenone, da agenti della CIA statunitensi. Da lì venne portato in aereo prima a Ramstein, in Germania, e poi al Cairo, in Egitto. La rivoluzione di piazza Tahrir era ancora lontana e in Egitto era saldo al governo Hosni Mubarak, presidente da oltre vent’anni. L’Egitto era uno degli alleati più stretti degli Stati Uniti in Medio Oriente: gli Stati Uniti collaboravano in particolare con i servizi segreti del paese, che erano molto attivi nella lotta all’estremismo islamico e al fondamentalismo violento.
L’ex imam rimase nelle carceri egiziane per quattordici mesi, senza alcuna accusa formale né alcun processo, e senza che sua moglie, i suoi due figli rimasti in Italia e i suoi amici e familiari avessero idea di dove fosse. Venne prima messo ai domiciliari nell’aprile del 2004, poi riportato in carcere circa venti giorni dopo, dopo aver chiamato diverse volte al telefono la moglie e i familiari per dire che si trovava in Egitto. Rimase in un’altra prigione nei pressi del Cairo per quasi altri tre anni. Venne rilasciato definitivamente solo nel 2007, stabilendosi ad Alessandria.
Le indagini
Le indagini dei magistrati italiani cominciarono quando la moglie di Abu Omar, Nabila Ghali, denunciò la scomparsa del marito un giorno dopo il fatto, ma per lunghi mesi non portarono a nulla. Dopo il primo rilascio di Abu Omar, nel 2004, l’uomo chiamò e iniziò a raccontare la sua storia alla moglie: in questo modo, i magistrati ebbero una prima versione dei fatti. Il governo Berlusconi negò di aver mai saputo nulla o di aver collaborato in alcun modo con il rapimento di Abu Omar. Alla fine del 2006, i magistrati italiani individuarono dopo lunghe indagini un ufficiale dei carabinieri, Luciano Pironi, che ammise poi di aver fermato Abu Omar mentre camminava per la strada, con il pretesto di controllare i suoi documenti d’identità, e di averlo poi condotto verso il furgone utilizzato nel rapimento (Pironi ha collaborato con gli inquirenti ed è stato condannato con pena sospesa). Da lì, e dalle informazioni date da Abu Omar alla moglie, vennero ricostruite dai magistrati una rete di agenti statunitensi coinvolti nel caso e diverse operazioni, riunioni e decisioni dei servizi segreti italiani per sostenere l’operazione. Nella vicenda è stato coinvolto – e condannato per favoreggiamento – anche l’ex vicedirettore di Libero Renato Farina.
Il processo
Le indagini, guidate dai procuratori aggiunti Armando Spataro e Ferdinando Enrico Pomarici, portarono all’apertura di un processo, nel giugno del 2007, che iniziò a Milano contro i presunti responsabili del rapimento: fu un caso molto seguito, non solo perché portò alle dimissioni dell’allora capo del SISMI Niccolò Pollari, ma anche perché era la prima volta nel mondo in cui un’operazione del programma dei rapimenti illegali della CIA – le cosiddette extraordinary rendition – era al centro di un processo. Quanto successo nel processo e nei processi collegati, tra coinvolgimento del governo e dei servizi segreti, ricorsi alla Cassazione e segreto di Stato, è piuttosto complicato. I vertici dei Servizi segreti italiani furono comunque assolti, mentre quelli della Cia in Italia vennero condannati. Due di loro, poi, sono stati graziati prima dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e poi da Sergio Mattarella.
Scrive il Corriere della Sera:
È la seconda volta che uno Stato del Consiglio d’Europa viene condannato per avere cooperato alle extraordinary renditions organizzate dalla Cia dopo l’11 settembre 2001: già la Macedonia, infatti, era stata ritenuta responsabile della violazione degli articoli 3, 5, 8 e 13 per la condotta di propri agenti che nel dicembre 2003 arrestarono un cittadino tedesco sospettato di terrorismo, Khaled El Masri, gli negarono accesso a giudici e avvocati, e poi lo consegnarono alla Cia che lo trasferì in un campo di detenzione in Afghanistan, dove fu soggetto a trattamenti inumani sino a quando emerse, peraltro, che in quel caso si trattava di un errore di persona.