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  • Lunedì 22 febbraio 2016

Il nuovo romanzo di Giovanni Floris

Tre amici, una serie di personaggi improbabili e una squadretta di calcio nel cuore della Sardegna

Feltrinelli ha pubblicato il libro La prima regola degli Shardana di Giovanni Floris, giornalista televisivo autore di diversi saggi e del romanzo Il confine di Bonetti.

Il libro ha come protagonisti tre amici romani che, conosciutisi ai tempi del liceo, hanno coltivato la loro amicizia fino alle soglie dei cinquant’anni: Raffaele, uomo dai molti fallimenti, che vive grazie ai soldi della moglie e soprattutto del ricchissimo suocero costruttore, Giuseppe, giornalista di successo negli anni Novanta, poi parlamentare europeo, adesso conduttore di un programma televisivo preserale seguitissimo di interviste a personaggi famosi, e Sandro, avvocato sempre al limite della legalità. A loro si aggiunge la sorella di Sandro, Michela, di 15 anni più giovane, nemmeno troppo segretamente innamorata di Raffaele.

La storia si svolge in Sardegna, a Prantixedda Inferru, un paesino nel cuore dell’Ogliastra di cui sono originari i genitori di Raffaele, che è appena diventato proprietario della squadra di calcio locale accordandosi segretamente con quello che era la vittima delle vessazioni dei tre amici al liceo (Attilio Crisponi, soprannominato dagli amici “Merda”), e nel frattempo è diventato imprenditore e politico di successo.

In questo estratto, Raffaele va dal suocero a chiedergli i soldi per finanziare l’operazione.

***

Raffaele non glielo vuole spiegare, a Giuseppe, com’è diventato proprietario di una squadra di calcio, esattamente. Non gli vuole dire della scena di questa mattina con i suoi genitori. Ma neanche della scena di domenica pomeriggio con suo suocero. Perché se glielo dice si fa pena da solo. Come se ne faceva mentre parlava al vecchio.

“Mariano, ti assicuro, questa è la volta buona.”
Il cavalier Mariano Quattrociocchi, il padre di sua moglie Rosy, sta giocando alla PlayStation del nipote sprofondato (lui e il suo enorme pancione) nel divano di pelle bianca della sua villa. Raffaele si sporge dalla poltrona al suo fianco per farsi sentire senza dover urlare.
A pranzo c’erano tutti: Raffaele, Rosy (all’anagrafe, ovviamente, Rosaria; per gli amici del marito semplicemente la Stronza), Lupo (il fratello di Rosy) e il figlioletto di lui, Mariano junior. Mariano junior è il figlio di Lupo e di una dominicana che, dopo avergli svuotato casa e conto in banca, se n’è andata lasciando all’ex marito un figlio di tre anni e un biglietto sul tavolo: “Vaffanqulo, scemo”. Beata lei.
Ovviamente al pranzo della domenica erano presenti anche il cavalier Quattrociocchi e signora, Tilde, una vecchietta grossa grossa, sempre zitta, con le caviglie gonfie e lo sguardo triste perennemente rivolto verso il basso. I suoceri di Raffaele vivono nel cuore dei Parioli in una villetta liberty a due piani, assistiti da una squadra di servitori bengalesi in livrea.
Appena Lupo e Mariano junior se ne sono andati, il cavaliere si è messo a giocare a Call of Duty, il videogame in cui gli americani cercano di uccidere più russi possibile. Mentre gioca mangia olive dolci, sputando i noccioli per terra. Il bengalese aspetta lo sputo, fermo sugli attenti dietro al divano, e quando il nocciolo arriva al suolo, finiti i rimbalzi, si china a raccoglierlo, asciugando i residui di saliva dal marmo con una salvietta. Poi torna sull’attenti, nella posizione di partenza.
“Stai a fa’ ’n’antra cazzata, Tequila.” Quattrociocchi chiama così il genero per ricordargli la sua unica impresa commerciale riuscita, e poi fallita. Tanto per rigirare il dito nella piaga.
“Mariano, ti assicuro, l’idea ci sta. Prantixedda Inferru è il posto ideale, il calcio è l’unico prodotto che si vende oggigiorno.”
“Mortacci tua!” urla il cavaliere sterzando il controller, per evitare il colpo di un cecchino russo che invece lo prende in piena fronte. Game over.
Fosse così facile, pensa Raffaele. Lo guarda con più odio del solito. L’uomo dal cui capriccio dipende la sua salvezza.
Mariano Quattrociocchi del cavaliere ha ben poco. Non è senza paura – per esempio ha un sacro terrore di Carabinieri e Guardia di finanza – e tantomeno senza macchia, avendo fatto fortuna nell’edilizia negli anni settanta-ottanta, sporcandosi le mani non solo di calce.
Raffaele sa che il Tom-Tom del fallito lo sta spedendo dritto verso il posto di zerbino nell’organigramma di famiglia. Se non gli riesce questo affare, non si risolleverà mai più. E i soldi per sponsorizzare la squadra e ristrutturare un po’ quello che passa per uno stadio o glieli dà Quattrociocchi o non glieli dà nessuno.
“Cavaliere…” riprende, facendosi forza.
“A Tequilaaaaa, sei pieno de buffi, hai rotto er cazzo,” mugugna il cavaliere, ma nei suoi occhi porcini c’è uno sguardo furbo. Tenta di alzarsi, ma il divano lo attira a sé, come se cercasse di fagocitarlo.
Panzone di merda, pensa Raffaele porgendogli invece la mano perché si agganci e si faccia sollevare. Quattrociocchi si mette in verticale. Si stabilizza. Fa per avviarsi verso la camera da letto. Dopo tutto quel moto ad accoppare russi, ci vuole una siesta.
“Penso che invece l’affare ci sia,” riesce a dirgli suo genero. “La squadra già c’è, lo stadio pure, vanno solo… Rimessi in sesto. Il terreno non ci costa praticamente niente.”
“Ecco,” fa il cavaliere, fermandosi. “A chi jaa hai data l’inculata? Com’è che nun paghi ’n cazzo pe ’sto terreno?”
“È dei miei.”
“Dei tuoi che?”
“Dei miei genitori.”
“Alla faccia del cazzo,” chiosa il cavaliere alzando la voce. “Er Tequila s’è messo a giocà pesante… Li voi rovinà pure a loro!”
“Ti assicuro, Mariano…”
“Assicura ’sta ceppa, Tequila,” conclude il cavaliere, portando entrambe le mani all’inguine. Fa cenno al bengalese di dargli il braccio, e riparte.
La sua unica speranza sta scomparendo oltre la porta che dà sul corridoio e Raffaele resta lì, in piedi in mezzo al salone. Incrocia per un attimo lo sguardo di Rosy, ancora seduta a tavola con la madre. Lei sta sfogliando una rivista scandalistica poggiata sul tavolo, la signora Tilde fissa per terra, strofinandosi le nocche delle mani come se stesse sgranando un rosario immaginario.
Gli occhi di Rosy dicono a quelli di Raffaele: “Che poveraccio che sei”. Poi la donna esce e se ne va in cucina.
Raffaele non ci fa caso, torna a guardare quel ciccione che si allontana assieme al suo business.
Tira un profondo respiro e decide di raccontare un po’ (ma solo un po’) di verità.
“Mi dicono che Feliciani sta pensando di investire nella zona!” gli urla dietro.
Silenzio. Poi il cavaliere si ferma. Si gira verso il genero.
“Feliciani, hai detto?”
“Proprio lui.” Raffaele prova a restare impassibile.
“E nun te lavi la bocca prima de fa’ quer nome?” e ride. Ride da solo. La sua risata è come uno scatarro. Tanto che si piega su se stesso, e sembra mancargli l’aria.
Magari, maledetto stronzo. Magari ci rimani, pensa Raffaele. Ma il bengalese gli salva la vita dandogli tre scappellotti sulla schiena.
“Stamme a sentì, Tequila,” si riprende il cavaliere, “quanto te serve?”
“Poco, cavaliere… trenta, quarantamila… per iniziare!”
“Poco?” Quattrociocchi potrebbe dargliene dieci volte tanto senza che il suo conto in banca se ne accorga. “Saranno pochi quanno saranno i tuoi, Tequila. Per ora so’ i miei, e siccome so’ tanti, te ne do ventimila. Ma sai perché te li do?”
“Perché?” chiede Raffaele, realmente incuriosito.
“Perché so che nun me li ridarai mai. E se nun me li ridai, io me prendo lo stadio. E il terreno. E tuo padre le pecore le porta a pascolà da ’n’antra parte.”
“Mio padre non pascola pecore,” si limita a ribattere Raffaele, guardando Quattrociocchi dritto negli occhi, questa volta.
“’O farà… ’O farà!” e il cavaliere, a quanto pare però un po’ turbato, si gira e riprende ad arrancare verso la pennica, sostenuto dal maggiordomo.
Raffaele si immagina come il russo del videogioco. Pam! un colpo alla nuca del vecchio, che cade a terra. Rosy strilla, e pam! pure a lei. No, a lei forse basterebbe un calcio in culo. A Tilde la lascio vivere, pensa. Mi sembra una povera crista, come me. A Lupo neanche lo vado a cercare. Non vale la pallottola.
C’è qualcosa comunque che non capisce. Ha ottenuto i soldi, ma si sente sconfitto. Finché la signora Tilde alza gli occhi dal suo rosario di nocche e con un dito lo chiama a sé.
“Hai capito che t’ha detto?” gli domanda in un sussurro quando lo ha vicino.
Raffaele la guarda interdetto.
“Ha detto che i soldi te li dà,” chiarisce la donna.
“Infatti!” sottolinea lui. “Quindi va bene, no?”
“Non ti fidare, Raffa… Se te li dà ha in mente qualcosa…”
“Ad esempio?”
“Ad esempio che te fa fallì e il terreno se lo prende lui. Je ha telefonato…” gli fa con un lo di voce. Si sentono i tacchi di Rosy in avvicinamento dalla cucina. Tilde si interrompe, si guarda intorno, si accerta che la figlia non la possa sentire. Sembra spaventata, pensa Raffaele, ma da cosa? “È vera ’sta storia de Feliciani?” riprende la vecchia, a bassa voce.
Raffaele sussurra a sua volta, chiedendosi perché stia sussurrando: “Sì, abbastanza…”.
“E allora se c’è un affare di mezzo co’ Feliciani te taja fuori e prova a farlo lui…” Gli stringe le mani e aggiunge: “Svegliati Raffaele, ti prego… Svegliati!”.
Poi Rosy compare sulla soglia e la donna gli lascia in fretta le mani, torna a contarsi le nocche.
E così Raffaele scopre tre cose. La prima è che, se possibile, la signora Tilde odia il vecchio quanto lo odia lui. La seconda è che quel bastardo i soldi glieli darà. La terza è che proverà a fregargli l’affare.
Ma Quattrociocchi, si dice con perversa soddisfazione, stavolta sta un passo indietro. Per ora nemmeno lo sa qual è l’affare. Nessuno lo sa. Lo sa solo il Merda.

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano