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  • Domenica 21 febbraio 2016

Mokhtar Belmokhtar è vivo o morto?

Il governo americano non ha ancora confermato se il leader terrorista algerino sia stato ucciso in un attacco aereo in Libia, sollevando i soliti dubbi sull'efficacia degli attacchi mirati

di Missy Ryan - Washington Post

Mokhtar Belmokhtar
Mokhtar Belmokhtar

Alcuni membri del Joint Special Operations Command (JSOC), un’unità militare degli Stati Uniti che si occupa di pianificare le operazioni speciali delle forze armate, aveva finalmente trovato l’uomo imprendibile: ne erano certi. Il leggendario miliziano algerino Mokhtar Belmokhtar era sfuggito alla cattura in nord Africa e nel Sahel per una decina di anni, smentendo gli annunci della sua morte e continuando la sua campagna di rapimenti e guerriglia. Gli Stati Uniti e i loro alleati lo avevano già mancato in passato. Lo scorso giugno, però, il JSOC credeva di aver avvistato Belmokhtar mentre andava verso una fattoria polverosa fuori Agedabia, nell’est della Libia, dove era previsto un incontro di un gruppo di miliziani. Da diversi giorni gli ufficiali americani erano in stato di grande allerta: Belmokhtar e i suoi collaboratori sono famosi per essere addestrati a evitare le comunicazioni per via elettronica e per occultare i loro spostamenti, ma qualcuno aveva commesso un errore.

Due jet americani F-15 sganciarono diverse bombe da oltre 225 chili e riuscirono a distruggere la fattoria uccidendo almeno cinque miliziani. A otto mesi di distanza, tuttavia, i militari e le agenzie di intelligence americane non sono ancora sicuri che Belmokhtar sia davvero rimasto ucciso nell’operazione. Il dibattito interno che ha seguito l’attacco è un esempio delle difficoltà connaturate agli attacchi mirati in posti dove la presenza militare degli Stati Uniti è limitata, come Libia, Siria, Yemen o Pakistan. «Ci abbiamo provato, ma non siamo mai stati davvero in grado di confermare la sua morte», ha detto un funzionario americano che come altri ha chiesto di rimanere anonimo.

Questa incertezza dimostra quanto a volte siano limitate le informazioni di intelligence in merito agli attacchi che sono diventati il marchio di fabbrica di Obama per rispondere alle minacce terroristiche oltreoceano. Risultati incerti come questo potrebbero diventare più comuni se il prossimo presidente dovesse portare avanti la stessa strategia antiterrorismo di Obama, che negli ultimi anni ha cercato di ridurre al minimo l’impiego di truppe americane sfruttando i raid delle forze speciali e gli attacchi aerei per colpire gruppi di jihadisti dall’Asia meridionale all’Africa. Anche gli attivisti per le libertà civili fanno pressione per avere maggiori dettagli sulle uccisioni “mirate”. Mercoledì 17 febbraio una corte d’appello federale americana ha sentito le argomentazioni delle due parti in una causa intentata dalla American Civil Liberties Union (ACLU) per una maggior trasparenza del governo sugli attacchi compiuti con i droni.

Se da una parte diversi funzionari sono fiduciosi del fatto che Belmokhtar sia stato ucciso, i dubbi di altri sono stati sufficienti per far sì che l’amministrazione Obama non dichiarasse di aver raggiunto l’obiettivo. L’eventualità che Belmokhtar non sia tra le persone morte o ferite il giorno dell’attacco solleva delle domande inquietanti su chi possa essere stato colpito al suo posto, e su quali possano essere state le conseguenze su suoi sostenitori, che dallo scorso autunno hanno compiuto diversi attacchi molto violenti. Emily Horne, una portavoce della Casa Bianca, ha detto che l’amministrazione di Obama continuerà a lavorare per fermare i piani dei miliziani contro gli Stati Uniti «ogni qualvolta sarà necessario, usando tutti gli strumenti a nostra disposizione». Un ex alto ufficiale americano ha detto che gli attacchi a distanza sono uno dei pochi strumenti a disposizione degli Stati Uniti in zone che non consentono la presenza americana sul campo.

Le munizioni di precisione lanciate da droni o da jet da combattimento hi-tech, secondo chi le difende, comportano minori danni collaterali rispetto ai bombardamenti usati in passato. «Il problema è che avvengono in zone che non hanno un governo e dove non abbiamo un alleato chiaro» che può aiutare a verificare il risultato, ha detto l’ufficiale. E come se non bastasse, in quelle zone il governo americano ha poca visibilità. «C’è una questione più grande legata ai limiti della capacità di intelligence», ha raccontato Jameel Jaffer, un avvocato di ACLU. «Non si riesce a scoprire molto dalle operazioni di intelligence condotte a 4.500 metri di altezza, e le risorse umane in termini di intelligence sono molto limitate in alcuni dei posti dove vengono compiuti gli attacchi».

Braccato

L’attacco del 14 giugno è stato il culmine di un’operazione internazionale durata anni contro Belmokhtar, che è soprannominato Mister Marlboro, l’Imprendibile, e Guercio, per essere rimasto sfigurato al volto da giovane maneggiando un’arma. Originario dell’Algeria, Belmokhtar fu addestrato in Afghanistan all’inizio degli anni Novanta e combatté con un gruppo islamista nella decennale guerra civile algerina, prima di unirsi a un altro gruppo che sarebbe diventato noto con il nome di al Qaida nel Maghreb Islamico (AQIM). Belmokhtar finanziava le sue attività grazie al rapimento e ai riscatti di stranieri (per esempio rapì due occidentali che lavoravano per le Nazioni Unite), e in passato era conosciuto per il suo prolifico contrabbando di sigarette e di altri beni attraverso i permeabili confini del nord Africa e del Sahel. Belmokhtar riusciva ad assicurarsi il sostegno delle popolazioni locali sposando donne delle tribù locali.

Vista la sua importanza, i funzionari dell’intelligence americana credevano che Belmokhtar sarebbe stato più difficile da rimpiazzare rispetto a miliziani di gruppi come lo Stato Islamico, che possono contare su un numero maggiore di sostenitori. Per questo Belmokhtar era diventato un obiettivo interessante. Nel 2003 il governo americano considerò l’ipotesi di ucciderlo con un attacco aereo nel nord del Mali, ma i timori per le conseguenze politiche bloccarono l’operazione. Dieci anni dopo, alcuni miliziani sotto il comando di Belmokhtar assediarono una centrale di gas in Algeria, uccidendo tre cittadini statunitensi e spingendo le autorità giudiziarie americane a presentare accuse contro Belmokhtar in una corte federale di New York. Gli agenti dell’FBI e i procuratori avrebbero voluto incriminarlo prima dell’attacco alla centrale algerina, ma ci vollero anni prima che il dipartimento di Giustizia americano approvasse la denuncia penale. Un portavoce del Dipartimento contattato dal Washington Post non ha voluto commentare.

Belmokhtar «ha continuato a spingere al limite l’attività jihadista nel Sahara e in nord Africa», sfruttando in modo innovativo i riscatti e gli attacchi coordinati su larga scala nella zona, ha raccontato Geoff Porter, presidente della società di consulenza North Africa Risk Consulting. L’ambizioso e carismatico Belmokhtar, 43 anni, ebbe diversi scontri con altri membri di al Qaida in Africa e contribuì alla formazione di due nuove cellule terroristiche: al Mulathameen, e, più di recente, al Murabitoun.

I paesi africani alleati degli Stati Uniti provarono a catturare Belmokhtar senza successo. Nel 2013 il governo del Ciad annunciò la morte di Belmokhtar durante un’operazione in Mali, ma poi Belmokhtar si fece rivedere, ancora vivo. Belmokhtar fu dichiarato morto erroneamente altre volte. «Lo inseguiamo da molto tempo», ha detto l’ex alto ufficiale americano, «In alcuni momenti sapevamo dove si trovava, o pensavamo di saperlo, ma non siamo riusciti a completare le procedure burocratiche per agire e sostenere i nostri alleati» abbastanza rapidamente. Secondo un ex funzionario del dipartimento della Difesa, i leader militari degli Stati Uniti furono per anni restii a catturare Belmokhtar, perché durante l’impegno americano nelle guerre in Iraq e Afghanistan il miliziano era considerato una minaccia marginale. Prima dell’attacco di giugno, funzionari americani hanno raccontato di aver rintracciato Belmokhtar più volte per diversi anni, per esempio nel sudovest della Libia. Nell’ultima operazione operazione di giugno gli Stati Uniti hanno collaborato strettamente con la Francia, sfruttando la storica presenza militare e di intelligence dei francesi nella regione. «Facciamo davvero molta attenzione a fare questi interventi in modo appropriato», ha raccontato un funzionario della Difesa americana, «nessuno vuole rischiare una perdita strategica solo per ottenere un vantaggio tattico».

Le autorità americane ritenevano che le persone che si trovavano ad Agedabia per l’incontro di giugno – meno di dieci –  fossero miliziani e obiettivi legittimi. Normalmente i funzionari americani analizzano il DNA ritrovato nel luogo dell’attacco per stabilire l’identità dell’obiettivo, come successo dopo il raid in Pakistan che uccise il fondatore di al Qaida, Osama bin Laden. Nella maggior parte dei casi però la “valutazione del danno sul campo di battaglia” è fatta tramite informazioni di intelligence: per raggiungere l’obiettivo sono necessarie fonti molto affidabili, ma è un lavoro molto incerto. La burocrazia «cerca di ottenere un equilibrio tra le diverse prove», ha raccontato un alto funzionario della Difesa, e di solito si arriva a una conclusione definitiva rapidamente. Lo scorso novembre, dopo che alcuni aerei americani avevano colpito Abu Nabil al Anbari, il capo dello Stato Islamico in Libia, il Pentagono fu in grado di confermarne la sua morte nel giro di qualche settimana. Ci è voluto un tempo simile lo scorso autunno per determinare l’esito di un attacco in Siria contro Mohammed Emwazi, il miliziano britannico soprannominato “Jihadi John”.

Ma non sempre le cose sono così facili. Nel 2007 il Pentagono aveva inviato un piccolo gruppo di forze americane in Somalia, per stabilire se Aden Ayrow – un importante miliziano somalo – fosse stato ucciso nel corso di un attacco aereo. Qualche mese dopo Ayrow fu nominato capo per le operazioni di al Qaida e ordinò il massacro di diversi cittadini stranieri, prima di essere ucciso in un’altra operazione l’anno dopo. Nel 2009 si pensò che un attacco con un drone della CIA in Pakistan avesse ucciso Saab bin Laden, il figlio del fondatore di al Qaida, ma furono necessarie intercettazioni delle comunicazioni della famiglia di bin Laden per confermare la notizia. «Se non otteniamo una conferma subito, diventa molto difficile», ha spiegato un altro funzionario della Difesa, «e più il tempo passa, più diventa difficile». Secondo Jeffer di ACLU succede ancora più spesso con i cosiddetti “signature strike”, attacchi autorizzati dalle autorità americane sulla base di informazioni che rivelano attività di miliziani e non la presenza di un obiettivo specifico. In questi casi «l’identità dei bersagli non è nota prima e neanche dopo l’attacco», ha detto Jeffer.

Il costo in termini di vite umane di un attacco sbagliato è alto. Nel 2014 gli Stati Uniti pagarono oltre un milione di dollari per risarcire le famiglie delle persone uccise per errore in un attacco durante una festa nuziale in Yemen. Le difficoltà nel confermare l’esito di un attacco in diverse aree potrebbe essere uno dei motivi che talvolta hanno spinto le autorità americane a optare per le forze speciali al posto dei droni.

Astuto

Dopo l’attacco ad Agedabia, le autorità americane furono rinfrancate dalla notizia che almeno una delle mogli di Belmokhtar, che aveva di recente partorito il suo figlio più piccolo, era tornata a casa dalla famiglia, e soprattutto che una persona vicina a Belmokhtar aveva chiesto a diverse persone di partecipare al funerale per la morte del miliziano. Lo scorso ottobre un canale televisivo algerino trasmise un messaggio di un portavoce di al Qaida in cui si lasciava intendere che Belmokhtar fosse morto.

Oggi, sulla base di questi indizi, i funzionari del Dipartimento di Stato americano e dell’FBI ritengono che Belmokhtar sia stato effettivamente ucciso. Quest’anno il Dipartimento di Stato lo ha addirittura eliminato dalla sua lista delle persone più ricercate, e l’FBI ha fatto lo stesso. Nei giorni seguenti all’attacco un portavoce del Pentagono disse alla stampa che le prime informazioni raccolte lasciavano pensare che Belmokhtar fosse morto. Il fatto che il suo corpo non fosse stato trovato non è stata una sorpresa, vista la dimensione delle bombe lanciate sull’obiettivo. Altri sostengono che Belmokhtar sia sopravvissuto all’attacco iniziale ma che sia morto in seguito per le ferite riportate. «Quando ne saremo sicuri al cento per cento daremo la notizia come certa al cento per cento», ha detto l’alto funzionario della Difesa.

Tuttavia al Comando dell’Africa degli Stati Uniti (AFRICOM) che opera anche in Libia, non tutti sono così sicuri della morte di Belmokhtar. I funzionari sapevano che se avessero dato un annuncio frettoloso e poi Belmokhtar fosse ricomparso sarebbero stati ritenuti responsabili. Quindi hanno preferito temporeggiare, chiedendo altre analisi alle agenzie di intelligence. AFRICOM, il Comando per le Operazioni Speciali – che supervisiona il JSOC – e la CIA non hanno voluto commentare l’operazione.

C’erano diversi motivi per dubitare del fatto che Belmokhtar fosse stato ucciso. Ansar al Sharia, un gruppo islamista estremista che opera in Nord Africa, comunicò i nomi dei suoi sette militanti uccisi nell’attacco ma quello di Belmokhtar non c’era. Altri gruppi negarono la morte di Belmokhtar: secondo AQIM, Belmokhtar sarebbe «vivo e starebbe bene». Ibrahim Jathran, il capo di una potente milizia di Agedabia, disse che i feriti erano noti alle autorità ed erano tutte persone del posto, ad esclusione forse di un tunisino. «Ci piacerebbe che Belmokhtar fosse stato ucciso, ma non ne abbiamo le prove», ha detto in un’intervista lo scorso autunno. Rudolph Atallah, un ex direttore per l’anti-terrorismo in Africa del Pentagono, ha detto che un’altra ragione per essere scettici viene dal fatto che i sostenitori di Belmokhtar non ne celebrarono il martirio: «È il riconoscimento definitivo: il martirio è importante per queste persone, è ciò per cui vivono».

Col passare del tempo sono emerse altre ragioni per dubitare della morte di Belmokhtar. L’estate scorsa al Murabitoun disse che Belmokhtar era stato scelto come capo dell’ultima evoluzione del gruppo jihadista. Per molti funzionari dell’intelligence americana, notizie come questa alimentano i dubbi sull’esito del operazione. A novembre, dopo l’uccisione di almeno venti persone in un hotel in Mali nel corso di quello che sembra essere stato un attacco congiunto di al Murabitoun, AQIM e un altro gruppo estremista, il ministro della Difesa francese Jean-Yves Le Drian aveva detto di credere che Beltmokhtar fosse vivo e probabilmente responsabile del massacro. A metà gennaio dei miliziani legati ad al Murabitoun hanno attaccato un hotel e un locale in Burkina Faso. Per il momento le autorità americane continuano a cercare indicazioni che confermino in modo definitivo che Belmokhtar sia morto, o vivo. Un funzionario dell’intelligence ha detto di essere ancora «abbastanza sicuro» che Belmokhtar sia morto, «ma c’è un margine di errore, e Belmokhtar è astuto: non mi sorprenderei se rispuntasse fuori».

 

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