La crisi dei migranti non è finita
I motivi che l'estate scorsa portarono centinaia di migliaia di persone in Europa sono ancora tutti lì: le "soluzioni" adottate dall'Europa sono state un fallimento
Diversi centri studi internazionali hanno avvertito che nel corso della primavera e dell’estate del 2016 assisteremo probabilmente a un nuovo aumento di persone che cercheranno di entrare in Europa via mare o via terra dal Medio Oriente, come già accaduto nell’estate del 2015 (questo inverno i numeri sono calati, pur rimanendo molto alti). Previsioni del genere si basano sul fatto che i problemi che hanno generato il flusso nel 2015 non sono stati risolti, e che l’Unione Europea non ha trovato misure efficaci per gestire meglio l’arrivo e il ricollocamento dei richiedenti asilo arrivati in Grecia dalle coste turche oppure a Lampedusa dalla Libia. Sul Washington Post, per esempio, i giornalisti Griff Witte e Anthony Faiola hanno scritto un lungo articolo per spiegare che secondo loro l’Europa «non è meglio attrezzata» rispetto al 2015 e che anzi «la situazione è persino peggiore: secondo diversi esperti l’Europa è impreparata a gestire la prevedibile recrudescenza di una crisi che è più grave di tutte quelle affrontate a partire dal Secondo dopoguerra».
I problemi ancora in ballo
Quasi tutti i motivi che l’anno scorso hanno spinto centinaia di migliaia di siriani, nordafricani e abitanti del Medio Oriente a emigrare sono rimasti irrisolti: la guerra in Siria ha continuato a interessare buona parte del paese, e nonostante nell’ultimo anno si siano intensificati gli sforzi diplomatici – fino al raggiungimento di piccoli e fragili accordi – non è possibile prevedere la sua fine a breve termine. La situazione è rimasta complicata anche in altri paesi da cui sono arrivati moltissimi richiedenti asilo, fra cui Iraq, Afghanistan ed Eritrea.
C’è anzi motivo di credere che l’arrivo di nuove persone sarà in qualche modo più facile rispetto al passato. In alcune città costiere turche sono nati da mesi piccoli business attorno ai bisogni dei rifugiati, oltre ai normali giri di trafficanti: ci sono negozi che vendono giubbotti salvagente – a volte finti, riempiti solamente di polistirolo – affittacamere, ristoratori e mediatori vari, che al contempo hanno reso più agile e meno costosa la parte più complicata della tratta, cioè l’inizio. Come ha spiegato bene il ricercatore Fabrice Balanche su Business Insider, inoltre, «i richiedenti asilo che sono già arrivati in Europa fanno da “testa di ponte” per quelli che ancora si trovano in Siria o nei campi profughi dei paesi vicini, fornendo dritte e soldi ad amici e parenti che cercano di raggiungerli. Molti sono anche già in grado di fare richiesta per il ricongiungimento familiare, cosa che potrebbe fornire dei permessi a centinaia di migliaia di nuove persone».
Circa un terzo dei richiedenti asilo arrivati via mare in Europa nel corso del 2015 – più di un milione di persone, in totale – erano siriani, ma non sono arrivati direttamente dalla Siria: molti di loro erano già scappati dalla guerra civile negli anni precedenti, e si trovavano in enormi campi profughi nei paesi limitrofi o vicini alla Siria come Libano, Giordania, Egitto e soprattutto Turchia. In questi mesi però i campi profughi di questi paesi non si sono “svuotati”: secondo le stime dell’Agenzia ONU per i rifugiati (UNHCR), nel gennaio del 2016 il numero dei richiedenti asilo è leggermente calato rispetto a un anno prima in Libano – dove resta comunque altissimo, attorno al milione di persone – Giordania, Egitto e Iraq, ma è aumentato di molto in Turchia secondo fonti governative locali: per il momento sono circa 2,5 milioni, una cifra notevolmente più alta dei 1,5 milioni presenti in Turchia nel gennaio 2015, e probabilmente causata dagli attacchi della Russia a zone controllate dal governo e dall’instabilità di moltissime altre zone. Altre persone potrebbero essere costrette a scappare da zone come Idlib e Aleppo, in cui ancora si sta materialmente ancora combattendo. Balanche sospetta che la Turchia abbia gonfiato queste stime per ottenere più aiuti dall’Unione Europea rispetto a quelli concordati negli scorsi mesi, ma si parla comunque di cifre altissime.
Un grafico del Washington Institute mostra quante persone ancora abitano in zone di guerra in Siria, e dove potrebbero scappare. Le zone viola sono quelle controllate dall’esercito siriano, quelle verdi dai ribelli e quelle grigie dall’ISIS.
A metà gennaio il governo turco, dietro le pressioni dei funzionari europei, ha introdotto la possibilità di rilasciare dei permessi di lavoro regolari ai richiedenti asilo siriani che si trovano nel paese (l’impossibilità di trovare lavoro in Turchia era stata fra le cause che avevano spinto molti siriani a spostarsi in Europa, l’estate scorsa). L’UNHCR ha parlato positivamente della nuova misura, che però riguarderà solamente il 10 per cento delle persone ospitate nei campi profughi e la cui portata non è ancora chiarissima.
Cose che non hanno funzionato
Buona parte del pessimismo del Washington Post e di altri importanti giornali come il Guardian deriva dalla scarsa efficacia delle misure prese dall’Unione Europea in questi mesi per cercare di gestire la situazione. Nell’autunno del 2015, per esempio, la Commissione Europea aveva approvato un piano di ricollocamento di alcune categorie di richiedenti asilo – cioè quelli provenienti da specifici paesi in guerra, come Siria e Afghanistan – che prevedeva che ciascun paese avrebbe ospitato un numero di persone deciso da un sistema di “quote”. Oggi il piano è considerato un fallimento: al 16 febbraio sono state ricollocate meno di 600 persone delle 160mila previste in origine. Sta procedendo a rilento anche la creazione dei cosiddetti “hotspot”, cioè punti di rapida identificazione e accoglienza dei migranti che arrivano per mare in Italia e Grecia, per contenere più efficacemente il loro flusso: dei sei hotspot previsti in Italia ne sono stati aperti solamente due, a Lampedusa e Trapani, e uno solo in Grecia, sull’isola di Lesbo.
In questi mesi il piano di ricollocamento e la creazione degli hotspot – così come altre iniziative di accoglienza e gestione del flusso, come l’invio di beni e poliziotti ai paesi di confine – sono stati spesso osteggiati da diversi paesi dell’Europa orientale, che tuttora fanno molta resistenza per timore di dover gestire un’integrazione impopolare in contesti già molto difficili. Lunedì 15 febbraio i governi di Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria, Slovacchia, Macedonia e Bulgaria si sono incontrati a Praga, in Repubblica Ceca, per tenere un summit sul tema dell’immigrazione. Secondo il Guardian il loro piano «prevede di esportare il modello ungherese dei recinti di filo spinato nei Balcani, di chiudere la frontiera macedone con la Grecia e insomma di “lasciare fuori” moltissimi richiedenti asilo, finché siano in seguito riportati in Turchia». Un incontro del blocco opposto – cioè della decina di paesi europei a favore di un piano più accogliente – con le autorità turche era previsto per giovedì 18 febbraio a Bruxelles, ma è stato annullato in seguito alla decisione del primo ministro turco Ahmet Davutoğlu di rimanere in Turchia dopo l’attentato avvenuto di Ankara mercoledì 17.
La posizione dei paesi dell’Europa orientale era perlopiù minoritaria, ma sta lentamente guadagnando nuovi consensi (Politico spiega anche che il problema comune dei migranti ha rafforzato la collaborazione fra questi paesi): secondo diversi funzionari europei contattati dal Guardian, oggi la maggioranza dei paesi europei si oppone alle politiche di accoglienza proposte dalla Germania, che da circa un anno ha promesso di accogliere tutti i richiedenti asilo siriani che arrivino in territorio tedesco.
Secondo il Guardian le molte difficoltà e lentezze delle contromisure europee stanno infatti avendo effetti negativi anche sui paesi che in questi mesi si sono impegnati per far funzionare il piano: la Svezia, uno dei paesi europei storicamente più accoglienti verso i richiedenti asilo, a fine gennaio ha detto che introdurrà nuovi controlli alle proprie frontiere e che stima di rifiutare un numero più alto del solito di richieste di asilo. Pochi giorni fa l’Austria, che finora ha accolto un numero di richiedenti asilo pari in proporzione a quello della Germania, ha detto che rafforzerà ulteriormente i controlli ai propri confini e che ammetterà all’interno del proprio territorio un massimo di 3.200 migranti al giorno. Il ministro degli Interni austriaco ha parlato esplicitamente della volontà di innescare un “effetto domino” che prevede altre restrizioni nei paesi balcanici, che già in passato si erano detti disposti ad innalzare i controlli ai confini nel caso fossero stati aumentati da paesi vicini.
Qualche previsione
È difficile prevedere quante persone arriveranno in Europa nel corso della primavera e dell’estate del 2016: molto dipenderà da quanto funzionerà l’accordo della Commissione Europea con la Turchia, dalle capacità dei paesi più accoglienti di superare le difficoltà e quindi lasciare aperti i confini, e più alla lunga delle prospettive di pace in Siria. Balanche ipotizza che nel corso del 2016 in Europa possano arrivare almeno un milione di migranti, ma è una stima a spanne. Praticamente nessuno sostiene che la “crisi” sia finita: a gennaio sono arrivati per mare più di 65mila persone, contro le circa 5mila arrivate nel gennaio del 2015. Solamente nel 2016, più di 400 persone sono morte cercando di entrare in Europa per mare.