Clinton può davvero perdere le primarie?
Se lo chiedono in molti, dopo la sconfitta in New Hampshire e l'ascesa di Bernie Sanders: per il momento, dati e contesto alla mano, è ancora la favorita
Nell’aprile del 2015, quasi un anno fa, Bernie Sanders annunciò di volersi candidare alla presidenza degli Stati Uniti per i democratici davanti a un piccolo gruppo di giornalisti in un prato nei pressi del Campidoglio. Nessuno gli diede molto credito: Sanders ha 74 anni, si definisce da sempre un “socialista” e non si è mai registrato ufficialmente al Partito Democratico, preferendo presentarsi alle elezioni da indipendente. Pochi giorni dopo l’annuncio i sondaggi davano Sanders attorno al 5 per cento su base nazionale, circa la metà di quanto assegnavano al vicepresidente in carica Joe Biden, che ancora non aveva deciso se candidarsi o meno.
Questa settimana, dieci mesi dopo, Sanders ha vinto nettamente le primarie democratiche del New Hampshire, uno stato tradizionalmente moderato e che spesso ha votato per il candidato che sarebbe diventato presidente. Oggi Sanders ha messo in piedi un’organizzazione capillare ed efficientissima per raccogliere piccole donazioni, compare regolarmente come ospite nei principali talk show televisivi – come il Late Show con Steven Colbert, pochi giorni fa – e ha percentuali di gradimento altissime fra gli americani che hanno meno di 40 anni. Secondo diversi giornalisti americani, tutto questo sta complicando e molto la situazione del candidato ancora oggi favorito per ottenere la nomination dei Democratici: Hillary Clinton.
Qual è il problema
Come nel 2008, quando perse la nomination contro l’allora semi-sconosciuto senatore dell’Illinois Barack Obama, Clinton ha iniziato questa campagna elettorale da favorita. Come sottolineato da molti esperti di politica americana, Clinton è forse la persona più preparata e autorevole che si sia mai candidata alla presidenza: è già stata senatrice, first lady e Segretario di Stato, ha moltissimi contatti e rapporti influenti con finanziatori, capi di stato esteri ed esperti in qualsiasi campo, e da anni ha un’organizzazione ben rodata nel corso di passate campagne elettorali.
Negli ultimi mesi ha però avuto tre grossi problemi, riassunti sul Washington Post in un recente articolo della giornalista di destra Jennifer Rubin: per prima cosa ha dovuto gestire uno scandalo molto fastidioso sulla maldestra gestione del suo account mail privato durante il suo mandato da Segretario di Stato, durante il quale ha preferito mantenere il suo vecchio indirizzo al posto di utilizzare quello governativo, meglio protetto. Secondo, è stata superata a sinistra da Sanders e da buona parte del Partito Democratico, data la generale polarizzazione della politica americana in corso da anni anche fra i Repubblicani. Terzo, sempre secondo Rubin, Clinton è la candidata giusta per il momento storico sbagliato, per via dei suoi stretti e noti legami con l’attuale establishment politico e finanziario statunitense.
Beth Myers, una consulente politica Repubblicana, ha sintetizzato a Politico in tre righe gli attuali problemi di Clinton, secondo i suoi avversari: «La sua disonestà sul caso delle mail ha generato un problema legale che continua ad espandersi. La sua candidatura è un’espressione di Wall Street in un ciclo elettorale che sembra preferire i candidati anti-establishment, e i suoi messaggi poco definiti si scontrano con un elettorato che cerca una visione netta». Anche diversi Democratici, molto più benevoli nei confronti di Clinton, ammettono che qualcosa non sta funzionando: Robert M. Shrum, un ex stratega Democratico, ha spiegato che «la sua sfida è intrecciare una visione che raggiunga i cuori ma anche le teste della gente, e convincerli che in termini molto pratici le loro vite e aspettative saranno molto diverse se lei – e loro con lei – vinceranno le elezioni». «La gente vuole sentirsi ispirata, e in questo momento Hillary Clinton non sta riuscendo a farlo», ha spiegato il sondaggista Lee Miringoff.
Dati alla mano
Altri analisti ancora – e lo stesso capo della campagna di Sanders – sottolineano che in realtà per Sanders la parte difficile inizia adesso. Iowa e New Hampshire, i due piccoli stati in cui si tengono le prime due elezioni primarie delle campagne presidenziali, sono funzionali ai candidati meno conosciuti perché permettono di attrezzare una candidatura competitiva con una cifra contenuta, e quindi ottenere attenzioni del pubblico e della stampa con uno sforzo relativamente basso.
Inoltre Iowa e New Hampshire assegnano una piccolissima parte dei delegati che servono ai candidati Democratici e Repubblicani per sostenere la loro candidatura durante i congressi estivi, la cui maggior parte va ottenuta in stati più grossi e “difficili” da ottenere se si è relativamente conosciuti. E non sono nemmeno troppo rappresentativi della popolazione americana, dato che sono abitati in maggior parte da bianchi. Diversi candidati “minori”, inoltre, ricevono raramente attenzioni scrupolose dalla stampa prima di ottenere buoni risultati alle prime primarie. È per questi motivi che non è insolito che candidature considerate promettenti dopo la prima tornata si sciolgano poi tra marzo e aprile. Nel caso dei Democratici, Sanders non ha ancora dimostrato di avere una campagna elettorale radicata anche negli stati più “eterogenei” e che assegnano molti delegati, e ancora non è stato oggetto di nessuna storia giornalistica particolarmente spinosa né di attacchi dai Repubblicani.
A ben guardare, ancora oggi, Clinton ha invece dalla sua parte moltissimi dati che spingono a considerarla favorita per la nomination: secondo un recentissimo sondaggio dell’istituto Public Policy Polling, la candidatura di Clinton su base nazionale è sostenuta dall’82 per cento degli afroamericani contattati – Hillary e Bill Clinton hanno una storica popolarità fra gli afroamericani – oltre che dalla netta maggioranza degli elettori bianchi e ispanici. Anche in termini elettorali, il mese di marzo – durante il quale voteranno alle primarie Democratiche 30 stati, che assegneranno il 54 per cento dei delegati alla convention finale – dovrebbe essere tendenzialmente favorevole a Clinton. Come ha spiegato Chris Cillizza sul Washington Post, «fra questi, in 9 stati del sud – Alabama, Arkansas, Georgia, Tennessee, Texas, Louisiana, Mississippi, Florida e North Carolina – Clinton sarà la netta favorita, mentre altri tre, e cioè Oklahoma, Virginia e Missouri, dovrebbero essere demograficamente favorevoli a Clinton».
Di base, quindi, sono favorevoli a Clinton praticamente metà degli stati in cui si vota a marzo, compresi diversi stati in cui si vota in contemporanea l’1 marzo durante il cosiddetto Super-Tuesday – occasione in cui Clinton potrebbe quindi ottenere un po’ di attenzione positiva della stampa – e tre stati in particolare che esprimono un numero molto alto di delegati, come Florida, Texas e North Carolina. Clinton inoltre è nettamente in vantaggio anche nei rimanenti stati in cui si vota a febbraio, cioè Nevada e South Carolina, con distacchi superiori ai venti punti (anche se le ultime rilevazioni sono state effettuate prima del New Hampshire). Cillizza ritiene insomma che «la strada che porta a una candidatura Sanders, sebbene non c’è dubbio che esista, non è affatto larga».
In South Carolina, Sanders ha piano piano ridotto la propria distanza da Clinton, che però fino a due settimane fa era ancora di circa 30 punti
Per Cillizza, l’unica speranza per Sanders è provare a vincere nei dieci stati in cui a marzo si vota nei cosiddetti “caucus”, nei quali rappresentanti di entrambi i candidati devono convincere ciascun elettore che si presenta a votare. Cillizza spiega che i rappresentanti di Sanders dovranno riuscire a convogliare «l’energia e la passione» di cui attualmente godono i suoi sostenitori, galvanizzati dai recenti successi: una prospettiva per il momento un po’ fragile.
Cosa deve fare Clinton per vincere, quindi?
Fondamentalmente cercare di controllare i danni, almeno per adesso: e quindi cercare di tenere per sé i voti degli afroamericani e battere qualche colpo a sinistra per provare ad attirare qualche elettore di Sanders, o almeno tenerseli buoni in vista delle elezioni vere e proprie. Clinton ha iniziato a farlo già nel discorso in cui ha ammesso la sconfitta in New Hampshire, durante il quale ha insistito molto sulle diseguaglianze sociali e ha provato a girare a suo favore le accuse sulla sua vicinanza con la finanza, spiegando: «Lotterò per tenere a bada Wall Street, e sapete che c’è? So bene come si fa». Nello stesso giorno delle primarie in New Hampshire, la campagna di Clinton ha anche diffuso un nuovo spot diretto esplicitamente agli afroamericani. Già da mesi, comunque, Clinton sta incontrando diversi attivisti per i diritti dei neri ottenendo molto sostegno.
Sanders sta comunque già provando a rimediare alla sua scarsa popolarità fra le minoranze, e nello specifico fra gli afroamericani. Il New York Times ha fatto notare che la settimana scorsa ha incontrato il noto reverendo e attivista per i diritti dei neri Al Sharpton e che successivamente ha ottenuto sia il sostegno di Ta-Nehisi Coates – un giovane giornalista afroamericano dell’Atlantic molto rispettato – sia quello del cantante e attivista Harry Belafonte.
E se…?
Nei giorni precedenti alle primarie in New Hampshire, è circolato molto un articolo di Politico che sosteneva che lo staff di Clinton sarebbe stato riorganizzato nei giorni successivi. L’articolo e le diverse voci e smentite che sono seguite sono state commentate su Twitter da David Axelrod, rispettatissimo ex capo della campagna elettorale di Barack Obama, che ha lasciato intendere che Clinton non abbia solamente un problema riguardo il suo staff: «quando lo stesso identico problema spunta fuori in campagne diverse a cui lavorano persone diverse, a quale punto il datore di lavoro ammette: “ehi, magari è colpa nostra?”».
When the exact same problems crop up in separate campaigns, with different staff, at what point do the principals say, "Hey, maybe it's US?"
— David Axelrod (@davidaxelrod) February 8, 2016