Come risolvere la crisi dei migranti
L'Economist di questa settimana fa tre proposte concrete e potenzialmente efficaci, ma è difficile che mettano d'accordo tutta l'Unione Europea
Nell’articolo di copertina del numero della settimana scorsa, l’Economist ha offerto una serie di soluzioni per risolvere la cosiddetta “crisi dei migranti”, cioè l’enorme flusso di persone che dall’estate del 2015 lascia il Medio Oriente e l’Africa per arrivare in Europa con mezzi di fortuna, attraverso la cosiddetta “rotta balcanica” (via terra) o per il canale di Sicilia (via mare). In questi mesi sono usciti diversi articoli con analisi di problemi e possibili soluzioni al problema dei migranti: l’approccio dell’Economist è interessante perché ha alcuni passaggi ben dettagliati e tiene conto degli ultimi sviluppi dell’intera vicenda, per esempio il fallimento del programma di ricollocamento dei richiedenti asilo tramite delle “quote” nei paesi dell’Unione Europea.
L’Economist scrive innanzitutto che i richiedenti asilo sono «persone ragionevoli in circostanze disperate», cioè che spesso non hanno avuto scelta fra rimanere nel proprio paese o scappare. «Nello scorso anno, per molti di quelli che sono fuggiti da Siria, Iraq e Afghanistan e altri paesi dilaniati dalla guerra, la vita era diventata intollerabile. L’Europa è un posto pacifico, ricco e accessibile. La maggior parte delle persone di suo non avrebbe intenzione di mollare tutto e ricominciare da capo in mezzo a degli sconosciuti: ma quando l’alternativa è rischiare di morire sotto i bombardamenti o per mano di fanatici armati di spade, si compie l’unica scelta razionale possibile».
A oggi, però, l’Economist dice che la situazione è «un casino», fondamentalmente perché per evitare guai più grossi praticamente tutti i migranti arrivati in Europa sono stati lasciati liberi di andare nel paese che desideravano, di conseguenza recandosi in massa in paesi ricchi come Germania e Svezia. La cosa a sua volta ha attratto un numero ancora superiore di persone, complicando molto la gestione dei flussi per i paesi di frontiera come Grecia e Italia. Il piano dell’Economist prevede passaggi chiari e parzialmente basati su programmi già esistenti: risolvere la crisi internazionale – cosa che però richiede sforzi e accordi indipendenti – e mettere in piedi un efficiente sistema di accoglienza appoggiato da tutta Europa, per poi agire rapidamente contro chi non lo rispetta.
Ok, ma come si fa ad attuare gli ultimi due?
L’Economist spiga che il primo passaggio – la creazione di «un sistema ben regolato» – va compiuto in tre mosse: per prima cosa vanno attenuati i problemi che negli ultimi mesi in particolare hanno spinto molte persone a migrare – e quindi per esempio bisogna reintrodurre consistenti aiuti finanziari ai rifugiati siriani che si trovano in Turchia, ridotti proprio nell’estate del 2015 – e successivamente cercare di gestire le richieste di asilo nei cosiddetti “hotspot” o direttamente nei paesi del Medio Oriente dove sono temporaneamente fuggiti i rifugiati, come Libano, Giordania o Turchia, principalmente per evitare viaggi rischiosi e facilitare le procedure. La terza mossa è costringere i richiedenti asilo ad aspettare l’esito della propria domanda nel paese in cui fanno richiesta, senza quindi lasciar loro raggiungere autonomamente il paese desiderato. Tutti questi passaggi, continua l’Economist, vanno effettuati in modo rapido e coordinato da tutti i paesi dell’Unione, che devono inoltre accettare ciascuno la propria quota di rifugiati, molto superiore di quelle discusse finora (si parla di circa 160mila persone a fronte di più di un milione di arrivi in tutto il 2015).
L’Economist ammette che un piano del genere costerebbe molti soldi e avrebbe bisogno di un accordo comprensivo fra i paesi dell’Unione Europea a collaborare per accogliere decine di migliaia di persone, cioè i due principali fattori che finora hanno impedito che si arrivasse a un patto esteso ed efficace. Ma l’Economist scrive anche che «raggiungere un compromesso è possibile», e che in generale moltissimo dipende proprio dai paesi europei: i richiedenti asilo probabilmente accetteranno questo piano – e quindi smetteranno di cercare di arrivare illegalmente in Europa – se capiranno che «la loro procedura verrà accettata entro un tempo ragionevole. Alcuni preferiranno ancora finire in Germania piuttosto che in Francia, ma anche in quel caso se riceveranno un’assistenza adeguata la maggior parte di loro non si sposterà più».
Una volta prese queste misure, occorrerà metterle in pratica: e quindi respingere i cosiddetti “migranti economici” – cioè le persone che fuggono da un paese considerato non pericoloso – facendo accordi con i paesi da cui provengono perché li riaccetti. Ma anche bloccare il flusso di persone che percorrono la rotta balcanica, specialmente sul confine fra Grecia e Macedonia: «negli scorsi cinque mesi è diventato chiaro che l’Europa non riesce a gestire i numeri e la natura di questo flusso migratorio, mentre gli ufficiali di frontiera lasciano passare i richiedenti asilo e gli garantiscono un passaggio sicuro verso l’Europa occidentale». Quest’ultimo passaggio può suonare un po’ duro, e infatti l’Economist precisa che sin dall’inizio della crisi la sua linea editoriale prevede l’accoglienza e l’integrazione dei rifugiati: ma spiega anche che l’approccio di questi mesi è stato eccessivamente caotico e «ha mostrato cosa succede quando i politici scelgono di non applicare una visione pan-europea a quello che è chiaramente un problema pan-europeo».
L’Economist ammette anche che questo piano presenta dei problemi – che fare ad esempio con qualche siriano “problematico”, dato che i siriani non possono essere rimpatriati? – e sottolinea più volte il dispendio di soldi e di energie da impiegare nei negoziati per mettere in piedi un sistema del genere. Fra le altre cose fa però notare che un esempio positivo di accoglienza sistematica ed efficace di un simile flusso di richiedenti asilo è già avvenuto, in passato: «quando più di un milione di persone scappò dal Vietnam dopo che i comunisti presero il potere nel 1975, inizialmente vennero lasciati in campi profughi a Hong Kong e altrove in Asia, e poi vennero spediti in America, Europa o Australia, dove sono partiti da zero ma si sono adattati in maniera incredibilmente rapida: ora le entrate medie di un americano di origini vietnamite sono superiori a quelle dell’americano medio».