Il sushi e le donne
In Giappone è un settore tradizionalmente maschile e con molti pregiudizi, ma c'è un locale a Tokyo che sta cercando di cambiare le cose
di Anna Fifield - Washington Post
È venerdì sera, e in un locale di Tokyo un gruppo di uomini beve birra alla spina ghiacciata e mangia un piatto di sushi dietro l’altro. Tutto nella norma, fin qui. Il fatto inconsueto è che i cuochi che preparano le piccole porzioni di riso con sopra il pesce sono donne. E in Giappone è una cosa più rara di un treno ad alta velocità che arriva in ritardo.
Un gruppo di donne sta sfidando l’antica concezione secondo cui fare sushi sarebbe un lavoro esclusivamente maschile. «Spero che un giorno non si parlerà più di chef di sushi uomo o donna, ma solo di chef di sushi», ha detto Yuki Chidui, che gestisce il Nadeshiko Sushi, il primo e unico ristorante di sushi del Giappone gestito interamente da donne. Gli chef di sushi, come i lottatori di sumo e le geishe, sono figure stereotipate della cultura giapponese: secondo il luogo comune dovrebbero essere uomini anziani, seri e preferibilmente pelati: come Jiro Ono, proprietario di un ristorante sushi con tre stelle Michelin e protagonista del documentario americano Jiro e l’arte del sushi. Vengono definiti “itamae” (che in giapponese significa letteralmente “davanti al tagliere”) e ci si aspetta che si esibiscano e intrattengano i clienti, mentre maneggiano il coltello. È opinione diffusa che le donne non possano essere chef di sushi perché hanno le mani troppo calde o perché non sarebbero affidabili in certi periodi del mese. Come ha spiegato Yoshikazu, figlio di Ono, in un’intervista del 2011, «per essere un professionista bisogna avere un palato equilibrato, ma a causa del ciclo mestruale le donne non ce l’hanno: per questo motivo non possono essere chef di sushi».
Con il suo kimono blu a fiori, la frangia lunga e gli occhi che brillano per il trucco, la ventinovenne Chidui di sicuro non rientra nello stereotipo. «A volte mi sento come un animale sotto osservazione. Ma la vedo come un’esibizione, una performance: devo dimostrare quanto valgo facendo un buon sushi», ha detto da dietro il bancone. Secondo Chidui, le donne hanno dei punti di forza che giocano a loro favore: «Le donne comunicano meglio, il che rende più facile relazionarsi con i clienti e creare un’atmosfera accogliente», ha detto, «E dato che le nostre mani sono più piccole, anche il nostro sushi è più piccolo. Così ha un aspetto migliore ed è più facile da mangiare».
Il personale interamente femminile del ristorante sembra però anche un modo per farsi pubblicità. Il Nadeshiko Sushi si trova nel quartiere di Akihabara, il centro giapponese per l'”otaku”, ovvero la mania per manga e anime. Le strade del quartiere sono piene di negozi di elettronica che espongono anime, sex shop e maid café, un locale tipicamente giapponese dove una giovane donna in costume da cameriera dell’Ottocento chiede ai clienti di miagolare per ordinare e disegna cuori col ketchup sul loro cibo. Se vogliono scattare una foto con le cameriere, i clienti devono pagare. Sembra che la maggior parte delle persone arrivi al Nadeshiko Sushi attratta dalla curiosità. «Non ho mai visto un sushi bar di sole donne prima», ha detto Tetsu Fuji di Hiroshima, che si trovava a Tokyo di passaggio e voleva dare un’occhiata al ristorante. Un altro cliente del ristorante, Shintaro Hori, un uomo dalla faccia rossastra, credeva che il locale fosse una specie di maid café per il sushi: «Gli uomini pensano che il sushi preparato da una donna sia più buono», ha detto prendendo un altro nigiri al tonno. Effettivamente il locale ha qualcosa in comune con i maid café: il cartello davanti al Nadeshiko Sushi è rosa e dice “Fresco e kawaii (carino, in giapponese)”, mentre il menu indica che il prezzo per una foto con il personale è l’equivalente di cinque euro e chiede ai clienti di non toccare lo staff. Le chef hanno provato diversi tipi di uniforme – tra cui il grembiule da cameriera tipico dei maid café e alcuni completi indossati da popolari girl band – prima di decidersi per vesti simili ai kimono che si chiamano “yukata”.
Più di un cliente travisa l’intenzione del ristorante. «Alcuni clienti arrivano qui e pensano di essere in un altro tipo di posto: credono sia un locale per spogliarelliste e chiedono che sia una donna in particolare a preparare il sushi», ha raccontato Chichui. Miyu Kyoda ha 19 anni, indossa un kimono rosa e ha lunghi capelli ricci che le spuntano da sotto la bandana. Le è capitato di ricevere commenti spiacevoli: «A volte i clienti mi chiedono di intrattenerli», racconta. «Pensano che sia un maid café perché siamo a Akihabara». Ma Kyoda è felice: «Per me lavorare qui è un sogno: voglio aprire un ristorante mio».
Donne come Cichui e Kyoda sono pioniere, dice Sachiko Goto, direttrice della Tokyo Sushi Academy, dove i potenziali chef di sushi possono imparare il mestiere. «In Giappone ci sono pochi chef di sushi donna», ha detto Goto, «ma quando le donne vedono modelli positivi, decidono di sfidare i pregiudizi». Circa un quinto degli studenti dell’accademia sono donne che cercano di affermarsi nel settore. L’esistenza stessa della scuola è una prova dei tempi che cambiano: le abilità nel preparare il sushi erano tradizionalmente trasmesse di padre in figlio, e spesso gli apprendisti passavano anni a lavare i piatti e portar fuori la spazzatura prima che venisse loro concesso di prendere in mano un coltello. A causa dell’invecchiamento della popolazione e della difficoltà del lavoro, però, oggi gli chef altamente qualificati sono pochi. Tuttavia, molte delle studentesse dell’accademia pensano che imparare a preparare il sushi dia loro la possibilità di trovare lavoro oltreoceano. «Generalmente, all’estero le donne sono più accettate in cucina rispetto al Giappone», ha detto Goto. «Gli chef hanno paura che le donne portino loro via il lavoro. In parte, è per questo che non vogliono donne nel personale».
Recentemente però c’era un uomo che lavorava al ristorante di venerdì sera. Il presidente dell’azienda era venuto a dare una mano perché il locale era a corto di personale. Lavava i piatti in cucina, dove non poteva essere visto.
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